Un film dei Manetti Bros. / Diabolik. Un incubo a fumetti

6 Gennaio 2022

Diabolik dei Manetti Bros. è un film che ha diviso, soprattutto i critici, schieratisi in clan e fazioni. Un punto su cui mi pare di poter dire siano tutti d’accordo è che, alla base di questa divisione, ci sia una serie ben precisa di scelte di direzione artistica, che per alcuni sono un elemento positivo, per altri costituiscono invece la causa del naufragio del film e un’occasione sprecata. Prima ancora che un film riuscito o meno, quindi, Diabolik è un film spiazzante, proprio perché altro rispetto a ciò che la quasi totalità dei critici e degli spettatori si attendeva. Lontano – come lo è per sua natura il mondo creato dalle sorelle Giussani nel 1962 ed edito dalla Astorina – dall’estetica accumulativa dei cinecomics dell’ultimo decennio, distante da ogni tentazione action, il film dei Manetti è deliberatamente sotto ritmo, quasi ingessato. Ironia della sorte, slittato di un anno rispetto all’uscita prevista causa Covid, Diabolik arriva in sala contemporaneamente a Spider-Man: No Way Home, ultimo prodotto del Marvel Universe, segnato invece da un approccio al fumetto che si colloca totalmente agli antipodi.

 

I Manetti Bros. (seduti) con Miriam Leone e Valerio Mastandrea.

 

Vediamo quindi di descrivere questo insieme di scelte così inaspettate, per poi capirne ragioni e soprattutto conseguenze. Il primo elemento che colpisce, come detto, è la staticità, aspetto che si nota con maggiore forza dato che si tratta di un film (anche) di azioni e di inseguimenti e – essendo Diabolik, in fondo, un ladro – di un heist movie caratterizzato da colpi spettacolari. Invece, proprio lì dove ci si aspetta ritmo e spettacolo, nelle scene d’azione, il film dà l’impressione di rimanere fermo. Prendiamo la sequenza iniziale: tra le vie di Clerville, la Jaguar di Diabolik sfreccia inseguita dalla polizia e dall’ispettore Ginko, tra trucchi, botole, pedane e gas letali. Eppure, la scena appare svuotata di ritmo, con una dinamica sfumata e flemmatica. 

 

Poi, la recitazione. I tre attori principali sono monocordi e talvolta atoni, mentre i personaggi di contorno (come il viceministro Caron interpretato da Alessandro Roja) è enfatica e poco credibile. E questo è, ripetiamo, una scelta, non un incidente o un dettaglio sfuggito di mano, perché per tutte le due ore e passa del film, l’approccio degli attori non cambia mai e il tono rimane coerente. Inoltre, i dialoghi in nessun caso si sovrappongono tra loro, come fossero dei balloon da fumetto ben staccati gli uni dagli altri. Questo primo blocco di scelte di regia sembra una sorta di ossequio non tanto al personaggio, quanto al medium, al fumetto classico, come se i due registi avessero tentato un esperimento interessante, cioè di congelare il dinamismo dell’immagine cinematografica per ricreare la staticità delle tavole del fumetto. 

C’è poi il secondo insieme di scelte artistiche, che invece riguarda il rispetto filologico dell’ambientazione di un fumetto che è indubbiamente un prodotto delicato da maneggiare: un mito che nella storia della cultura pop italiana occupa un posto di rilievo quantomeno per l’impatto culturale e la longevità. Possiamo non averne mai letto un albo, ma un po’ come succede per Tex, impossibile non conoscere un appassionato o un cultore e impossibile non averne mai sfogliato o maneggiato una copia. Nel film di Marco e Antonio Manetti, gli anni ’60 “sospesi” di Diabolik, concentrati nel non-luogo di Clerville, che condensa alla perfezione tutte le deformazioni dell’Italia del boom economico sono ricostruiti mirabilmente, con un lavoro scenografico (della bravissima Noemi Marchica) e sui costumi (di Ginevra De Carolis) davvero notevole.

 

 

Fin qui, la conta dei dettagli spiazzanti e delle (possibili) ragioni dietro a queste scelte, che però indicano un elemento importante: Diabolik, nonostante le scomuniche, è un progetto che ha una regia e che prende posizione. E già non è poco. A questo punto, però, diventa decisamente poco interessante riflettere su quanto queste scelte determinino un film “giusto” o meno, mentre decisamente più interessante è ragionare su che cosa queste scelte facciano risuonare.

Nell’ambito di questa radicale staticità, l’impressione è che rimbombino diversi elementi potenti e non comuni nel cinema italiano, e che quasi tutti questi “sappiano di morte”.

Anche in questo caso, conviene partire da una scena. Nell’hotel di Clerville dove soggiorna Lady Kant, il cameriere che le è stato assegnato si vanta con gli altri due di essere stato designato per assistere personalmente la bella ereditiera. Un’inquadratura ci rivela il dettaglio di un microfono che sta registrando la conversazione. Stacco: Diabolik ripete le stesse parole, poi preme play su un mangianastri e le riascolta, per poi ripeterle. Tutto viene ripetuto e ci viene mostrato più volte, in barba qualsiasi convenzione ellittica, mentre un leggero zoom all’indietro ci rivela il totale della stanza. Luca Marinelli, ossessivamente, con occhi sbarrati e vuoti, continua a pronunciare la stessa frase, con la stessa identica intonazione, e intanto guarda al di là dello schermo, al di là di qualcosa di imperscrutabile. Non solo questa sequenza ci rivela il lato nevrotico, quasi psicotico del personaggio, ma ne sottolinea alcuni elementi che sembrano costituire l’asse più denso di spunti che sorregge il triangolo centrale del film, quello che lega i tre personaggi principali. Perché nel mondo immaginario di Clerville, ieratico, quasi cristallizzato in una fissità mortale, si muovono tre figure che nell’ambito del cinema italiano risultano decisamente originali e che sono in qualche modo legate tra loro da un sistema di relazioni complesso.

 

 

I tre personaggi sono, ovviamente, Diabolik, la sua nemesi Ginko, che ha il volto dolente e malinconico di Valerio Mastandrea, e quella che a tratti sembra la vera protagonista del racconto, Eva Kant, perfettamente interpretata da Miriam Leone. Mentre quest’ultima è sorretta da una origin story convincente e strutturata, il Diabolik di Luca Marinelli è un non-morto che attraversa la vita e maneggia l’omicidio con un’indifferenza glaciale, la stessa indifferenza spersonalizzata che lo caratterizza nella sequenza della frase ripetuta; privo di ogni forma di ironia, senza alcun profilo di spavalderia spaccona, è come un fantasma spogliato di ogni ispirazione positiva. Il suo sguardo è fisso e immutabile, la sua bocca perennemente chiusa in una smorfia contratta che mai, nemmeno per un secondo, accenna a un sorriso. Non sapendo nulla del suo passato, il Diabolik formato Manetti Bros. sembra quasi un maleficio piovuto sull’alta società, l’incarnazione delle paure e degli incubi di un’intera classe di approfittatori, corrotti, parassiti e menefreghisti, che non a caso lo evocano come uno spauracchio, parlandone con terrore nei loro salotti prestigiosi. Attenzione, però: nel suo nichilismo radicale, il volto di Marinelli non assume mai un significato sociale o politico, non è riparatore di ingiustizie, non è un vendicatore rivoluzionario, è solo la materializzazione di un incubo. 

Ci sono solo due momenti in cui la mortifera glacialità del re del terrore sembra tornare a sentire lontanamente la vita. Il primo è naturalmente l’incontro con Eva, che da preda diventa compagna, unica in grado di scalfirne la misantropia, e che è a sua volta una donna costretta per sopravvivenza ad attraversare l’esistenza coperta di spregiudicata insensibilità. L’incontro con Eva Kant è soprattutto un incontro di sguardi, di occhi spenti che si accendono nell’incrocio e che brillano solo quando sentono la vita, cioè a un passo dalla morte. Per lei, come per Diabolik, il limite oltre il quale si può tornare a “sentire” è decisamente estremo e avviene nel momento in cui la posta in palio diventa assoluta, totale. 

Il secondo momento vitale, per Diabolik, riguarda Ginko, la fuga perenne cui il poliziotto lo costringe e il duello finale tra i due. Uno degli elementi opportunamente enfatizzati nel film dei Manetti, e sicuramente fra i dettagli di maggior interesse, è che Diabolik ha bisogno di Ginko e questa necessità è ben diversa da un cavalleresco rispetto per il nemico, è un’urgenza insopprimibile, è il limite estremo che, avvicinandosi sempre di più, tiene in vita il ladro. E finisce per tenere in vita anche Ginko, che sembra, più volte, nella malinconica rassegnazione di Mastandrea, non voler catturare veramente Diabolik, che rappresenta il desiderio di cui in fondo ha bisogno e che per continuare ad esistere deve rimanere insoddisfatto.

Oltre alla morte come filo sottile che lega i personaggi, un altro elemento ricorrente nel film è la maschera: Diabolik, oltre a quella che, parte del suo costume nero, ne copre il volto, ne indossa altre, create per prendere il posto di personaggi che spesso si trova ad uccidere. 

Anche Eva, in fondo, indossa una maschera, celando il suo passato e i suoi segreti dietro all’indifferenza della raffinata ereditiera. Non originale, ma sicuramente suggestivo è il fatto che sia lei, sia Diabolik, non indossino maschere che celano, bensì maschere che rivelano, che mostrano gli elementi più profondamente autentici che sono rimasti in loro.

Come se dietro quegli sguardi e dietro quelle maschere si celasse, come dice la bella canzone di Manuel Agnelli posta sui titoli di coda, “la profondità degli abissi”, una profondità preziosa per il cinema italiano, a prescindere dalle oziose misurazioni su quanto sia riuscito o meno un film così coerente e coraggioso.

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