Brian Friel tradotto da Daniele Benati / Il gran teatro delle illusioni
Brian Friel (1929-2015) è stato uno dei più grandi drammaturghi di lingua inglese, le cui opere sono state regolarmente rappresentate nei maggiori teatri del mondo, quasi sempre partendo dall’Abbey Theatre di Dublino, per poi approdare al London’s West End e a Broadway. Dopo i primi successi in Irlanda, il pieno riconoscimento internazionale arriva con Philadelphia Here I Come (1964), a cui seguono, tra le altre, Lovers (1967), The Freedom of the City (1973), Faith Healer (1979) e Translations (1980). Dal suo Dancing at Lughnasa, del 1990, vincitore di tre Tony Awards tra cui miglior opera, il regista Pat O’Connor ha tratto il celebre film omonimo, con Meryl Streep. Friel è stato il fondatore, insieme all’attore Stephen Rea (vi aderirà poi anche Seamus Heaney), della Field Day Theatre Company, una compagnia di teatro itinerante che si proponeva di creare uno spazio di unità per gli irlandesi, in risposta alle lotte intestine tra cattolici e protestanti, repubblicani e unionisti che hanno insanguinato l’isola fino ad anni recenti.
È uscita ora per Marcos y Marcos la raccolta di racconti Tutto in ordine e al suo posto, traduzione e cura di Daniele Benati, autore anche di una ricca postfazione, a cui rimando. Il libro unisce dieci storie brevi uscite sul New Yorker e sul Saturday Evening Post a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, poi pubblicate da Friel prima con il titolo di Selected Stories (1979) e poi con quello di The Diviner (1983), di cui quest’edizione ha anche il merito di conservare il rapporto con l’immagine di copertina, entrambe dell’artista irlandese Martin Gale. I racconti di Tutto in ordine e al suo posto dunque precedono e preparano il successo di Friel come drammaturgo. Leggendoli risulterà chiaro, ma sempre sorprendente, perché a un autore irlandese ancora sconosciuto fosse concesso di scrivere sul New Yorker, in un’epoca in cui ci scrivevano, fra gli altri, Philip Roth e John Updike. Tanto più sorprendente se si pensa che Friel adotta una forma tradizionale di short story, facendo un passo indietro rispetto allo sperimentalismo di Samuel Beckett e Flann O’Brien, ispirandosi invece ai grandi scrittori russi dell’Ottocento, come Čechov e Turgenev, che rappresenterà anche a teatro.
Quelli raccolti in Tutto in ordine e al suo posto sono racconti magistrali per la facilità che Friel ha nel far entrare immediatamente il lettore dentro la storia nelle primissime righe di ogni racconto, come se si accendesse una luce sul palcoscenico. I personaggi si rivelano via via con piccoli tocchi, che finiscono col creare in chi legge l’impressione di conoscerne per intero le vite – come avviene solitamente in un romanzo, mentre qui Friel lo fa nella forma breve del racconto. Friel disvela a poco a poco i personaggi attraverso brevi cenni, che richiedono estrema attenzione: tutto conta in questi racconti, nessun particolare è casuale o superfluo. Friel infatti non spiega, preferisce rappresentare i suoi personaggi lasciandoli muovere sulla scena che la sua scrittura ricrea con grande sapienza: è dai loro gesti, dai loro atteggiamenti, dalle frasi ripetute e dai pensieri rivelati che chi legge capisce dove si andrà a parare e che cosa Friel ci sta dicendo.
Friel lavora soprattutto per immagini e la resa psicologica sta proprio nei dettagli descrittivi: è tramite i dettagli esteriori che si aprono squarci sull’interiorità dei personaggi, ponendo il lettore di fronte a situazioni che sono certamente familiari a ciascuno, ma che raramente si tende a riconoscere: l’affettuosa riconnessione con un luogo del passato, il tentativo di salvare le apparenze, l’invidia per l’altrui condizione, il desiderio di primeggiare per rimediare ad altre mancanze, l’immaturità sentimentale o emotiva. Leggendo si riconosce con chiarezza l’Irlanda povera e rurale degli anni ’40: la pesca illegale di salmoni, i bambini raccoglitori di patate, le comunità chiuse e bigotte (il vociare di paese è reso splendidamente da Friel nel suo autogenerarsi, gonfiarsi, diffondersi rapidamente e scoppiare nel nulla), smascherate da figure di marginali, ciarlatani, maghi o rabdomanti. Si sentono i suoni del gaelico, si riconoscono i paesaggi irlandesi tra le colline e l’Atlantico, le torbiere, le valli delle allodole e le varie contee, città e villaggi, da Tyrone al Donegal, da Omagh a Killarney, da Dublino a Cork. Eppure queste storie mettono in scena una varietà di temi e situazioni di tale umanità che potrebbero essere capitate ovunque, a chiunque e in qualunque epoca.
Sono racconti che parlano del rapporto col tempo che passa, coi ricordi, del rapporto con gli altri e con noi stessi, ma soprattutto dell’immenso e contraddittorio potere dell’immaginazione che plasma la memoria, che può creare maschere, finzioni e malelingue, alimentare fissazioni e manie, ma anche dare vita a giochi e magie, generare fantasie e progetti futuri, proteggere dall’asprezza del vivere, rassicurare dalle paure, persino far vedere un possibile superamento della morte, nel ripetersi della vita in chi viene dopo di noi.
È ciò che accade ad esempio in Fra le rovine, dove il rapporto col tempo si dipana in tutti i suoi aspetti: partendo dal ritorno del protagonista Peter alla casa dove aveva trascorso l’infanzia, si passa prima attraverso l’immersione completa nel passato immaginato (con tanto di imbambolamento nei pensieri e risa tra sé, come se Peter rivivesse ciò che è stato), si piomba poi nella delusione causata dalla privazione del passato idealizzato di fronte alla verità del luogo nel presente e si scopre infine il passato ritrovato, cioè il senso del passato come continuità, come ripetersi della vita, resa dall’immagine del figlio che gioca nel luogo dove Peter giocava da piccolo. Sono temi anticipati già in Foundry House, dove però il protagonista Joe Brennan, tornato a vivere nella casa della sua infanzia, sceglie di non affrontare il dolore del tempo che passa, trincerandosi dietro l’illusione di un’assenza della dimensione temporale, di una fissità del tempo e delle persone: così negherà l’evidenza degli effetti del tempo sul vicino di casa signor Bernard, ormai vecchio e malato e quasi incapace di parlare.
Le illusioni, come prodotto dell’immaginazione, sono ovunque nel libro: dall’illusione di potersi ricreare una onorabilità di Nelly Devenny in Il rabdomante, al racconto Gli illusionisti, dove i trucchi del mago nomade M L’Estrange incantano gli alunni della scuola elementare del piccolo paese di Beannafreaghan e generano nel bambino narratore la voglia a sua volta illusoria di seguire il prestigiatore nei suoi pellegrinaggi. Qui si vede anche la straordinaria sapienza narrativa con cui Friel restituisce l’incomunicabilità tra il padre del bambino e il prestigiatore, con la trovata tragicomica (e già teatrale) del passaggio dal dialogo ai monologhi simultanei e paralleli con cui i due espongono i rispettivi presunti meriti, senza ascoltare quello che dice l’altro.
Le illusioni tornano altrove sotto forma di ambizione, brama di possesso o di vittorie, ad esempio nei “racconti di animali”, l’illusione di vincere una gara di colombi con metodi innovativi in Il sistema della vedovanza, o di allevare il gallo più forte d’Irlanda in Ginger l’Eroe, o ancora la brama di succedere all’anziana suocera come proprietario di una ricca fattoria nel racconto, che dà il titolo al libro e chiude la raccolta, Tutto in ordine e al suo posto. Episodi che mascherano i misteri interiori dei protagonisti. E ancora illusioni che alleviano le pesantezze, come nei pescatori di L’oro in fondo al mare, che credono al racconto del vecchio Con di una barca naufragata piena di lingotti, convinzione/illusione che è bene non spezzare, perché gli permette di sopportare le fatiche del loro mestiere.
Gli uomini dei racconti di Friel sono del resto spesso ambiziosi e un po’ sperduti, inseguono idee balzane e poco concrete, mentre le donne incarnano la praticità, pur nell’estrema varietà delle figure femminili che appaiono in questi racconti: la solo apparente spensieratezza di Annie e la concretezza della sorella Min, la cura dei propri affetti e insieme la forza di Margo in Fra le rovine, la follia della signora MacMenamin, l’attesa e la delusione di Nelly Devenny, la calma e la risata di Judith Costigan, le maniere spicce di Rita in Foundry House.
La traduzione di Benati permette di notare tutto questo, facendo apprezzare al lettore italiano la precisione della lingua di Friel. Non poteva essere altrimenti, sia per la conoscenza che Benati ha dell’Irlanda, dove ha insegnato e vissuto, sia per la sua lunga attività di traduttore: Benati ha lavorato nel tempo sull’opera di molti autori di lingua inglese, da Mark Twain a Jack London, da Delmore Schwartz a Flannery O’Connor, con particolare predilezione proprio per gli irlandesi, da James Joyce a Flann O’Brien. Eppure questa è forse la sua traduzione più bella, perché qui Benati mostra tutta la sua sensibilità nel restituire con grazia e delicatezza il testo originale in un italiano vivo, non artificiale, e al contempo efficace per il lettore italiano e rispettoso dello stile adottato dall’autore.
La passione di Benati per la lingua, che emerge con evidenza nella sua attività di scrittore, lo mette al riparo dal pericolo di soverchiare l’autore che si mette a tradurre. All’abbellimento, al discorsivo, Benati preferisce una maggiore aderenza all’originale, persino nella struttura sintattica, per dare più concretezza alla lingua e potenza alle immagini. Allora Benati muove le frasi solo quando necessario, per esempio per rendere scorrevole un brano, ma preferisce di solito rimanere più vicino all’originale, ricorrendo agli incisi. È così che, nella traduzione da poco uscita, si mantiene splendidamente l’andamento tipico di questi racconti di Friel, gli incipit fulminanti e il tono pacato e non giudicante che segue senza forzature lo scorrere dell’esistenza.