L'Idiota della famiglia / Un piccolo scarto
Una ridefinizione della libertà
In un’intervista rilasciata in un periodo coevo al lavoro sul suo Flaubert, Sartre fa riferimento a una profonda revisione del concetto di libertà rispetto alla sua enfatica celebrazione proposta nell’ontologia fenomenologica de L’essere e il nulla. Ne L’idiota della famiglia, come del resto già nella Critica della ragione dialettica, la libertà non è più pensata come pura trascendenza del soggetto, come potere di nullificazione, di nientificazione (néantisation) del «per sé». La libertà dell’esistenza non appare più come incondizionata, ma si trova castrata dalla presenza di «essenze storiche» che la precedono condizionandola inevitabilmente. La stessa formula capitale dell’esistenzialismo sartriano, ovvero «l’esistenza precede l’essenza» – teorizzata rigorosamente ne L’essere e il nulla e ripresa poi nella celebre conferenza titolata L’esistenzialismo è un umanismo – subisce una drastica riforma. Non esiste esistenza che non sia preceduta da essenze, non metafisiche ma storiche; non esiste esistenza che non appaia nel mondo se non determinata da concrezioni fatticistiche che la precedono e la attraversano. In questo senso Sartre nell’intervista citata afferma risolutamente che:
Ne L’essere e il nulla, la «soggettività» non è certo quello che oggi essa è per me: il piccolo scarto (petit décalage) all’interno dell’operazione mediante la quale un’interiorizzazione si ri-esteriorizza essa stessa in atto («Sartre visto da Sartre», in Materialismo e rivoluzione).
La libertà ridotta a un «piccolo scarto» non appare più come un movimento di pura trascendenza della nostra fatticità. In realtà già ne L’essere e il nulla, la trascendenza del per sé non può mai escludere la polarità della fatticità, non è mai in grado di annullare l’alterità della fatticità che porta con sé. Ma, nel movimento che porta Sartre verso una ridefinizione ancora più radicale della libertà, è adesso l’idea stessa di soggetto che viene sovvertita. Non si dà infatti soggetto se non come processo costantemente in atto di interiorizzazione dell’esteriorità. La trascendenza non è un movimento che si esercita semplicemente in avanti, ma implica un’eredità insopprimibile che lo trascina costantemente verso la ripresa delle sue interiorizzazioni primarie. Il soggetto appare, in altre parole, innanzitutto come un effetto dell’azione che l’Altro esercita sul suo essere. Non nel senso che esiste un essere già dato sul quale si manifesterebbe tale azione, ma che è da tale azione che si genera il processo di costituzione del soggetto stesso. Non a caso la prima grande parte de L’idiota della famiglia si titola «La costituzione» ed esplora con attenzione meticolosa la presa che l’Altro (familiare, storico, sociale) ha esercitato sulla vita del piccolo Gustave. Il soggetto non esiste se non – innanzitutto – come esito delle determinazioni dell’Altro. L’interiorizzazione di cui parla Sartre non suppone alcuna sostanza-soggetto neutra sulla quale si scriverebbero, come su di una cera, i dettati dell’Altro.
L’interiorizzazione è, piuttosto, come egli precisa in modo convincente ne L’idiota della famiglia, un «vissuto», un processo che deve essere letto annodato topologicamente al movimento dell’esteriorizzazione, come se fossero battiti di un solo cuore o bande di un nastro di Möbius. Non c’è un «dentro» e un «fuori», un’«interiorità» già costituita e un’«esteriorità» che la condiziona, un’esistenza che può prescindere dalle essenze storiche, ma solamente la soggettività come processo sempre in atto di interiorizzazione e riesteriorizzazione dell’esteriorità interiorizzata. La soggettività non è nulla se non questo stesso processo (L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la «Critique»). Non è nulla se non la necessità congiunta dell’interiorizzazione dell’esteriorità e della riesteriorizzazione dell’interiorità, o meglio, dell’esteriorità interiorizzata. Non è nulla se non quel «piccolo scarto» – quella ripresa (reprise) kierkegaardiana – attraverso il quale il soggetto, assumendo le strutture familiari, sociali ed economiche che ha interiorizzato, realizza una forma di vita che oltrepassa singolarmente, pur portandole con sé, queste stesse strutture. È questa la seconda grande parte in cui si suddivide la monografia sartriana su Flaubert: «La personalizzazione». Il processo di interiorizzazione ed esteriorizzazione in cui la soggettività si dissolve mentre si realizza, mostra che la «persona» non è «né del tutto subita, né del tutto costruita», ma è piuttosto il «risultato scavalcato» di tutte le determinazioni dell’Altro. Questo significa che, se la struttura fa l’uomo, è la storia – la prassi-processo dell’interiorizzazione e della riesteriorizzazione – che fa la storia («L’antropologia», in L’universale singolare).
Ma come avviene il processo di soggettivazione dell’esteriorità interiorizzata? Come si dispiega la prassi-processo dell’interiorizzazione e della riesteriorizzazione? Come si singolarizza una vita? Come opera quel piccolo scarto capace di trasformare la passività costitutiva del soggetto in un’attività capace di libertà? Quale è il destino che si genera dal confronto mai finito con «la nostra infanzia», pensata da Sartre come un reale «inassimilabile» attorno al quale si produce il processo di personalizzazione?
La persona non è né del tutto subita, né del tutto costruita: per il resto essa non è affatto, o, se si vuole, non è in ogni istante, che il risultato scavalcato dell’assieme dei processi totalizzatori, coi quali noi tentiamo continuamente di assimilare l’inassimilabile, cioè a dire, in prima linea, la nostra infanzia.
L’idiota della famiglia prova a rispondere a tutte queste domande attraverso il caso Flaubert. In questo Sartre riprende la sua inclinazione di straordinario «biografo» che aveva già collaudata sulle figure di Baudelaire, Tintoretto, Genet e altri, oltre che su se stesso. Il motivo che accomuna questi studi è la ricerca della «scelta originale» – per usare una espressione de L’essere e il nulla –, o di quel petit décalage, per restare a L’idiota della famiglia, con il quale il soggetto costituisce la propria singolare determinazione sullo sfondo della sua costituzione eterodeterminata.
In primo piano nelle grandi «biografie» di Sartre dobbiamo collocare l’evento di una trasformazione che sospende la legge inesorabile del destino voluto dagli Altri e consente al soggetto di realizzarsi nella sua propria singolarità. La libertà non è più una possibilità senza limiti, una trascendenza incondizionata, ma la chance di trovare una soluzione singolare a quell’«insabbiamento originale» (enlisement natal) in cui ciascuno di noi si trova ad esistere (Quaderni per una morale). La libertà, in altri termini, non può mai essere un’auto-generazione del soggetto, quanto un piccolo scarto appunto, una deviazione singolare, una ripresa, una torsione attraverso la quale un soggetto particolare, riprendendo su di sé tutte le determinazioni che ha subito dall’Altro – la stratificazione delle essenze storiche che precedono l’esistenza –, inventa una via di uscita singolare per realizzare il proprio desiderio. Tutto è dunque lì, in quel piccolo scarto, in quel nulla che custodisce il margine di gioco che separa il soggetto dal suo destino predeterminato dall’Altro.
Questo movimento singolare è al centro anche del suo Flaubert. Anzi, è proprio in Flaubert che esso trova il suo più puro paradigma. Se il piccolo Gustave era stato destinato dalla sua famiglia – o, meglio, come scrive Sartre, «dalle strutture familiari interiorizzate» – a diventare un idiota, come è stato possibile che sia diventato un genio? È questo lo scandalo che in questa monumentale biografia Sartre intende scandagliare: «Bisogna capire questo scandalo, un idiota che diventa genio». Bisogna provare a intendere a fondo l’intreccio topologico tra costituzione (interiorizzazione dell’esteriorità) e personalizzazione (ri-esteriorizzazione dell’esteriorità interiorizzata). Costituzione: il bambino destinato a essere un idiota. Personalizzazione: la trasformazione imprevista dell’idiota in genio, del bambino ebete in uno scrittore tra i maggiori del suo tempo. In gioco, come si vede, è la libertà come possibilità di inscrivere una piccola deviazione dalla predestinazione già scritta nell’universo familiare. Se la nostra vita è il risultato del modo con il quale l’Altro ha assoggettato la nostra esistenza, come possiamo fuoriuscire, separarci, diventare noi stessi? Se l’Altro è al cuore del soggetto, come può il soggetto staccarsi dall’Altro? La macchina familiare sembrava infatti stritolare senza scampo la vita del piccolo Gustave, imprigionandola nella divisa dell’idiota, di un ebete, di un ritardato, di «fungo gonfio di noia», per usare un’autodefinizione del giovane Flaubert alla quale Sartre dedica un’attenzione particolare.
Nel tempo della costituzione Sartre studia attraverso Flaubert come la vita umana si costituisca, appunto, tramite un processo di interiorizzazione progressiva dei codici, delle leggende e delle parole degli Altri più significativi per il soggetto, oltre che delle condizioni materiali, sociali ed economiche, in cui essa si trova gettata. Nessuna autodeterminazione dunque. All’origine la nostra esistenza è una passività, un oggetto nelle mani degli Altri (J Quaderni per una morale). È questo un punto di grande prossimità tra Sartre e Lacan. Non a caso Sartre mostra grande interesse per la nozione di inconscio messa a punto dallo psicoanalista francese; l’inconscio non come luogo di un’interiorità privata e inaccessibile, ma come un’esteriorità che agisce sedimentandosi e iscrivendosi sul soggetto. È l’idea – comune a Sartre e a Lacan – che il linguaggio non sia uno strumento che appartenga al soggetto, ma una struttura che lo determina: «Non vi è processo mentale che non sia impaniato, deviato, tradito dal linguaggio. E d’altra parte noi siamo complici di questi tradimenti che costituiscono la nostra profondità», afferma, con forti accenti lacaniani, Sartre («L’antropologia», cit.). Il che significa che nel linguaggio non si manifesta tanto l’intenzionalità del soggetto ma quella, sempre obliqua, dell’Altro. E, soprattutto, che la nostra esistenza è generata da questa intenzionalità. Dunque il problema del soggetto consiste nel modo col quale questa stessa intenzionalità viene vissuta e singolarizzata attraverso una sua ripresa singolare. La biografia di Gustave Flaubert mostra con forza dirompente questa verità: il soggetto dipende dalle intenzioni – dai desideri, dai godimenti, dalle azioni – dell’Altro che «mi determinano senza essere me» (Ibidem).
Madre e padre: il desiderio di morte
Per Flaubert la personalizzazione della costituzione imposta dal linguaggio dell’Altro, accade fondamentalmente come vocazione alla scrittura. Ma cosa ha significato per Flaubert diventare scrittore, quale è il valore esistenziale di questa scelta, del suo «piccolo scarto»? Per provare a rispondere, seppur sinteticamente, a queste domande, dobbiamo ripercorrere le linee essenziali del processo di costituzione del piccolo Gustave così come viene delineato da Sartre. Possiamo isolare due scene matrici: la prima riguarda la madre, Caroline Flaubert, la seconda il padre di Gustave, il celebre chirurgo e intellettuale, Achille-Cléophas Flaubert.
Nella prima scena troviamo il segreto di Gustave, o, meglio, il segreto della sua passività originaria, del suo essere un ebete, un idiota, della sua costante assimilazione ad una condizione vegetativa della vita. Quello che Gustave interiorizza sin dal tempo della sua nascita è, innanzitutto, il rifiuto materno. Caroline Flaubert è stata una madre infelice e depressa. Alle spalle la tragica morte di sua madre che coincise con la sua nascita. Sua madre muore mettendola al mondo. «Assassina di sua madre» commenta Sartre «il suo rapporto con la morte sembra essere stato il suo legame fondamentale con questo mondo.» La vita matrimoniale assume gli stessi tratti della sua infanzia infelice.
Nondimeno, in silenzio, ella prepara con determinazione il suo riscatto. Innanzitutto offre al marito il primogenito maschio, Achille Flaubert, per assicurare la discendenza della stirpe soddisfacendo l’esigenza di suo marito affinché, come scrive Sartre, il nome del suo padrone «fosse perpetuato» nelle generazioni. In questo modo, dopo aver assolto i suoi compiti di moglie e madre, potrà dedicarsi finalmente al concepimento di una creatura che dovrà essere solo sua: una figlia attraverso la cui vita assaporare per la prima volta il suo rapporto mancato con la maternità. Ma le successive gravidanze furono per Caroline Flaubert una delusione cocente. Nacquero figli morti o che morirono neonati. Tuttavia il suo desiderio di avere una figlia era più forte anche della morte. Nessun lutto, dunque. Subito al lavoro per ottenere quello che voleva: una figlia tutta sua per essere per lei la madre che non aveva mai conosciuto. La sequenza di quelle morti sembrava trasformare la morte di sua madre in una sentenza spietata. Il senso di colpa per avere «ucciso» la propria madre si ribaltava nell’impossibilità di generare la vita. La delusione più grande avvenne però con la terza gravidanza. Tutto sembrava in quel caso procedere senza ostacoli. Una nuova vita è attesa e sembra liberare la madre dall’incubo della colpa. Caroline, nata da una madre morta dopo averla data alla vita, segnata da un’oscura maledizione che la costringe a generare solo figli morti, finalmente avrebbe avuto l’occasione di vivere tutta l’intensità carnale della relazione madre-figlia. Se avesse generato una bambina il suo destino avrebbe preso una direzione diversa. Siamo al crocevia di una contingenza decisiva. La domanda cruciale è senza sintesi possibile: quale sarà il sesso del bambino tanto atteso? Un bivio si spalanca, trasformando questa contingenza in una necessità fatale. Testa o croce, femmina o maschio?
Testa: se il bambino atteso era di sesso femminile, Caroline avrebbe imparato un amore sconosciuto, dei rapporti di cuore mai provati, questa donna fatta di doveri avrebbe conosciuto la generosità; si sarebbe ritrovata, rinnovandosi, e si sarebbe rinnovata in questo essersi ritrovata… Caroline avrebbe vissuto una nuova felicità… Croce: se per malasorte ella avesse portato nei suoi fianchi un maschio, ella non l’avrebbe messo al mondo senza una terribile delusione. L’intruso avrebbe confermato con la sua nascita la maledizione di sua madre: la figlia colpevole era condannata a non fare che figli maschi.
La moneta del destino cade sulla faccia della croce. Gustave è il figlio che anziché liberare sua madre da un destino avverso, conferma la sua maledizione; è l’intruso, il figlio indesiderato, l’usurpatore, l’«inatteso». La sua vita non è desiderata, voluta, accolta. Per il piccolo Gustave l’essere maschio comporta l’incontro traumatico con il rifiuto della madre. Le sue cure non saranno ispirate dall’amore, non saranno né doni, né segni del suo desiderio, ma verranno somministrate anonimamente, burocraticamente, freddamente. Gustave sarà un figlio «male amato» perché la sua esistenza sembra essere uno scherzo del destino, più che una metafora dell’amore. Questa assenza del segno d’amore priva l’esistenza di ogni senso, la rivela come insensata, come «di troppo», le nega ogni «diritto ad esistere». Agli occhi della madre egli è solo un «tubo digerente» di cui deve essere semplicemente garantito il «buono stato». A completare il quadro, la nascita, poco tempo dopo quella di Gustave, della piccola Caroline che già dal nome porta con sé il destino che la concerne: essere la figlia prediletta ed esclusiva di sua madre. Per Gustave non resta nulla; non il desiderio della madre, assorbito integralmente sulla figlia, né quello del padre, totalmente catturato dal figlio maggiore. Nessun segno di vita per Gustave; solo segni di morte. La sua risposta a questa interiorizzazione del desiderio di morte che lo circonda è un’inerzia vegetativa che coincide con la sua bêtise, con la sua passività fondamentale. Egli, scrive Sartre, è un bambino in fuga. Più che vivere è costretto a patire la vita. Nessun «mandato di vivere» gli è stato affidato dall’Altro. La sua esistenza sprofonda in una melanconia psicosomatica. Il ritratto che ne fa Sartre è quello di un soggetto separato dalla scena del mondo, autistico, immerso nelle proprie fantasticherie:
Se ne sta tranquillo, non apre bocca, si lascia assorbire dal mondo circostante, le piante, i ciottoli del giardinetto, il cielo, e, a Vonville, il mare: si direbbe ch’egli cerchi di dissolversi nella natura indicibile, rifiutando la presenza della nomenclatura per rifugiarsi nel contesto innominato delle cose, nei movimenti irregolari, indefinibili, dei fogliami, delle onde.
La fuga assume in Gustave i caratteri di una chiusura nel proprio mondo. Di qui le sue difficoltà ad apprendere la lingua. Non è avvitato al campo del linguaggio perché non vuole uscire dal suo bozzolo difensivo che coincide con la sua passività inerme, ma anche con la sua immaginazione che lo allontana da un mondo che lo respinge. L’oscillazione verso la dissoluzione di se stesso, verso il perdersi nella natura o in veri e propri stati di assenza e di estasi – dei quali i suoi romanzi ci offrono innumerevoli esempi – vengono considerati da Sartre come degli strappi attivi e, nello stesso tempo, passivi, attraverso i quali Gustave mette a punto la sua «arma difensiva» nei confronti del mondo che non lo ha voluto. Il suo amore per la parola trova qui la sua origine più arcaica: se la mia vita è apparsa come di troppo, insensata, intrusa, allora sarà attraverso il potere della parola – il solo potere di cui posso appropriarmi – che proverò a irrealizzare il mondo.
La seconda scena centrale nella costituzione del Flaubert di Sartre ha come protagonista il padre e viene ricostruita in pagine di straordinaria intensità. Il padre ha sequestrato il primogenito come fosse un suo prolungamento. Lo chiama con il suo proprio nome imponendogli la stessa carriera di chirurgo. Lo eleva al rango dell’erede designato. La potenza illimitata del pater familias esige di eternizzare la sua gloria nel primogenito, figlio maschio, riflesso narcisistico della sua potenza fallica. Nessuna eredità è qui davvero in gioco; al posto del movimento complesso dell’ereditare – che in Sartre coincide con il movimento stesso della soggettivazione – c’è solo la necessità imperiosa del padre della riproduzione speculare di se stesso. Achille Flaubert sarà la sua creatura esclusiva. Un’identificazione totalizzante si consuma e trova il suo apice in una scena drammatica. Il padre di Gustave deve subire un intervento chirurgico per un ascesso a una coscia. Decide quindi di affidare il compito dell’operazione al proprio figlio, appena laureato in medicina, anziché consultare un collega esperto. L’operazione risultò fatale: il grande chirurgo morì sotto i ferri impugnati con imperizia dal figlio. Sartre ne parla come di una vera e propria inconscia «trasfusione dei poteri». Una terribile clonazione sostituisce traumaticamente il processo simbolico dell’eredità: nessuna trasmissione, nessuna soggettivazione del debito simbolico, ma solo un avvicendamento violento, drammatico, un omicidio, un bisturi che non si rivela strumento di cura, ma strumento di morte. In seguito una vera e propria metamorfosi del figlio, sempre più simile in tutto al proprio padre-padrone, sembra confermare una condizione di vassallaggio identificatorio che non conosce scarti. Al posto dell’eredità, una confusione tra padre e figlio destinata a prolungarsi per l’eternità. Il figlio non eredita la parola del padre ma diventa esso stesso «lo strumento di un suicidio sacro».
Gustave resta tagliato fuori da queste due coppie siamesi; il padre Achille-Cléophas e suo figlio Achille; la madre Caroline e sua figlia Caroline. Entrambi i genitori insistono nel rimproverargli la sua debilità. L’insistenza educativa del padre vorrebbe porre rimedio a questo disastro intellettuale, ma, come spesso accade, sa solo peggiorare la situazione. Il piccolo Gustave resta indietro, nel suo stato stuporoso di fronte al segreto del mondo e del linguaggio. La sua ebetudine, scrive Sartre, «inghiotte il Verbo». Fa fatica ad imparare a parlare, a leggere e a scrivere, ad apprendere. La parola non è mai davvero sua perché non è stato autorizzato simbolicamente al suo accesso. «Nell’età in cui tutti parlano» conclude Sartre «il piccolo Gustave sta ancora imitando colui che parla.» Nel frattempo egli vede trionfare il fratello maggiore, avviato verso la sua metamorfosi finale, e la piccola Caroline diventare il gioiello preferito della madre. Per lui non sembra esserci posto se non quello della propria fuga perpetua dall’orrore del mondo.
Diventare un genio
La terza scena non riguarda più il tempo della costituzione di Gustave ma quello della sua personalizzazione. Come può un bambino destinato a essere un idiota diventare un genio? Come è possibile trovare una via di uscita dall’insabbiamento natale in cui ciascuno di noi si trova? Come fare qualcosa di quello che l’Altro ha fatto di noi? Come avviene, in altre parole, il piccolo scarto attraverso il quale Gustave diventa Gustave Flaubert, realizza se stesso come una singolarità insostituibile? Come si attiva la sua personalizzazione?
La terza scena è quella in cui Gustave diventa scrittore. Per Sartre si tratta di scegliere l’immaginario contro il reale. La scrittura è il modo con il quale Flaubert può avere accesso al linguaggio, farlo finalmente proprio. Ma la sua scrittura, che lo riscatta dal mondo, non può che essere contro il mondo. Se da bambino ha dovuto subire un’esclusione dal mondo, ora è lui che esclude il mondo attraverso la sua irrealizzazione nella scrittura. Pochi scrittori scolpiscono la frase con la stessa cura e dedizione di Flaubert: tutto deve essere perfetto, compatto, granitico, impassibile; egli ricerca il capolavoro come distanza assoluta dal reale del mondo. Il mondo dell’Arte sostituisce il mondo reale. La perfezione della frase l’imperfezione dell’esistenza. La sua vocazione di scrittore, è, come erano le estasi infantili, una scelta per l’«irreale». Se la sua venuta al mondo è stata, in quanto inattesa, segnata dal rifiuto dell’Altro materno, da un desiderio di morte, se nascendo maschio la contingenza lo ha voluto bambino di troppo, superfluo, privo del diritto di esistere, la scrittura diviene per lui la creazione di un mondo alternativo al mondo e la sua pratica una vera e propria «contro creazione». Il suo sforzo è assoluto. L’ascetismo della scrittura ricompatta un essere senza sostanza. Si tratta, in altre parole, di trasformare la derealizzazione subita dall’Altro in una irrealizzazione attiva che lo libera dall’Altro. Non capovolge la passività vegetativa dell’origine in attività, ma prova ad estrarre una attività dalla sua stessa passività. Si può essere uomini solo se si è scrittori. Flaubert diventa così un «uomo penna» che vuole impadronirsi, attraverso la scrittura, del fenomeno del mondo. In questo il destino di Flaubert si ricongiunge a quello di Sartre stesso. È la somiglianza che egli riconosce ne Le parole: anche Sartre ha provato a impadronirsi del mondo attraverso la pratica della scrittura. Anche lui si è nutrito del mito delle parole capaci di sostituire il mondo. È quello che riconosce come il suo «peccato» fondamentale, la sua «più tenace illusione»:
Per aver scoperto il mondo attraverso il linguaggio, per molto tempo scambiai il linguaggio per il mondo. Esistere era possedere una denominazione depositata, da qualche parte, sopra le infinite Tavole del Verbo; scrivere era inscrivervi nuovi esseri oppure – e fu la mia più tenace illusione –prendere le cose, vive, nella trappola delle frasi: se combinavo ingegnosamente le parole, l’oggetto si impegolava nei segni, era mio. (Le Parole)
Se la scrittura libera Gustave Flaubert dell’autismo della sua bêtise, essa genera, per un altro lato, un nuovo autismo; quello della scrittura stessa, del libro come mondo a parte, come un mondo separato dal mondo. In questo modo il piccolo idiota si trasfigura in un genio, in un vero e proprio Creatore. Ma questo Creatore è intaccato dalla morte. Non ama il mondo ma fugge dal mondo. Egli è solo un «Dio suicida». Nel perseguire la frase perfetta, impersonale, nella tensione ascetica verso la precisione e la bellezza della forma, nel suo culto assoluto per l’Arte, Flaubert personalizza la sua derealizzazione di partenza in una irrealizzazione. Diventa padrone del mondo, ma solo di un mondo morto che assomiglia ad un erbario malinconico:
Non era nulla, non aveva nulla, ora è tutto, ha tutto… si impadronisce del mondo per metterlo in questi piccoli erbari che sono i libri… non per conoscerlo, ma solo per possederlo ed abolirlo.
La scrittura è una soluzione al problema della sua passività originaria, è un modo di sottrarsi dal peso dell’ombra della morte, di trovare una via di uscita dal destino assegnatogli dall’Altro, ma è anche una nuova prigione. Dalla sua condizione di «uomo penna», di recluso, di asceta della scrittura, egli osserva il caos della vita con distacco. Vive in una nuova «atarassia» che però, diversamente dalle prime estasi ed ebetudini, dona finalmente al suo Ego una consistenza. Come per il giovane Baudelaire – «fratello gemello di Gustave» –«l’opera d’arte è l’unico relitto di un lungo naufragio in cui l’artista si è perduto, con tutti i suoi averi».
Prefazione alla nuova edizione de L'idiota della famiglia di Jean-Paul Sartre, il Saggiatore 2019.
Note di lettura:
Ove non espressamente indicato, tutte le citazioni sono tratte da Jean-Paul Sartre, L’idiota della famiglia, Trad. it. Corrado Pavolini, 2 voll., Il Saggiatore, Milano 2019, p. 1110, € 65di cui questo saggio costituisce l’introduzione. I riferimenti completi delle altre, tutte di Sartre, sono i seguenti:
- «Lo scrittore e la sua lingua», in L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la «Critique», Il Saggiatore, Milano 1980;
- «Sartre visto da Sartre», in Materialismo e rivoluzione, Il Saggiatore, Milano 1977;
- L’universale singolare. Saggi filosofici e politici dopo la «Critique», Il Saggiatore, Milano 1980;
- Baudelaire, Il Saggiatore, Milano 1981;
- Santo Genet. Commediante e martire, Il Saggiatore, Milano 2017;
- Tintoretto o il sequestrato di Venezia, Marinotti, Milano 2005;
- Le parole, Il Saggiatore, Milano 1982;
- Quaderni per una morale, Edizioni Associate, Roma 1991.