Speciale
Ricette immateriali / Il Vesuvio e il piennolo
Trattasi di ricetta immateriale atipica del nostro presente, ovvero il pomodorino del piennolo come punto di partenza per infinite ricette materiali e per raccontare molto più di una tradizione
Le pendici del Vesuvio, qui a Boscotrecase, dominano e digradano dolcemente su Pompei e Torre Annunziata. Dal borgo rurale di Casavitelli, insieme alla penisola sorrentina e a tutto l’agro nocerino-sarnese, si intravvedono Capri e il Golfo di Castellammare. I monti Lattari, poi, i non lontani Picentini, racchiudono, in questa valle dalla densità abitativa altissima, con picchi di duemila residenti per chilometro quadrato, una popolazione più numerosa di città come Firenze o Bologna sommate al loro hinterland.
Certo, il Vesuvio porta alla mente Plinio, o il Leopardi della Ginestra, ma forse il paesaggio che attraverso in questa giornata, la distesa di serre e fabbriche, di orti e palazzine, la conurbazione di paesi e città senza soluzione di continuità all’orizzonte, fa pensare più di tutto a quel capolavoro della letteratura sul Meridione e l’Italia che è Donnarumma all’assalto di Ottieri. Un po’ come lo psicologo-protagonista del romanzo, scrutare questa valle dalle alture di Chiunzi o dal monte Vesuvio, oppure aggirarsi sulla statale 268, tra Angri e Poggiomarino, finisce per produrre tutta una serie di amare constatazioni: a un’area così popolosa necessitano strade, istituzioni granitiche, serie politiche progettuali, di gestione, programmazione, sviluppo, e via dicendo - registrerebbe sconfortato, con la sua acuta razionalità, lo psicologo del Donnarumma.
Insomma, è facile che dalle constatazioni si passi alle occasioni perdute e, in ultimo, alle recriminazioni. Non è più nemmeno la valle infestata dalla guerra che fa da sfondo alla città di Nofi, in Ninfa plebea di Domenico Rea, un mondo preda di quell’eros imperante capace di guidare e muovere fatalmente i destini dei protagonisti. Almeno sulle strade che solco oggi, sulla via nazionale, sulla incompleta 268 e la via Panoramica, allo sguardo le strade che uniscono l’agro al Vesuvio appaiono un coacervo eccentrico e contraddittorio, un’incessante sequenza in grado di riassumere l’ormai nota polifonia urbana meridionale, fatta di sregolatezza, caos e incredibili impennate di eccellenza.
A Boscotrecase vi approdo per incontrare l’agronomo Francesco Manzo, ultimo di quattro figli, madre casalinga e papà ex operaio negli altiforni Italsider, ora pensionato, dopo aver lavorato per una vita all’acciaieria di Bagnoli, quella narrata da un altro Rea, stavolta Ermanno.
È Francesco, che qui è cresciuto e tornato a vivere, a raccontarmi del pomodorino del piennolo. Francesco ha studiato Scienze agrarie nella vicina Portici, quella di Manlio Rossi Doria, per intenderci, e oggi, nonostante il terremoto economico e le grandi difficoltà dovute al Covid19, è un produttore e trasformatore, con la sua Officina vesuviana, di questo pomodoro locale tanto famigerato nella tradizione napoletana, quanto misconosciuto altrove, soprattutto rispetto ai più celebri pomodori San Marzano.
Piennolo, dice Francesco, viene da pendere, dallo stare appesi, ondeggianti come un pendolo, è un nome che ha a che fare con l’antica modalità di conservazione: un tempo li si conservava sotto le logge, in cantina, nei luoghi più freschi e asciutti, così la buccia coriacea del pomodorino consentiva la sua conservazione per buona parte dell’anno.
Va da sé che nella terra dell’eccellenza alimentare, dei pastifici, delle mozzarelle e delle panificazioni, della pasta di Gragnano, del Lacryma Christi e della pizza, il piennolo, denominazione di origine protetta dal 2009, veniva usato per una quantità infinita di ricette, per cui sul suo uso non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Grazie al furgone di Francesco riusciamo a inerpicarci nelle viuzze dissestate del Parco del Vesuvio per vedere i suoi campi. Oggi c’è un caldo afoso, tuttavia una volta saliti a trecento metri di altitudine il clima si fa più secco rispetto alla valle. Dal bosco proviene un vento fresco, sebbene il terribile incendio del 2017 abbia ridotto e indebolito la pineta circostante, bruciando una quantità enorme di alberi fino a Torre e Ercolano, per decine di chilometri. A distanza di tre anni, alla fine della via panoramica, si vedono dei pavidi tentativi di rimboschimento finiti in piante bruciate anzitempo, seccate dal sole, quasi sul ciglio della strada. La via panoramica vesuviana poi è letteralmente disseminata di vistosi ristoranti per cerimonie, dagli interni curati, a cui corrisponde uno spazio esterno assolato, dove all’improvviso è possibile imbattersi in cumuli di rifiuti abbandonati. Abbiamo dovuto chiudere i campi, conferma Francesco, per la paura degli sversamenti abusivi, partiti con la crisi dello smaltimento rifiuti degli anni passati e mai più rientrata. Ogni mattina non sai cosa puoi trovarci nei campi, la campagna vesuviana oggi è considerata dai più una discarica, questa è la realtà purtroppo, dice il mio accompagnatore con un accenno sconsolato.
Salendo verso il monte, attraversiamo la maggior parte dei terreni di questo versante ormai incolto, i vecchi campi agricoli sono coperti da sterpaglie e arbusti, e le strade per raggiungerli quasi del tutto impraticabili. Nel parco del Vesuvio i terreni agricoli hanno un costo di mercato esorbitante, e spesso i proprietari preferiscono non affittarli agli agricoltori, e come se non bastasse non vi è per le aziende la possibilità di attingere l’acqua per l’irrigazione da acquedotti né da pozzi. Di contro, ai piedi di quello che resta della pineta, tra le antiche colate di lava vesuviane dell’800 e del ‘900, ecco i campi ordinati e squadrati dell’Officina di Francesco. È questo il luogo in cui ha avviato le sue sperimentazioni per la stabilizzazione di alcuni ecotipi in aridocoltura, pomodori coltivati in assenza d’acqua irrigua, collaborando col Dipartimento di genetica agraria di Portici, oppure col Centro orticolo campano e altre associazioni. All’ombra di questo bosco distrutto, dunque, fiancheggiato da vecchi letti di lava, albergano i suoi tentativi di vivere lavorando per la salvaguardia e diffusione della biodiversità agricola vesuviana.
Tutto questo, indica Francesco dopo aver messo una mano nella terra per ricacciarne sabbia, nasce da questa sabbia grigia, senza grandi lavori strutturali, solo con la manodopera – non so come spiegarlo – questa coltivazione marginale ti mette in relazione col vulcano e col mare, è difesa del suolo, e in questi anni mi ha mostrato che produrre nutrimento nel rispetto dell’ambiente insegna a interagire, a essere meno “uomini” e più “esseri viventi”, per un disegno se possibile più ampio, fatto di equilibrio, conclude alleggerito il mio interlocutore.
Prima di rientrare Francesco ci tiene a mostrarmi dell’altro, mi assicura che ci vorrà poco. Infatti in cinque chilometri e qualche minuto di orologio siamo in riva al mare, tra Castellammare e Torre Annunziata, in una zona industriale ormai deserta, dove si apre un lunghissimo litorale di spiagge nere su cui si abbatte il Tirreno agitato dal maestrale. Neanche il tempo di parcheggiare e subito un signore anziano, rossiccio e sdentato, in sella a una vecchia mountain bike, chiede un contributo per la spiaggia, l’ha pulita lui con i figli, dice. In effetti sua moglie di fronte vi gestisce questo vecchio chiosco ambulante dove vende granite, e all’ombra del quale, in una piccola piscina gonfiabile, si agita una bambinetta di qualche mese, guardata a vista dai giovani genitori.
Siamo tra lo splendore e l’abbandono, ecco le contraddizioni e le occasioni che Francesco forse voleva mostrarmi. Qui, in mezzo a popolazioni dal reddito pro capite molto basso, transitano milioni di turisti all’anno diretti a Pompei, Capri e Sorrento, continua la mia guida, e se questa cosa la pensiamo io e te che non siamo nessuno, non è possibile che non la pensi chi è pagato per farlo, si tratta di un bene comune, di far funzionare i depuratori per restituire il mare alle persone.
Il tempo è volato in compagnia di Francesco. Di ritorno, dopo questa lunga giornata calda e un sole finalmente calante, sulla solita strada 268 che taglia la valle del Sarno fino ad Angri, scorrono, uno attaccato all’altro, i paesi di Scafati, San Marzano, San Valentino, Pagani, Nocera.
Alle rotatorie scorrono cartelli pubblicitari, insegne luminose, roghi, facce di aspiranti candidati alle prossime e imminenti elezioni regionali, accompagnati da slogan similmente improbabili.
Durante una pausa per la benzina istintivamente vado a scrutare il telefono, come al solito guardo Facebook, Instagram, Twitter, anche le applicazioni a loro volta scorrono come tante slot machine, e poi scorrono le facce e i profili di amici e sconosciuti.
Non posso fare a meno di pensare a tutto questo scorrere e alle parole con cui Francesco mi ha salutato: non voglio nulla, solo la possibilità di lavorare, finché resisto io continuo, ma non è giusto lavorare in queste condizioni.
Francesco ha la scorza dura proprio come i suoi pomodorini del piennolo, non mollerà facilmente, vien fatto di pensare, eppure la tentazione di partire non dev’essere così remota. Ancora però, ragionando su questi luoghi mi sovviene lo psicologo-protagonista, ritornano le parole di Ottieri in Donnarumma all’assalto:
(…) paesi pittoreschi, di isole dal profilo famoso, di porti e antichità, di fenomeni naturali. Del popolo più originale del mondo. (…) Ma Torre ha sessantamila abitanti, il paesello di Santa Maria quarantamila; (…) Il popolo stesso, moltiplicandosi, occupa sempre nuovo spazio per abitare, non per coltivare, come alla periferia di una città. (…) più di ogni altra popolazione del mezzogiorno, essi pongono esigenze cittadine e urbane. (…) Ora qui si spreca una mano d’opera senza opera, una popolazione industriale senza industria.
(…) E Donnarumma?
Donnarumma è pazzo, dottore!