Note sulla poetica di Claudio Parmiggiani / Dentro la tavolozza, la cenere…

4 Febbraio 2019

Il trauma dell’opera: “urlo”, “incendio”, “Sfinge”

 

Non esiste opera d’arte che non sia in rapporto a un trauma, all’insistenza di un incontro che sovverte il nostro rapporto abituale con la realtà e che non si lascia dimenticare. Il reale del trauma impone lo scompaginamento dell’ordine della realtà. Il suo statuto è quello di un’alterità irriducibile che frantuma l’inquadramento simbolico del mondo. Allo stesso modo la forza poetica di un’opera d’arte resiste ad ogni tentativo ermeneutico di decifrazione; essa non può mai essere assorbita da una significazione univoca, definita, stabilita o da una traduzione ritenuta legittima, ma si spalanca anarchicamente a un universo plurimo di significazioni, ogni volta mai compiuto, inesauribile, intraducibile. Per questo la cifra ultima dell’opera d’arte per Claudio Parmiggiani è quella del silenzio e dell’enigma. Lo segnalava a suo modo anche Freud quando ricordava lo sfasamento e la sproporzione che sussistono sempre tra l’intenzione dell’artista e l’opera che essa realizza. Non a caso Parmiggiani ci ricorda che ogni opera d’arte resta un enigma innanzitutto per il suo autore il quale sta di fronte a ciò che ha creato come un uomo di fronte ad una camera chiusa di cui non possiede la chiave (C. Parmiggiani, Una fede in niente ma totale, Le lettere, Firenze 2010, p. 95). È questo un modo di annunciare lo stretto rapporto che unisce l’opera d’arte all’inconscio. Per il pittore, si tratta, scrive, di “costruire Sfingi” (Idem, p. 191). Snodo cruciale della poetica di Parmiggiani: l’opera non manifesta ma custodisce, non esprime ma tutela l’inesprimibile, non esibisce ma nasconde, non svela ma preserva l’inviolabile, non è una via di accesso al mistero ma testimonia piuttosto la sua inaccessibilità. Il suo rapporto con l’inconscio è un rapporto che non passa dalla separazione topica tra superficie e profondità, visibile e l’invisibile, luce e ombra, tra la vita diurna della coscienza e la sua interruzione, ma si realizza come presenza silente del segreto. Tutto il suo lavoro artistico contorna questo reale irriducibile al simbolico, al di là del teatro della rappresentazione. In questo senso egli attribuisce all’opera d’arte il compito di disordinare, scompaginare, alterare il quadro ordinario della realtà. Se il piano della realtà possiede, infatti, le caratteristiche della permanenza, della costanza abitudinaria e della rassicurazione, l’evento dell’opera irrompe come ciò che sovverte la rappresentazione teatrale della realtà. Si tratta di un taglio, di una rottura traumatica, di una breccia che si apre nel quadro uniforme e già stabilito della mondanità del mondo. 

 

“Un’opera deve essere violenta. Deve essere come un pugno nello stomaco. Silenziosa ma dura, dura ma silenziosa, come un fuoco sotto la cenere, oscura, ringhiosa” (Stella Sangue Spirito, Actes Sud, 2003).

 

Il trauma dell’opera scolla la realtà dal reale: l’irruzione del reale disfa l’ordine canonico della realtà costringendoci a guardare il mondo con occhi diversi. Si tratta di una perturbazione che nell’opera d’arte – diversamente da quello che accade nella clinica del trauma in senso stretto – dà luogo a una forma inedita, non ancora vista, non ancora conosciuta, non ancora pensata, del mondo. Questo significa che mentre nella sua versione psicopatologica il trauma innesta una ripetizione solo inerte e mortifera dello Stesso, nella sua versione estetica esso può invece generare forme nuove, può trasfigurare lo Stesso nell’inedito, la monotonia drammatica della ripetizione in un battito, in un respiro, in una visione imprevista. L’evento dell’opera appare così come un incontro che disarma il confine (difensivo) della realtà. Il possibile lascia il posto all’impossibile: al sonno quieto della realtà subentra il lampo di un’immagine impensata, l’impatto con l’inatteso che turba ogni appaesamento. Se nel tran tran della realtà, come ricorda Lacan, siamo tutti addormentati, l’incontro con un’opera d’arte è l’incontro con un reale che scuotendoci ci riporta traumaticamente alla veglia. È quello che accade quando un sogno sconfina nell’incubo: la tranquillità del sonno viene inquietata dall’irruzione di una alterità che ci costringe al risveglio angosciato. Dobbiamo smettere di dormire per ritornare all’evento del mondo dal quale il confort del sonno ci ha distanziati. Parmiggiani lo ricorda a suo modo: davanti a un’opera d’arte – scrive – “si può stare solo in silenzio, come quando si assiste ad un incendio” (Una fede in niente ma totale, Le lettere, 2010). 

 

La neutralità della rappresentazione della realtà che caratterizza la versione tradizionale del quadro è scossa da una perturbazione profonda. L’enigma dell’opera disfa le reti abitudinarie della significazione. È un lavoro di corrosione del linguaggio già stabilito, convenzionale, che però può avvenire – come sa benissimo ogni grande artista – solo attraverso il linguaggio. Parmiggiani non si accontenta mai della riduzione dell’essere alla sua semplice presenza, non accoglie come un dato ontologico la nominazione delle cose fissata una volta per tutte dal Codice della lingua. Piuttosto lavora costantemente la presenza attraverso la lama dell’assenza. Il silenzio necessario di fronte all’incendio della presenza generato dall’evento dell’opera riflette questa incombenza (sempre presente) dell’assenza.  Non a caso Freud stesso, in Osservazioni sull’amore di traslazione  (in Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi, in Opere, a cura di C.L. Musatti, vol. 7, Bollati Boringhieri) ha paragonato una volta l’opposizione tra il reale e la realtà all’irruzione di un incendio improvviso (reale) che ci sorprende alle spalle mentre ci stiamo gustando tranquillamente uno spettacolo teatrale (realtà). 

Questa differenza tra il reale e la realtà è cruciale nell’opera di Parmiggiani come in quella di ogni grande artista. Egli coglie perfettamente l’eterogeneità tra lo statuto traumatico (reale) dell’opera d’arte e il piano “teatrale” della realtà. Per esempio, quando scrive che “l’opera è l’urlo che fa esplodere, l’euclidea, perfetta città di cristallo, qui davanti a noi”. L’opera è l’urlo traumatico del reale che fa esplodere la rappresentazione euclidea della realtà. È un urlo che rivela tutta la fragilità – la natura di cristallo –, di ogni versione solo rappresentativa, “teatrale”, del mondo e del linguaggio. Non a caso il vetro è un materiale tra i più significativi della sua ricerca. In un’opera titolata Labirinto di vetri rotti del 1970, l’artista costruisce un’ampia architettura labirintica fatta di vetro per poi infrangerla a colpi di mazza. La frammentazione che ne deriva rivela la potenza dell’urto della vita non con il linguaggio convenzionale, ma col muro del linguaggio – con i suoi colpi di mazza –, il quale mostra la natura separata, dunque mortale, della vita, che, come la “città di cristallo” costruita da Parmiggiani, è destinata ad essere esposta alla rottura, alla frammentazione e alla dispersione.  

 

Claudio Parmiggiani, Labirinto di vetri rotti.


In un’altra opera di vetro di grande intensità titolata Naufragi (Porto, ancòra, catena – 2007), una grande ancòra di ferro appare contornata da grandi lastre di vetro anche qui in frantumi: l’artista mette al centro la condizione fragilissima della realtà umana, il suo essere alla deriva, esposta senza possibilità di riparo all’impatto traumatico della vita e della morte. L’ancòra sembra allora prendere il posto del grido nel suo farsi appello, invocazione, domanda di un sostegno, di una risposta, di una terra impossibile da raggiungere e, tuttavia, sempre agognata, di una accoglienza continuamente attesa, eppure sempre rinviata. Tutta l’arte di Parmiggiani poggia su questo presupposto tragico di fondo: l’incontro con l’opera rivela quello che la rappresentazione teatrale della realtà occulta; l’esistenza di un reale che apre “davanti a noi vetri in frantumi, macerie, grido, l’eco infinito dentro l’abisso di noi stessi”. Se la realtà è – come indica Lacan –, una barriera, un argine difensivo nei confronti del carattere informe ed enigmatico del reale, l’opera d’arte diventa l’indice traumatico di questo reale. In gioco, come si vede, è una frattura epistemica della quale Parmiggiani ha grande consapevolezza. L’opera d’arte – diversamente dalla sua nota definizione albertiana – non è affatto una finestra sul mondo, non è la scena – l’inquadratura – da dove si può vedere in modo rassicurante il fenomeno del mondo, ma è l’irruzione del fuoco e del grido – del grido del fuoco? – che dissesta radicalmente quella scena. È un incendio che ci sorprende e ci toglie la parola, una forza inattesa che ci costringe la lasciare la comoda poltrona da dove guardavamo abitualmente lo spettacolo del mondo.

 

Il pittore

 

Parmiggiani pur non utilizzando più gli strumenti tradizionali della pittura (tavolozza, pennello, quadro, cavalletto), continua a definirsi un pittore. Mi sono chiesto spesso perché, che cosa lo spinga a definirsi ancora un pittore. Accade lo stesso anche per Burri e Kounellis, per fare solo due altri significativi esempi. In questi artisti viene meno il riferimento tradizionale al quadro, ma non quello alla pittura. Se Parmiggiani continua a definirsi pittore è perché avverte innanzitutto fortissima la sua provenienza, il suo radicamento nella storia dell’arte che lo ha preceduto: Mantegna, Goya, Van Gogh, Malevic e, soprattutto, Morandi. Nella sua opera il confronto serrato con la storia dell’arte condensa il valore irrinunciabile che egli attribuisce alla memoria e alla tradizione. Ma la memoria non è semplicemente – non può mai essere semplicemente – il luogo dove il tempo ristagna, si sedimenta e si conserva. Anche perché spesso le installazioni di Parmiggiani sono purtroppo destinate ad andare perdute senza lasciare alcuna traccia di sé se non nei reperti fotografici. Piuttosto la memoria può davvero esistere solo nell’avvenire spettrale dell’opera, nel suo evento, nella sua capacità di resistenza. Come sa bene Parmiggiani ogni pittore lavora sul senso profondo dell’immagine, sulla sua potenza e, insieme, sul suo limite, sulla sua impossibilità. La pittura è l’arte che più di ogni altra interroga il limite e il potere dell’immagine. Il pittore non fa altro: interrogare attraverso l’immagine il limite di ogni immagine. Accade anche per la poesia rispetto alle leggi transindividuali del linguaggio: scavare la lingua sino al suo limite per coglierne il suo “centro esterno” – come si esprimeva Lacan –, per sovvertire attraverso la singolarità anarchica della parola il codice universale del linguaggio. È lo stesso movimento che ritroviamo nel lavoro di Parmiggiani: condurre l’immagine sino al suo “centro esterno”, sino al suo limite più estremo, tenderla come fosse un arco sino al suo punto traumatico di rottura; mobilitare l’eccentricità dell’immagine rispetto a qualunque alfabeto o archivio già costituito.

 

Quello che lo interessa è, in altre parole, l’immagine che proviene dall’inconscio e dal sogno. È l’eccedenza dell’immagine rispetto all’illustrazione, alla rappresentazione, alla duplicazione analogica. L’immagine che viene dall’inconscio si separa, come fosse un taglio in atto, dalla realtà già vista e conosciuta. È un’immagine inimmaginabile, immagine di ciò che non ha immagine, immagine dell’impossibile da immaginare, immagine di tutto ciò che è senza immagine, immagine che sa rendere, come scrive bene Parmiggiani, sensibile l’invisibile. “Non fatevi nessuna immagine di me”, diceva Cristo ai suoi discepoli. Qualcosa del mistero assoluto della vita e della morte resta (non può che restare) privo di immagine. Per Parmiggiani la vocazione dell’immagine e, dunque, della pittura, non è, come per Paul Klee, quella di rendere visibile l’invisibile, ma di mostrare l’impossibilità di tradurre esaustivamente l’invisibile in un’immagine visibile o, se si preferisce, di mostrare che nella sensibilità dell’immagine c’è qualcosa che oltrepassa il suo contorno visibile. Sicché l’immagine contiene sempre una trascendenza – ogni immagine è sempre più di un’immagine –, ma non nel senso che rinvia ad un essere sovrasensibile, invisibile, “al di là” o “dentro” l’immagine (su tutti questi temi, vedi J.L.Nancy, Tre saggi sull’immagine, Cronopio, 2002). È infatti solo nella sensibilità dell’immagine – nell’immanenza assoluta dell’immagine –, che si può cogliere ciò che la trascende, ciò che resta senza immagine possibile, il nocciolo impossibile di ogni immagine. 

 

Morte clinica dell’arte e sua resistenza

 

Una delle tesi più note di Jean Clair è che il nostro tempo sia il tempo della morte clinica dell’arte (Cfr., De immundo, Abscondita, 2005). L’arte muore quando viene reciso il suo rapporto con l’assoluto della vita e della morte. Quando il suo statuto reale e traumatico viene misconosciuto, quando la sua pratica si riduce ad intrattenimento, ad arido intellettualismo o ad un esibizionismo sterilmente provocatorio. La sentenza diagnostica di Jean Clair pare inscalfibile: la pittura è nella stagione irreversibile del suo tramonto. Basta entrare in qualunque museo di arte contemporanea per rendersene conto: il corpo della pittura appare come un corpo morto. Il suo posto è stato preso dalla fotografia, dai video, dalle installazioni, dalle performances, dalle collezioni di oggetti, dai giochi intellettuali e dai virtuosismi concettuali, da vandalismi di ogni genere. La sua tensione etica verso l’assoluto ridicolizzata da un vero e proprio circo mediatico sul quale lo stesso Parmiggiani non risparmia la sua ironia tagliente:

 

“c’è oggi un’arte che si nutre di Walt Disney… Si riconosce non in Wiligelmo, Giotto, Van Eyck, Leonardo, Vermeer, Rembrandt, Goya, Brancusi, Boccioni, Kandiskij, Rothko, Giacometti, ma in Tex Willer, Topo Gigio, Paperino, Topolino, Lollo Rompicollo, nel ninnolo, nel punto croce della nonna. Qualcuno la chiama rinascimento. Porta in eredità la Banda Bassotti, Gatto Silvestro, Pluto”.

 

Si tratta di una ulteriore degradazione di quella dimensione “teatrale” dell’opera d’arte che Parmiggiani non tollera. Se l’immagine si vende sul mercato come se fosse un qualsiasi oggetto tra gli altri, sarà destinata a perdere fatalmente la sua forza sovversiva che è proprio quella di sottrarre alla semplice presenza del mondo la sua evidenza. Per questo egli contrappone al carattere meramente “teatrale” dell’arte contemporanea, un’arte “anti-teatrale”, anti-rappresentativa, “introversa”, “misteriosa” capace non di esibire, ma di custodire il suo segreto:

“desidero un’arte anti-teatrale, perché questa possa avere una sua vita sincera, priva di spettacolarità, come pensata per una microsocietà o una società segreta. Un’arte introversa, misteriosa, che agisca per evocazioni”.

L’evocazione sostituisce qui la provocazione come la secretazione sostituisce l’esibizione. In un contesto culturale dove l’evento dell’opera viene ridotto alla facile cultura dell’“intrattenimento”, la mossa etica fondamentale di Parmiggiani è quella di fare ancora esistere la dimensione tragica dell’opera, il suo rapporto con il reale come impossibile, la sua vocazione verso l’assoluto. In questo egli sembra muoversi in un vero e proprio deserto. Di fronte al divertissement ironico-concettuale o all’esibizione ostentata e vandalica dell’orrido e dell’abietto – due poli attorno ai quali tende ad oscillare monotonamente l’arte contemporanea –, egli intende salvaguardare il mistero dell’opera facendo vibrare ancora il suo rapporto con l’impossibile. Per questo nel suo lavoro ornamentalismo, intellettualismo, spiritismo, esibizionismo, concettualismo sono banditi. È il romanticismo misurato che lo ispira: la tecnica del pittore appare subordinata integralmente all’emozione e, di conseguenza, diffidente sia verso la sua sterilizzazione (concettualismo), sia verso la sua esasperazione ostentata (ultra-espressionismo).

Nella sua teoria estetica Adorno definisce l’evento dell’opera come un luogo di resistenza. Qualcosa nell’opera d’arte, scrive, resiste (Teoria estetica, Einaudi, 1977, p. 17). Si tratta di una resistenza che non può essere assimilata né al conformismo della provocazione fine a se stessa dell’ultra-espressionismo ipermoderno, né al all’arido teoreticismo della linea analitica dell’arte contemporanea.

 

Piuttosto Parmiggiani avverte fortemente il pericolo di una recisione del legame che unisce l’opera al mistero della vita e della morte. Di qui le sue differenti tecniche di custodia del segreto dell’opera e del suo silenzio. La resistenza – il resto che resta e che non si lascia consumare –, trova la sua occasione nel nascondimento, nella sottrazione, nell’ombra, nel silenzio, nel segreto, nell’enigma. Si tratta innanzitutto di appartare, separare, distanziare, allontanare l’opera dai fuochi fatui del divertissement. Accade in un’installazione di straordinaria potenza come è Faro d’Islanda (2000); una torre-faro dal peso di sei tonnellate e alta quattordici metri con un vertice luminoso che, diversamente dai fari marittimi, resta sempre acceso, giorno e notte, non guida le imbarcazioni lontane dagli scogli ma si innalza al centro del territorio più desolato dell’Islanda. Attorno nessuna presenza umana, nessun segnale di vita, nessuna rappresentazione teatrale. In gioco è qui solo il valore puro dell’immagine, la possibile estrazione della luce dall’oscurità spessa della notte islandese. Il Faro d’Islanda è, infatti, l’immagine della resistenza stessa dell’immagine di cui si incarica eticamente ed esteticamente la pratica dell’arte. Parmiggiani è preciso e risoluto nel dichiararlo: questo faro non è un oggetto che serve ad uno scopo – a proteggere le imbarcazioni dagli scogli -, ma “un’immagine”, espressione della forza stessa – indistruttibile – dell’immagine. È “una torre di ferro e di luce… non un oggetto ma un’immagine. Una lampada, levata in alto come un segno di fede. Un’opera, pura nella sua forma, pura nella sua idealità”. L’Islanda diventa cifra della lotta epica dell’uomo “contro la notte”, della luce che “resiste” alla tentazione del suo annullamento. Anche in questo caso l’azione dell’artista contiene di fatto una riflessione metacritica sul significato stesso dell’opera d’arte. In ogni opera, come fa notare Adorno, è in gioco è la resistenza dell’immagine e del suo potere evocativo di fronte al rischio della sua estinzione. In questo caso il contesto rappresentato dal carattere aspro e inospitale della natura islandese radicalizza la scommessa della pittura: può esistere ancora la luce dell’immagine quando tutto sembra agire contro di essa, quando il peso del buio è così oppressivo? Quando l’assenza di luce sembra condannare l’immagine alla sua morte?

 

In alternativa al frastuono della teatralità smodata dell’arte contemporanea, il silenzio – come quello delle lande solitarie dell’Islanda – agisce come uno svuotamento radicale della presenza nella sua semplice presenza. È il primo passo per provare a sottrarre l’evento dall’opera dall’egemonia idolatrica della presenza. Se nella pratica della psicoanalisi l’analista – in una celebre immagine fornita da Lacan – è il custode del silenzio, potremmo dire lo stesso per il compito del pittore. Custodire il silenzio resta la finalità più alta di un’opera d’arte: “l’opera – scrive Parmiggiani – è una iniziazione al silenzio”. Il suo primo passo consiste nella rivalutazione del nascondimento: “è urgente mostrare, scrive, che è più importante nascondere che mostrare”. Per preservare l’inaccessibile, l’inviolabile, il segreto dell’opera è necessario lo strappo, la sottrazione, il silenzio, il nascondimento, la ritrazione, il margine, l’allontanamento, persino l’oblio. Nondimeno, questo oblio non dà luogo ad alcuna ontologia, non dispiega una definizione generale dell’essere che, come per Heidegger, nascondendosi si rivelerebbe, perché esso – l’oblio – è sempre, innanzitutto, in rapporto ad un trauma, ad una ferita senza nome. Non è la verità dell’essere che nell’oblio si afferma ritraendosi, ma è il reale traumatico che insiste e si ripete; è il reale del tempo che consuma ogni cosa rendendola polvere, ma è anche il segreto di un resto che resiste a questa consumazione caricandosi di un respiro e di una luce misteriosa. Anche in questo passo Parmiggiani sa essere erede della grande lezione morandiana: la sua opera appare introversa, misteriosa, enigmatica, ispirata e orientata verso l’inaccessibile, insomma antagonista tanto ad ogni estetismo esuberante quanto ad ogni retorica rivoluzionaria. Fragile e leggera come una farfalla ma resistente e pesante come una pietra o una campana di bronzo. 

 

La sopravvivenza dell’arte

 

L’emozione che scaturisce dall’incontro con l’opera non è tanto sussulto interiore, sentimentalismo irrazionale, vaga vibrazione dell’affetto, quanto piuttosto, ogni volta, scossa, trauma, lampo, squarcio, urto, respiro, taglio, ferita, incendio, grido, preghiera. Si tratta della mano dell’artista che è capace di generare forme nuove, non ancora viste, non ancora conosciute, non ancora pensate. Sullo sfondo un ricordo di infanzia che si presenta come indelebile e al quale possiamo fare risalire l’origine più propria del gesto creativo come gesto di resurrezione, di ripresa della vita dalla morte: 

“Nel fango del fiume pescavo d’estate con le mani, e d’inverno con un rastrello sul fondo melmoso. I pesci erano rigidi per il gelo. Una volta tirati sulla riva li raccoglievo come fiori in un prato.”

Trasfigurare i pesci gelati, morti, assiderati dal freddo, pescati nel fiume, in fiori di campo. La mano del pittore agisce sempre sul freddo della morte, sprofonda nell’inverno dell’assideramento, ma solo per ritrovare la vita, la primavera, quel “vento del disgelo” – come direbbe Nietzsche – che diviene l’occasione per elevare la ferita della morte alla dignità della poesia, per trasfigurare i pesci irrigiditi dal freddo delle acque in fiori di campo. Tutta la lezione estetica ed etica di Parmiggiani – anche in questo profondamente coerente con il magistero di Giorgio Morandi – può essere racchiusa in questo gesto. È ciò che consente la sopravvivenza dell’arte alla sua morte clinica. È questo, tra l’altro, un primo significato dell’importanza straordinaria che assume, come vedremo meglio in seguito, la cenere nel lavoro di Parmiggiani: qualcosa resiste alla distruzione, alla tentazione del nichilismo, allo sprofondamento dell’essere nel nulla, qualcosa (la cenere) si rivela eterno, resta per sempre. Se consideriamo la coerenza profonda del suo cammino artistico, non possiamo non vedere nella celebrazione di questo resto il nucleo più intimo della pratica dell’arte, della forza della pittura.

 

La cenere sulla quale dal 1970 in avanti Parmiggiani non smette di lavorare è innanzitutto la cenere stessa dell’arte, la cenere della sua morte e della sua sopravvivenza alla morte. Parmiggiani dipinge la morte dell’arte e, insieme, l’impossibilità della sua morte: qualcosa resta, resiste, sopravvive, non si lascia divorare dal fuoco, non si perde mai del tutto, non muore. La cenere è l’indice materiale di questo resto che sa durare, di quel “duro desiderio di durare” con il quale il poeta Paul Eluard – ripreso da Lacan – definiva l’essenza del discorso amoroso. Non è forse proprio questa la dichiarazione più semplice e più radicale di Parmiggiani della quale non dovremmo mai dimenticarci? “Credo in una sola cosa – afferma risolutamente –, credo nell’amore, l’unica cosa vera”. 

Siamo qui di fronte alla sua postura etica fondamentale: fare arte è resistere, preservare lo spazio dell’evocazione poetica, dell’invocazione, della preghiera dell’opera, ma anche dell’amore. È l’amore il filo invisibile che collega il finito all’infinito, l’immanenza alla trascendenza, il visibile all’invisibile. 

 

Questo testo è la parte iniziale di un lungo saggio inedito sull’opera di Parmiggiani. Tutte le citazioni senza indicazione di provenienza sono tratte dai libri di Parmiggiani citati nel testo.

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