Thomas B. Reverdy. L’ombra vuota

23 Gennaio 2012

La storia raccontata da Thomas B. Reverdy in L’ombra vuota (traduzione di Gaia Amaducci , Sironi editore, Milano 2011) non ha la forma del noir nonostante verta attorno ad un’inchiesta per omicidio e non ha nemmeno la costruzione del romanzo nonostante l’intreccio che coinvolge i personaggi principali. La storia si sovrappone nella forma come nell’ambientazione ad un cantiere - siamo a Ground Zero - come un palazzo in costruzione ancora non chiaramente visibile e comprensibile. Brevi pezzi narrativi si alternano a lunghe disquisizioni sulla città, sul suo carattere e sulle sue strade: tutto è ridotto all’essenziale e la sensazione è di ritrovarsi tra le pagine di una guida capace di raccontare l’immaginario incrinato di una città che non è la New York ferita e terrorizzata dall’attentato, ma qualcosa di leggermente diverso.

 

Reverdy non racconta la grande tragedia e nemmeno sono al centro del suo racconto le storie personali di chi fu toccato da vicino dall’attentato. Quelle storie ci sono, ma sono laterali, al centro c’è la vita in una città attraversata da un abisso profondo quanto erano alti i due grattacieli del WTC. Ground Zero è ben al di sotto della linea dello zero, è un vero e proprio buco nero che ha inghiottito i corpi delle vittime come le esistenze dei sopravvissuti: ogni gesto, ogni incontro, ogni giorno vissuto passa al vaglio dell’ombra di quelle torri: vite con un’ombra, ma senza più un corpo.

 

I tre personaggi, un professore francese, una cameriera e un ex poliziotto eroe delle Torri, rappresentano i diversi gradi tra presenza e ombra, le loro vite sono segnate in maniera diversa non solo dall’attentato, ma dal cantiere di Ground Zero che in realtà sarebbe il cantiere della Torre della Libertà, il nuovo imponente grattacielo in costruzione, che più che ridare forza e sicurezza sembra simboleggiare esclusivamente il cono d’ombra dentro cui i personaggi sono finiti o rischiano di finire e con loro tutta la città e gli Stati Uniti interi.

 

Agli estremi si situano invece un operaio clandestino, che prima di essere ritrovato cadavere all’interno del cantiere è al centro di una rissa scatenata dall’ex poliziotto, e il poliziotto dell’FBI che si occupa dell’inchiesta sulla morte dell’operaio.

Il federale è il vero punto di contatto tra le varie storie e sarà la sua saggezza occasionale a dare un’occasione di riscatto ai tre personaggi.

 

L’ombra vuota racconta in maniera inedita e certamente coraggiosa i sopravvissuti di New York e con loro i diversi gradi possibili di sopravvivenza. Racconta una città che da sempre ha vissuto il presente come una frenetica e continua anticipazione del futuro e che proprio dalla perdita di questa velocità esistenziale è stata tramutata in una città più insicura (di se stessa), più buia e sostanzialmente più provinciale. Belle sono le pagine in cui il professore francese elenca le differenze con Parigi rivelando il complesso d’inferiorità che spesso tradisce le grandi capitali europee rispetto a New York, ma che ora, drammaticamente, sembra rivoltarsi contro la stessa metropoli americana.

 

New York sembra non conoscere più New York: la propaganda attorno all’Undici settembre l’ha trasformata in parte in una parodia di se stessa. Il problema per New York, sembra indicarci Thomas Reverdy, con una sensibilità che purtroppo non sempre è sostenuta da un’efficace tensione narrativa, non sta nel cogliere le sfide del futuro, ma imparare a riconoscere il proprio passato, e in questo Ground Zero ne è l’emblematico simbolo: un unico cantiere per ciò che è stato abbattuto e per ciò che verrà costruito.

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