Speciale

Protocollo internazionale degli errori / Lockdown in Cina

30 Aprile 2020

Buona questa. Un amico poeta di Singapore la racconta su facebook: “Mi sono appena preso delle belle sputazzate da due ciclisti senza mascherina che parlavano a voce alta con accento british. Mentre tornavo a casa per lavarmi (rinunciando al mio giro al supermercato), sono stato inondato di nuovo da un altro gruppo di ciclisti senza mascherina, che parlavano a voce alta in italiano. What. The. Hell.” Del mio amico non mi va di fare il nome perché son tempi grami, questi. È uno dei poeti più importanti della generazione dei quarantenni nel piccolo paese del sudest asiatico, affianca alla scrittura un brillante lavoro di promozione della letteratura locale. È uno bravo insomma. Sono colpito dalla voglia evidente di mettere alla berlina comportamenti expat non confacenti al lockdown imposto a Singapore, meno forte del nostro perché lì si fa affidamento sulla responsabilità individuale. L’accenno al fatto che, dopo la sensazione di essere stato bagnato in faccia da gocce di saliva altrui, decida di tornare a casa a lavarsi, racconta abitudini igieniche dalle quali noi europei siamo ancora lontani. In ogni caso il tono del post è sorprendente, inatteso, simile a quello delle frasi xenofobe e salviniane dalle quali in Italia sentiamo il desiderio di difenderci. Ripenso a certi atteggiamenti diciamo così scontrosi che, nei primi tempi della mia frequentazione di Singapore, mi si paravano di fronte: l’automatismo anticoloniale qui è frequente, ci vuole un po’ a fargli capire che non sei il solito bianco spocchioso. Ma questo post è forte, cattivo. Apro la tendina dei commenti. “Uguale uguale è successo a me l’altro giorno, con un gruppo di ciclisti europei.”

 

E il mio amico: “È così che affrontano una crisi? Comportandosi come se non ci fosse?” Qualcuno scrive: “Ci vuole il lockdown completo per gli angmoh a Singapore!” Angmoh è il nomignolo in malay con cui da un paio di secoli si apostrofano i bianchi: letteralmente, ‘pelo rosso’. “Chissà, dopo si lamenterebbero che siamo razzisti noi, haha.” Un cognome forse olandese o tedesco: “Yep – mi viene da scusarmi per tutti i nostri idioti.” “Ma no,” risponde il mio amico “non ti compete, e non è colpa tua.” Un altro chiosa: “Non mi stupisco che nei loro paesi d’origine abbiano così tanti infetti… e allora si comportano così perché noi non siamo in lockdown completo come in Italia & Uk.” Poi, com’è naturale, qualche bianco interviene lamentandosi a sua volta della categoria dei ciclisti, il mio amico precisa che i #covidiots sono dappertutto senza distinzione di razza. Però lo sento il ben noto fastidio nei confronti di quella categoria di ricchi impiegatazzi della finanza e delle multinazionali, giovinastri bianchi che scorrazzano per il centro di Singapore nelle sere del fine settimana. L’ultimo commento che trovo è lapidario: bastardi. Vabbè, tutto ciò mi sta davanti agli occhi una mattina, svegliatomi tardi dopo la solita lotta con l’insonnia, mentre per la testa mi gira la voglia di raccontare come se la passino gli scrittori asiatici in lockdown. Bel viatico eh? 

 

Singapore mi interessa meno, io pensavo proprio alla Cina: che in queste settimane ci fa da battistrada, la chiusura decisa 45 giorni prima di noi e esauritasi ai primi di aprile. Insomma, ho chattato un mese con amici spaventati a Pechino, fino al momento in cui ho avuto da spaventarmi anch’io, in Lombardia. Ora ditemi amici dalla Cina: quando si riapre, che effetto fa? Questa idea di averli 45 giorni avanti su uno stesso percorso mi stuzzica. Faccio partire una raffica di chat dedicate alla riapertura, il risultato è un po’ frustrante. Il mio amico A Yi raccontava, nelle settimane passate, come il suo unico cruccio fosse non poter più andare a scrivere al coffee-shop, che era chiuso. In casa scriveva e leggeva come sempre, poteva anche uscire a fare spese, perché nel suo gruppo di condomini non c’erano postivi al Covid, però gli provavano la temperatura in ingresso e uscita. A Yi non parla inglese, ci scriviamo utilizzando il servizio automatico di traduzione di wechat (il social di stato cinese), e certe frasi vengon fuori strane: “Recentemente ho letto il tempo di memoria lungo sette volumi del prost.” Gli ho detto: qui ne ho sentiti tre, che son partiti con La Recherche.

 

 

Ma lui è uno scrittore vero, vive tra le proprie parole e quelle altrui, non vede mai molta gente. Al punto che gli piaceva quasi uscire nei giorni di febbraio e trovare le strade vuote. Poi la sera, in quella solitudine, con il buio si accendevano le luci nelle finestre del condominio, e lui pensava: sono tornato sotto gli occhi degli altri, sanno che sono qui. Dai, A Yi, ma raccontami bene adesso, la riapertura: com’è? Penso alla mia gatta quando la portavo in campagna d’estate, lei passava i primi due giorni nascosta sotto un letto. Un giorno uscì dal suo rifugio e venne sotto il portico strisciando letteralmente con la pancia a terra, si fermò qualche minuto con noi, e partì di un botto in una corsa sfrenata, su in cima al prato, in fondo e poi di nuovo indietro con un lungo giro circolare a rotta di collo, cento duecento metri, fino a tornar da noi a razzo e reinfilarsi in casa, sotto il solito letto.

 

Faremo così anche noi? E tu, A Yi? Lui dice sì, adesso posso fare qualche passeggiata più lunga. Ma io sto volentieri in casa a scrivere, non ho voglia di sentire le novità sul Covid, ne sto lontano. Certo, tornerò a scrivere al coffee shop. Il mio tentativo di capire ciò che gli passa per la testa viene risolto con un: “Pregherò perché tu stia bene.” E poi le foto degli alberi fioriti a Pechino, primi di aprile, mi scrive: lilla, lontra marina, pesco, fiore di ciliegio (che poi il traduttore, chissà). Ma anche la foto di un caffè, le persone sedute a distanza, un tavolo sì e uno no: il nostro futuro, eccolo. Gli dico: e come parli? Lui: no, si può parlare, a distanza. Gli dico eh, in coda al super io provo a far partire la chiacchiera, ma son tutti un po’ chiusi. Lui: vedrai, migliorerà tra qualche giorno, all’inizio tutti avevano paura, c’era il silenzio rotto solo dalle notizie. Poi, quando si vede che non ci sono casi nel tuo compound, la gente si calma pian piano. Eh già, ma un caso nel mio condominio c’è stato, qui è Milano, Lombardy. Ammiro i volontari, dice, che sono andati a lavorare nelle aree più colpite. E viene fuori il nome magico, Li Wenliang, il medico che tentò di informare la Cina, sempre tramite wechat, di ciò che stava accadendo a Wuhan, e fu censurato e portato in guardina. La reazione all’epidemia partì con un buon mese di ritardo, oggi il regime ha fatto dietrofront e Li Wenliang, morto di Covid, è diventato un eroe nazionale. A Yi è stato gravemente malato qualche anno fa, ora sta bene, e quindi può chiosare: sai per me stare rinchiuso non era poi una gran novità. Poi la mette sullo scherzo, mi parla di Dybala, i giocatori della Juve positivi. A Yi però è milanista. È contento perché le librerie hanno riaperto, a Pechino. 

 

Poca soddisfazione me l’aveva data anche Chu Chen, editore. Dopo il capodanno e quindi dal 10 febbraio lui ha ripreso a lavorare come niente fosse, andando in ufficio tutti i giorni. Certo, il calendario delle uscite è slittato di un paio di mesi. Ma ditemi, amici di Pechino, e tutto l’impazzimento nostro, quelle prime settimane ad aspettare la conferenza stampa con i dati giornalieri, la paura, poi le timide uscite, ora l’impazzimento delle fake news, le balordaggini sulle app, sui vax, sul 5g, le signore piene di rabbia con i figli in casa, qualche amenità sugli anziani? Ho letto di una rabbia montata in Cina su wechat contro il governo, talmente forte da non poter essere più oscurata: nella mia bolla wechat, piccola in verità, niente di tutto questo. La professoressa Du Ying, che insegna letteratura italiana a Xian, risponde serafica: da noi fa molto freddo, l’inverno, stare in casa per mesi è normale. Io ho fatto le mie lezioni online, tre mattine la settimana, meglio che uscire nel gelo delle strade della mia città. Tra l’altro avendo in genitori in città, per il capodanno non si è mossa, è stato un modo di scivolare con gradualità nell’emergenza, e sì, lei la usa la parola paura: mi hanno portato più angoscia i social. In famiglia e tra i miei conoscenti non c’è stato nessun caso, sui social volavano le notizie di tutti i tipi, anche molte esagerazioni. Parla di Li Wenliang: una delle ragioni della rabbia. E ora, che potete uscire di casa? La città vuota, sconosciuta. Le persone hanno ancora paura a uscire. Pian piano si comincia a lavorare, qualcuno va a mangiare fuori, nei parchi che sono aperti su prenotazione. Potete di nuovo incontrare gli amici, dico: devo confessare, risponde, che sono un po’ viziata da Internet, con gli amici mi vedo ancora così, a distanza. 

 

Poi irrompe Ou Ning, che tanti scrittori ha fatto scrivere sulle pagine delle sue riviste: scrive da Jingzhou, una città dell’Hubei, 200 km da Wuhan. Ci scriviamo solo ora, e il racconto è di chi da un lato la paura l’ha vissuta davvero, dall’altro di chi, come sempre, punta il dito sul governo cinese e sul partito comunista. Bloccati per due mesi dentro al compound, la spesa recapitata due volte al giorno, una persona sola può scendere al cancello per il ritiro, sotto il rigido controllo del comitato di quartiere. Una suocera con un tumore, quindi accompagnarla in ospedale per i trattamenti con il drone, davvero, che li sorvola e grida dall’altoparlante. Notizie frammentarie, video di morti negli ospedali, poi cancellati da wechat e subito sostituiti da nuovi video: “Tutti erano spaventatissimi, perché qui nessuno si fida del governo, questo ha indotto il panico.” Poi: “L’OMS ha sbagliato, è stata troppo acquiescente con la Cina.” E certo, lui non dormiva, si arrabbiava, si disperava, non riusciva a lavorare, a scrivere.

 

Poi, una fortuna: il libro nuovo in pubblicazione per una casa editrice inglese, la correzione delle bozze, un modo di attaccarsi a qualcosa e non pensare a niente. Ora c’è la app: ogni due settimane bisogna informare del proprio stato di salute, e viene emesso un codice, se è verde vai sui mezzi pubblici, se è rosso sei in quarantena. Dice: “Ho saputo che la Cina vi ha inviato del materiale, e qui hanno detto che era una donazione, in realtà lo avete acquistato, è vero?” Ora escono, sì, ma con cautela, lui ancora non si fida. 

 

Li Wenliang, è cosa nota, fu reintegrato nel suo posto di lavoro e dopo poche settimane, nemesi terribile, morì di Covid. Il regime, con la consueta abilità, ne ha poi fatto un martire nazionale. Ma tutti ricordano di come firmò il foglio con la sua autocritica per aver divulgato informazioni lesive della sicurezza nazionale: di suo pugno vergò, a fianco alla firma, due caratteri: mingbai. E cioè: ho capito. C’è un artista importante, Zhang Peili, che ha cominciato a produrre magliette con i due caratteri bene in vista. Chissà chi mai le porterà, in Cina. Chicca finale: leggo da Singapore proteste perché l’azienda dei trasporti ha ridotto le corse, e il risultato è che le persone in metrò non sono distanziate. Era successo a Milano, poi a Parigi, ora lì. Come se ci fosse un protocollo internazionale degli errori. Protocollo anche per l’ansia: l’amico poeta posta una foto con lunghe occhiaie, insonnia fulminante nelle prime due settimane del lockdown. In Cina sono 45 giorni avanti, a Singapore ora son tornati un mese indietro a noi. Come si dice al bar: tutto il mondo è paese. Però io sono in Lombardia.

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