Omar Calabrese: divertimento e disperazione

10 Marzo 2025

In questi tempi destabilizzanti, in cui anche gli intellettuali non sanno più bene cosa fare, travolti dalla concorrenza della IA, dalle sabbie mobili dell’ideologia woke, dagli opposti manicheismi pro-Pal/pro-Israel, ci sono libri che possono essere di consolazione e di illuminazione, mostrando qualche felice caso di osservazione intelligente del reale: di consolazione, mostrandoci che gli sguardi intelligenti esistono; di illuminazione, indicandoci qualche sentiero ancora percorribile, pur nel buio dei tempi. È grazie al lavoro di Francesco Mangiapane e Gianfranco Marrone che possiamo leggere, o ritrovare finalmente uniti e ordinati, gli interventi che Omar Calabrese ha scritto sui quotidiani dal 1978 al 2007, offrendoci uno specchio dei tempi e una bussola, per orientarci (ancora oggi) nel caos della realtà. Il libro è Ladri di virgolette. Interventi 1978-2007, appena pubblicato per i tipi del Museo Pasqualino, a Palermo.

Omar Calabrese è una di quelle figure inclassificabili che ci ha guidato fra la fine di un secolo e l’inizio dell’altro; ci ha accompagnato da semiologo, insegnandoci a guardare l’arte con la lente di chi si è formato allo studio dei linguaggi (Semiotica della pittura, Il linguaggio dell’arte, La macchina della pittura, sono solo alcuni dei titoli dei volumi con cui ci ha insegnato un metodo, fino ad arrivare a L’età neobarocca, nel 1987 – uno dei saggi forse più belli della critica semiotica della cultura); ci ha accompagnato da esperto di comunicazione politica (a lui si deve, fra le altre cose, il simbolo dell’Ulivo prodiano); ci ha accompagnato da intellettuale disposto a rimboccarsi le maniche nel mondo complicato delle responsabilità istituzionali, curando mostre, occupando il ruolo di assessore alla Cultura a Siena, dirigendo la Fondazione Mediateca della regione Toscana; etc. I suoi libri sono numerosi – sempre più rivolti all’arte (l’ultimo, bellissimo, dedicato al trompe-l’oeil) – ma ancor più numerosa e disseminata è stata la sua attività pubblicistica, finalmente qui raccolta e organizzata: uno specchio delle sue inesauribili curiosità ma anche delle passioni di un Paese.

Mangiapane parla nella sua introduzione (p. 11), molto giustamente, di “diario collettivo” – un ossimoro, a pensarci bene, se i diari sono sempre personali, e però efficace perché quel che emerge dall’insieme di questi testi (che andrebbero letti, appunto, come insieme, e non presi in modo rapsodico, uno ogni tanto) è uno spirito dei tempi, un insieme di vizi, passioni e virtù che racconta tutti noi, i noi di allora, ma in parte anche di oggi. I temi che emergono, con tutta la loro ostinata attualità, sono tanti: l’eccesso di informazione, la spettacolarizzazione dei media e della vita, il ricorso sempre più frequente alla “gente comune” (espressa in varie forme lessicali), le nuove forme di fruizione dell’arte, con mostre-evento sempre più pop, la crisi della Sinistra, la distanza dell’intellettuale dalla realtà (e talvolta dalla Cultura)… solo per citarne alcuni. Ma è soprattutto un atteggiamento, quello che il libro ci mostra – nucleo di una eredità preziosa che questo volume ci consente di recuperare: un serio ludere, che è un modo di stare al mondo riflessivo e partecipe, che ha la distanza che ogni forma di serietà impone, ma anche il coinvolgimento di chi nella vita trova molte ragioni di divertimento e appassionamento. Calabrese era così, e Serio ludere era stato il titolo di una sua antologia del ’93.

Il volume è diviso in quattro parti: una prima di letture di specifici testi, per lo più mediatici (trasmissioni televisive, radiofoniche, spot…), la seconda di riflessioni più generali su alcune abitudini sociali, la terza dedicata all’arte (soprattutto alle mostre, che in quegli anni Calabrese osservava, o cui partecipava), e un’ultima parte più dedicata alla specifica posizione dell’intellettuale-semiotico.

È soprattutto la prima parte, preponderante anche quantitativamente, a colpirci per la sua attualità. Ad esempio le riflessioni sulla sovrapproduzione di notizie che scorre parallela alla loro personalizzazione: insieme, i due processi fanno sì che venga a “mancare il quadro di riferimento collettivo” (p. 48). Forse è proprio quanto è di fatto avvenuto, a distanza di oltre quarant’anni da quando Calabrese faceva queste osservazioni: il quadro di riferimento collettivo… oggi sembra perfino un’esigenza eludibile; chi ne parla più? Eppure quarant’anni fa era un rischio paventato come lontano. Ma “un futuro in fondo non tanto futuro potrebbe fare della ‘notiziabilità’ l’unico criterio di realtà, e dello spettacolo l’unico metro per farsi ascoltare da un pubblico di massa. Le aberrazioni possibili sono moltissime, e le Brigate Rosse nel recente passato ci hanno insegnato dove si può arrivare pur di ottenere presenza stampa” (p. 49).

A noi – dopo le Brigate rosse – è stato dato di vedere altri “spettacoli”: quello del terrorismo islamico dell’11 settembre, quello degli ostaggi di Hamas riconsegnati su un palco in questa tregua di inizio 2025, ma anche (per non pensare solo a casi di violenza estrema) quello di Greta Thunberg, che col suo impermeabile giallo ha martellato l’immaginario di un’infanzia senza presa sulla realtà. Che per la notiziabilità servisse un alto quoziente di memorabilità visiva è diventato evidente; e al contempo, e in modo più preoccupante, anche che la notiziabilità possa diventare criterio di realtà ci sembra quasi ovvio; la perversione si è normalizzata, al punto che diventa notizia (da quotidiano) qualsiasi sobbalzo della star del momento: che all’Isola dei famosi qualcuno abbia tradito la sua partner fa notizia? Bene, può entrare nel novero dei fatti, di cui è normale rendere conto (come se davvero facesse parte della realtà e non di quell’acquario che è L’isola).

E quando Calabrese ci avverte che sempre più spesso “la fantasia costruisce la realtà” e che “si può pervertire l’informazione costruendola a partire dalla fiction” (p. 68), non possiamo non pensare a quel che è successo in questi anni; ne bastano due di casi esemplari per cogliere tutta la vischiosa attualità di queste osservazioni: il cursus honorum di Trump, consumato negli studi di The Apprentice, e quello di Zelens'kyj, che dagli schermi di Servitore del popolo è passato alla drammatica realtà di un presidente di guerra. La realtà non è forse stata modellata, in questi casi, dalle fiction televisive?

A fronte di queste intuizioni lungimiranti, fanno invece quasi impressione le osservazioni di Calabrese sul fascismo. Scriveva nel 1983: “oggi, anche se ciò dispiacerà ai cultori della Resistenza, ‘fascista’ in verità non significa più nulla. Intendiamoci, non che non esistano più i fascisti (la strage di Bologna è appena di ieri!). Ma certo non esistono più i ‘fascisti’, cioè un insieme di contenuti con cui eravamo abituati a identificare un gruppo o un comportamento sociale. La riprova sta nel linguaggio. Non solo ‘fascista’ è caduto in disuso, tranne che nelle formule stereotipe dei discorsi ufficiali, quando si dichiara che il tale evento ‘è di chiara marca fascista’. Ma addirittura, per descrivere un fenomeno come la rinascita della cultura reazionaria, si parla di ‘nuova destra’. In italiano, come in inglese, come in francese. Il che testimonia dell’impossibilità di definirla con i vecchi termini linguistici, e neppure con quelli ideologici che la rispecchiano tradizionalmente.” (p. 111).

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È evidente che i tempi, qui, sono cambiati in modo imprevedibile, ed è il caso di dire: ahimè. Per Calabrese, quarant’anni fa, era impensabile un rigurgito lessicale di fascismo, considerando quella parola – come unità semantica che coagula, sotto un significante, valorizzazioni, usi, pratiche, distinzioni, posizionamenti, impliciti – ormai fuori dal circuito del possibile: inattuale come inattuale è qualcosa che non esiste più né può più farlo. Ma la cultura, si sa, è fatta di discontinuità e ricomparse non lineari, spesso imprevedibili, solo ex post ricollocabili su una stessa linea di evoluzione, come le forme discontinue eppure a un certo punto ravvisabili dell’universo neobarocco. Che possa essere di attualità, dunque, come lo fu l’Età neobarocca, una Età neo-fascista? Rigorosamente sulle forme semiotiche del fascismo ritornante.

Molto intriganti, sempre per le nostre riflessioni sull’attualità, specie di questi tempi di populismo trionfante, le pagine sulle forme di riferimento discorsivo, e di costruzione discorsiva, della vox populi. Calabrese ne distingue alcune, che è prezioso vedere sullo sfondo del panorama attuale, per coglierne la presa: cosa raccolgono, oggi, le locuzioni che elenca Calabrese?

L’opinione pubblica: “è la locuzione” – dice l’autore (p. 136), che qui e di seguito cito in modo frammentario ma fedele – “che serve per avvalorare i giudizi. La usano soprattutto i giornalisti, per non scoprire le fonti di informazione. Può essere sostituita da ‘voci bene informate’, ‘ambienti vicini a’ quando si preferisce individualizzare la fonte.” Secondo me oggi “l’opinione pubblica” è caduta un po’ in disuso. È troppo astratta. Oggi piacciono espressioni più concrete, carnali, popolari.

La gente: “fa parte del discorso qualunquista, e di solito viene seguita da verbi modali: la gente vuole, la gente deve, la gente sa, la gente crede, la gente fa”. Sono pienamente d’accordo; l’uso di “gente” non è cambiato granché: la gente, in quanto tale, legittima quel che pensa e dice, e così legittima (circolarmente) chi si appella alla gente. Peccato che non si sa a chi corrisponda. Nessun quantificatore e nessuna determinazione sono in grado di precisarne le caratteristiche: io e i miei pochi familiari siamo più gente di me e i miei numerosi colleghi semiotici (col nostro sapere sempre un po’ di nicchia?).

L’uomo della strada: “questa è locuzione populista, solitamente di destra. Maschera un discorso paternalista per discorso democratico, fingendo di esprimere i bisogni di coloro che non sanno esprimerli. Può essere sostituita anche da ‘il cittadino’ o da l’uomo comune’.” Oggi, a me pare, il paternalismo non ha più quartiere. Esso presuppone una distanza e un’attitudine pedagogiche che mal si attagliano a un presente in cui proprio (o anche) gli underdog sono a occupare gli spazi del potere. La distanza paternalista non è praticabile; l’identificazione, sì. Ricorrere all’uomo della strada funziona se quell’uomo della strada sono io.

Il popolo, la massa: “anche questa denominazione è solitamente reazionaria. Popolo e massa sono infatti un retaggio della lingua delle dittature nazifasciste, con un senso di profondo disprezzo per l’amorfo collettivo, al quale si impongono le decisioni. Il ‘popolo’ tuttavia è termine più sfumato; le ‘masse’ è invece la parola, al plurale, del gergo vetero-marxista. Il plurale, infatti, relativizza l’aspetto amorfo del termine, e gli dona una sua dialettica interna. Oggi, tuttavia, anche nel linguaggio comunista si preferisce evitarlo, e piuttosto sostituirlo con locuzioni più complesse, come ‘grandi masse di’....”. Su questo, come sul lessico fascista, si misura l’imprevedibilità del presente, la sterzata non immaginabile che, dopo il crollo delle ideologie, il mondo politico ha preso. “Il popolo” non ha più nulla di sprezzante; la sua qualità amorfa è diventato il suo talento proteiforme; è il popolo, ormai, a legittimare ogni leader, in mancanza di patrimoni ideal-politici coerenti e strutturati. Altro che termine da evitare…

Calabrese parla poi della maggioranza silenziosa: “fu la grande invenzione di Nixon per contrastare l’immagine di grandi numeri di contestatori alla politica governativa. A chi protesta in piazza si oppone colui che tace perché non viene organizzato o perché è intimidito. Ma che ha dalla sua la forza dei numeri.” Oggi l’idea di maggioranza a me sembra quasi impronunciabile. Con l’astensionismo che caratterizza ormai qualsiasi tornata elettorale, l’unica forma di reale maggioranza silenziosa è quella degli astenuti – delusi e colpevoli di non partecipare a un rinnovamento costruttivo, giustificati dall’assenza di proposte di reale rinnovamento. La maggioranza silenziosa è assente.

E la gente comune di Cossiga? “Ho l’impressione che si collochi non a livello del ‘popolo italiano’ di Pertini quanto piuttosto alla confluenza di molti dei termini della lista precedente. L’area di riferimento di Cossiga appare essere dunque quella della gente di ‘buon senso’, un po’ grigia, tranquilla”. La gente comune continua a funzionare; esprime in forma legittima dei bisogni comuni; esprime il senso comune. Rivendicazione di destra (la paura dei migranti, ad esempio: è paura della gente comune) e di sinistra (quando lamenta le insufficienze della Sanità, le difficoltà sulla casa…), è talmente legittima da farsi trasparente. Non fa rumore; bisogna tendere l’orecchio e affilare la vista.

La lezione di Calabrese, che da queste pagine emerge chiaramente, è una lezione di attenzione. Nell’osservazione del linguaggio in azione – il linguaggio della gente comune, la tv della gente comune, i gusti della gente comune – Calabrese mostra di sapere vedere le “logiche” dei tempi, i valori che vi dominano, i bisogni. Mangiapane parla di una “vocazione rinascimentale di Calabrese, a ritrovare l’uomo intero” (p. 20). Ecco, l’uomo intero emerge dall’osservazione dei dettagli del mondo – un mondo osservato nei suoi consumi e nei suoi vizi, nelle sue parole e nelle sue polemiche, fra alto e basso, insieme divertente e preoccupante, destinato per questo a un serio ludere. Il semiologo è il funambolo che sa tenersi su questa linea sottile, e da lì guardare e capire il senso comune e la gente comune del mondo. L’equilibrio – tra critica, analisi, divertissement, giudizio – non è semplice. Calabrese sapeva tenerlo.

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