Speciale

Tempo di libri - maestri / Jannis Kounellis. La potenza del frammento

7 Marzo 2018

Per contribuire a un momento d’incontro, approfondimento e scambio come Tempo di Libri, la fiera del libro che si terrà a Milano dall'8 al 12 marzo, non abbiamo solo creato uno speciale doppiozero | Tempo di Libri dove raccogliere materiale e contenuti in dialogo con quanto avverrà nei cinque giorni della fiera, ma abbiamo pensato di organizzare dieci incontri: maestri che parlano di maestri. Domenica 11 marzo alle ore 11 Massimo Recalcati parlerà di Jannis Kounellis.

 

Di fronte alla perdita del Centro, all’impossibilità di conservare la centralità del quadro, non si tratta di rimpiangere nostalgicamente alcuna totalità. Piuttosto la poetica di Kounellis ricerca attivamente il frammento senza la pretesa di compiere una sua unificazione finale. L’immagine che lo interessa non evoca alcuna compiutezza ma deve saper testimoniare l’impossibilità di ogni compiutezza. Questo non significa però distruggere l’opera o fare della distruzione l’unico senso possibile dell’opera. Kounellis si schiera contro ogni “estetica della catastrofe” per restare fedele allo spirito del Novecento, al “dogma della forma”. La storia resta dispersa, in frammenti, anche se il pittore insegue il suo senso epico:

 

Ricerco nei frammenti (emotivi e formali) la storia dispersa. Ricerco in modo drammatico l’unità, seppure difficile a cogliere, seppure utopica, seppure impossibile e, perciò, drammatica. Sono contro l’estetica della catastrofe; sono partigiano della felicità; ricerco quel mondo di cui i nostri padri del Novecento, vigorosi e fieri, hanno lasciato esempi rivoluzionari per forme e per contenuto.

 

Tra le installazioni più note di Kounellis vi sono indubbiamente quelle di porte o di cavità riempite di gessi di statuaria classica, di legni, di libri o di sassi e pietre. Nessuna sua opera più di queste mette in valore l’intensità particolare con la quale egli carica il frammento di potenza lirica. Di fronte alla perdita della centralità del quadro e al tentativo di uscire fuori dalla sue strettoie narcisistiche, resta infatti solo il frammento. Il reale del frammento infrange lo schermo compatto della realtà. Tutta la poetica di Kounellis può essere considerata una poetica del frammento, del resto del reale e della sua assenza di Centro.

 

In queste installazioni i frammenti si accumulano uno sopra l’altro riempiendo una cavità, dando cioè luogo a una forma unitaria sebbene composta di pezzi staccati. In questo doppio movimento – frammentazione e organizzazione dei frammenti – possiamo ritrovare la cifra forse più significativa del lavoro di Kounellis: rinuncia alla centralità del quadro, perdita della totalità e ricostruzione di una nuova forma, ricomposizione dei frammenti in un nuovo insieme. Se il frammento è il significante del “dramma” – come si esprime lo stesso artista – il compito della pratica dell’arte è quello di ricomporre in una forma nuova la “mancanza di centro” dalla quale i frammenti scaturiscono. Il frammento non viene negato, ma nemmeno esposto nella sua realtà caotica. L’“integralità” dell’insieme – come avviene anche nel lavoro di Burri con i sacchi di juta – si inscrive in un nuovo ordine formale. Kounellis è preciso su questo punto:

 

Bisogna capire la differenza tra l’integralità e un frammento. Naturalmente il frammento non è una finalità, né può essere estetica. Di fronte alla concretezza della totalità rimane un dramma, un grandissimo dramma, perché si possiede solo una parte, non la totalità. La finalità ultima di ogni cosa è quella di ritrovare la concretezza dell’insieme. […] Non puoi avere solo una parte, il frammento, devi avere anche la totalità. Ecco la ragione della nostra ricerca a ritrovare il potere della totalità. […] Tuttavia il potere per ricomporre il frammento non c’era e non c’è. Si rimane al frammentario. Questo stato è drammatico, o meglio è vissuto con drammaticità, perché non si vuole né abbandonarlo, né tradirlo.

 

Nel riempimento della cavità della porta con frammenti accumulati di statue classiche o di altri materiali, Kounellis dà corpo a una teatralità che rinuncia alla centralità ottica del quadro. Più che di riempimento si tratta di un’“organizzazione del vuoto”, come direbbe Lacan. Il frammento, come la macchia nera, resta indice del reale in quanto impossibile da comporre in una totalità. Non si tratta di semplici rovine o reliquie, non si esercita nessun collezionismo ornamentale, perché in questione è la nostra stessa condizione di soggetti presi nella rete del linguaggio: è l’esistenza del linguaggio, come spiega Lacan, che, separandoci irreversibilmente dalla Cosa, ci esilia da ogni Origine.

La traccia di questa ferita – più originaria di ogni Origine – ritorna, può ritornare, solo nella forma dispersa del frammento, del pezzo staccato o della macchia che disturba l’ordine della realtà e i suoi sembianti. È nuovamente il tema dell’ombra, del nero, dell’informe, del dionisiaco, dell’eccesso della vita e della morte che assediano perennemente la luce della ragione.

 

È quello che ritroviamo anche nel poderoso ciclo di opere presentato a Barcellona nel 1989, dove delle carni animali squartate vengono appese a pareti di ferro ed esposte nella loro nuda frammentarietà per accentuare la drammaticità della condizione umana. Oppure nella barca a pezzi esposta a Berlino nel 1991 dove l’artista è intervenuto dilaniando in più parti la sua unità. E tuttavia, proprio mentre espone quelle carni e quei frammenti di barca, evocando al di là della realtà il reale della nostra condizione umana, della vita frammentata, parcellizzata, tagliata, traumatizzata dal significante, gettata nell’abbandono assoluto e nell’inermità (Hilflosigkeit), queste opere non suscitano alcun orrore bensì un sentimento profondo di pietas senza parole.

 

Ho visto il sacro negli oggetti di uso comune

 

Kounellis si dichiara ateo, ma tutto il suo lavoro è pervaso da un profondo senso religioso delle cose. “Vorrei insistere,” scrive una volta, “sul valore assoluto, ma laico, di un tondo di sapone.” Questo significa, come precisa, situare il sacro non in una trascendenza metafisica al di là del mondo, in un mondo dietro il mondo, come direbbe Nietzsche, ma immergerlo orizzontalmente nelle cose più comuni. Lo afferma provocatoriamente in numerose circostanze, per esempio quando sostiene che “da un barattolo di birra dipende la vita o la morte dell’arte”.

Un uovo, una pietra, un cactus, un ferro, un sacco di carbone, un barattolo di birra, dei semplici fiori: non si tratta solo di oggetti–scarto, umili, lontani dalla gloria narcisistica dell’ideale. Kounellis eleva, come Burri e come Parmiggiani, la materia di cui è fatto il mondo al rango dell’assoluto.

“Ho visto il sacro,” afferma, “negli oggetti di uso comune.” Per questo un semplice “mucchio di carbone” può salvare la vita (“Sapevo, da quel mucchio di carbone, che ero un condannato a morte, che tentava di salvarsi”).

La trascendenza è una piega dell’immanenza, non una sua antitesi; questo significa sottrarre tutti quegli oggetti ordinari alla ripetizione anonima in cui li inscrive la macchina capitalistica della produzione, per renderli unici e insostituibili:

 

Che cosa c’è di bello in un barattolo di birra; che cosa c’è di diverso di fronte a un quadro di Tiziano? E la nostra epoca? Perché la nostra epoca si identifica in un barattolo di birra? […] La caratteristica di un barattolo di birra è che viene ripetuto una infinità di volte, mentre un quadro di Tiziano è unico. […] Allora cosa aggiungo e cosa tolgo al barattolo di birra? Gli aggiungo una visione del tempo che tiene conto del passato e gli tolgo quella parte della sua natura, cioè: essere ripetuto.

 

Il sacro è una figura del reale: non è ciò che dà senso al mondo, ma è il segreto – impossibile da definire – del senso del mondo. Segreto che non può essere, come spiega bene Derrida, che “assoluto, ab–solutum nel senso etimologico del termine, ossia ciò che è rescisso dal legame, staccato, e che non si può legare: se c’è dell’assoluto è il segreto”. Ridare unicità a un semplice barattolo di birra significa restituire alla presenza la sua gloria e la sua solennità. Basta un barattolo di birra. Interrompere il ciclo anonimo della ripetizione e della riproduzione; elevare un oggetto, nella sua nudità segnica, al rango dell’assoluto. In questo senso la trascendenza è solo una piega dell’immanenza. Anche la passione di Cristo viene da Kounellis frequentemente allusa, evocata e confusa con quella dell’uomo. Il Dio che lo interessa non è infatti il Dio della potenza e della gloria, né quello romantico–panteistico che possiamo ritrovare in Van Gogh, ma quello che risiede nel frammento, o, meglio, quello di cui il frammento è un indice. Il Dio che interessa a Kounellis non è il Dio pasquale della resurrezione, ma, come per William Congdon, quello umanissimo della crocefissione.

 

In un’importante mostra personale svoltasi a Chicago nel 1989, troviamo un’opera di grande forza, Senza titolo, in cui si possono vedere, in un trittico di straordinario impatto teatrale, degli indumenti comuni (pantaloni e giacca scuri) che rivestono delle sbarre di ferro. Nelle due parti laterali le sbarre sono situate in verticale e in orizzontale, mentre in quella centrale appaiono come riunificate evocando chiaramente il simbolo cristiano della croce. Il Cristo crocefisso non è il Figlio di Dio ma il figlio dell’Uomo. Kounellis vuole amplificare così il tema della kenosis cristiana, dell’abbassamento, dell’incarnazione di Dio nell’uomo. Sulla stessa linea si trova anche un’opera come Deposizione (1999), esposta nella chiesa di San Carlo a Spoleto: sull’altare, sotto a un quadro barocco, vengono situate quattro traversine di ferro che comprimono una quinta più allungata avvolta da un sudario bianco. Ancora, con ancora più forza teatrale, considerato lo spazio a disposizione, lo stesso tema ritorna nel 2009 all’ex oratorio di San Lupo di Bergamo, dove una gigantesca croce inclinata a terra proietta la sua ombra su un’infinità di abiti civili desolatamente abbandonati. Di nuovo al centro troviamo l’esperienza di un mistero che non riguarda innanzitutto Dio, ma l’uomo, o, più precisamente, il rapporto dell’uomo con la sua finitezza costitutiva, con il suo destino mortale. Come accade anche in Tragedia civile del 1975, l’uomo è prima di tutto un’assenza, una mancanza, una presenza che si è dileguata. Al centro la sagoma della croce caduta sulla terra in posizione obliqua.

 

In un’intervista Kounellis spiega la nostra condizione come quella che viene rappresentata in certe pitture medievali. Tra i due regni, quelli dell’inferno e del paradiso, solo un ponte sottile che consente il transito precario dall’uno all’altro. È questo, conclude Kounellis, il “tipo di pericolo” che si sforza di rianimare nelle sue opere. Pericolo che espone l’opera verso l’assoluto, verso il “diritto del divino”.

Accade come per le celebri scarpe di contadino di Van Gogh omaggiate da un noto scritto di Heidegger: esse, contrariamente a ciò che sostiene Heidegger, non si limitano a riassumere un universo di significati – il mondo contadino, la terra, il cielo, la fatica, il tempo della vita e della morte –, ma esibiscono una sconnessione fondamentale dagli altri significanti, cadono fuori dalla scena del mondo, sono slacciate, spaiate, semplicemente abbandonate, come commenterà Lacan. È questo che provoca un senso di struggente bellezza. La commedia del mondo – il quadro uniforme della realtà – è infranta: essere un paio di scarpe abbandonate, un Cristo crocefisso, uno scarto, un resto, un mucchio di carbone buca il regime ordinato della rappresentazione. Qualcosa cade all’esterno della scena del mondo, qualcosa si perde irreversibilmente. La forza redentrice dell’arte si manifesta tutta qui: non ornando l’informe, velando l’orrore del reale, occultando la mancanza e la ferita, ma mostrando l’oggetto nella sua più pura ed enigmatica presenza, nel suo statuto di puro oggetto–scarto.

 

Accade anche con un’altra opera toccante del 1972 intitolata Senza titolo, dove l’artista espone le scarpine del figlio Damiano dipinte d’oro sopra la base di una croce di legno. Nel luogo del crocefisso – della passione del Figlio di Dio che si è fatto uomo, del suo corpo lacerato e della sua inerme fragilità –, sorge una luce nuova, quella che ricopre le scarpine del proprio figlioletto dell’oro lucente, bizantino, dell’icona.

È lo stesso oro – presente non a caso anche nell’opera di Congdon – che ritroviamo in Tragedia civile del 1975. Opera chiave della produzione di Kounellis al cui centro c’è innanzitutto – come nell’ex oratorio di San Lupo di Bergamo – l’assenza, il vuoto e la sua organizzazione scenica. Lo sfondo è quello di una parete dipinta integralmente d’oro; un attaccapanni a cui sono appesi un cappello e un cappotto neri. Un’uscita sul nulla, una macchia enigmatica a terra. Nient’altro. Solo la presenza di una lampada a petrolio che condensa, secondo le stesse dichiarazioni di Kounellis, quella storia dell’arte che ha dato corpo al grido drammatico dell’uomo: la luce ombrosa di Caravaggio, la lampada del tavolo dei Mangiatori di patate di Van Gogh, quella che sbuca dalla finestra retta da una mano disperata in Guernica di Picasso.

 

Mentre nelle icone bizantine l’oro sottolinea e circonda il carattere sacro del volto del santo, l’oro circonda qui un’assenza, come avviene ancora più esplicitamente in Senza titolo del 1976, dove la camera disadorna di un hotel romano entra in attrito con la parete d’oro luccicante. In Tragedia civile il contrasto tra l’assoluto dell’oro e l’assenza evocata dalla presenza del nero degli abiti appare ancora più lacerante: l’uomo – ecco forse la tragedia – ha deposto i propri abiti, di lui non resta nulla; solo la sua mancanza, la sua assenza.

 

Da Massimo Recalcati, Il mistero delle cose. Nove ritratti di artisti, Feltrinelli 2017.

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