I simboli sono innocenti

11 Gennaio 2024

Per riflettere meglio su alcune controversie della confusa attualità che attraversiamo – tra Atreju, irrinunciabili fiamme tricolori, consumate e transmediali Bella Ciao, sardine ormai disperse e stelle che nel numero di cinque significano una cosa, se sono quattro o sei un’altra – dovremmo tutti leggere Simboli d’oggi. Critica dell’inflazione semiotica, a cura di Dario Mangano e Franciscu Sedda, per la Biblioteca di Meltemi: un volumone impegnativo nella foliazione (548 pagine) ma che a ogni passo parla di noi, con pochi tecnicismi semiotici e una chiara presa analitica sul reale. 

Parla di noi perché parla dell’inaggirabile bisogno di simboli che abbiamo, e del perché siano dunque tanto importanti. Il sottotitolo, “Critica dell’inflazione semiotica”, e alcune pagine all’interno, fanno pensare a una speciale passione della contemporaneità per la sovrapproduzione di simboli – come se nel consumo impoverente dei discorsi nella società iper-mediatica e iper-discorsiva che viviamo, ci fosse più bisogno di segni “densi”, quasi solidi, a fare da punti fermi. Da parte nostra, non escludiamo che questo ci sia, ma soprattutto siamo convinti che ogni epoca abbia vissuto di simboli e ne abbia l’esigenza; il perché lo spiegano bene i saggi di questo libro.

Il simbolo, infatti, ha una ineludibile funzione unificante: tiene insieme attori, spazi e tempi diversi, ovvero: aggrega comunità, costruisce ponti fra spazi diversi, ritrova il passato e lo lancia nel futuro. Non è poco.

Come nota Sedda nel capitolo introduttivo, i simboli evitano che la temporalità si sfaldi in momenti cronologici isolati. In un simbolo non ci sono salti temporali, ma cortocircuiti assoluti, sciolti dalla linearità razionale; basti pensare alla svastica, le cui prime attestazioni sono nell’antichissima Mesopotamia, o anche, meno drammaticamente, alla mela di Apple, che certamente riprende quella emancipatoria e tentatrice di Eva.

Il bello del simbolo è che il suo passato conta, ma fino a un certo punto… Ogni simbolo, infatti, riscrive la memoria, piegandola spesso a significazioni del tutto inedite: quelle che guardano al futuro.

Il simbolo, insomma, ci lascia liberi, o quanto meno abbastanza liberi. 

Su questa intrinseca possibilità di gioco che il simbolo consente, è bene menzionare una delle intuizioni più felici di Umberto Eco, che al simbolo ha dedicato un importante capitolo del suo Semiotica e filosofia del linguaggio, più recentemente (nel 2019) pubblicato come libello a sé per i tipi di Luca Sossella editore. Tutti gli interventi di Simboli d’oggi citano il saggio di Eco che, evidentemente, come spesso è stato per i testi echiani, è riferimento della riflessione semiotica, fosse anche solo per una critica circostanziata.

Eco in quel saggio mette in discussione la convinzione che i simboli siano tipi particolari di segni, per loro natura diversi, per proporre invece l’idea di un modo simbolico di interpretazione e uso di segni che già esistono e sono magari del tutto ordinari. A caratterizzare questo modo, individua la necessità di un consenso fàtico, che mi pare l’intuizione felice cui accennavo prima (e che nel volume il contributo di Lancioni, p. 269, evidenzia): non importa che si sia d’accordo su ciò che il simbolo vuol dire, importa che si riconosca a quel segno (che così diventa simbolo) un particolare potere. Quel che del simbolo importa cioè è l’effetto-convergenza, non, per così dire, il messaggio, perché può essere che ciascuno veda in quel segno il simbolo di messaggi diversi: una bandiera può significare cose diverse, “quello che importa è che intorno alla bandiera ci si raduni”.

Capiamo, dunque, da queste riflessioni che i simboli diventano tali (perché poi invece possono “sfiorire”, diventare inattuali; i segni non sono simboli per sempre, come dimostrano molti emblemi di cui non capiamo più il significato) quando aggregano, e per questo ne abbiamo bisogno. Sedda cita molto opportunamente Juri Lotman (che insieme a Eco è l’altro semiologo che al funzionamento culturale dei simboli ha dedicato riflessioni importanti), che parla addirittura di una sorta di casella vuota delle culture: in ogni sistema è presente una posizione strutturale senza la quale il sistema rimane incompleto, non funziona a pieno, non ha piena vitalità. Quella posizione è occupata dai simboli.

Per questo – dicevo – non saprei dire se oggi abbiamo effettivamente una particolare inflazione simbolica, mentre certamente posso dire (insieme a tutti gli autori presenti in questo volume) che ogni cultura esprime sue proprie esigenze simboliche.

I simboli sono forze aggreganti, che da una parte danno agli individui la possibilità di un auto-riconoscimento, una possibilità di proiezione, perfino un senso di ritorno a qualcosa di originario: le icone pop che trasformiamo in simboli ci rappresentano, nella principessa Diana con il suo sogno e la sua infelicità ci siamo proiettati, nell’ineffabilità della Gioconda abbiamo visto una parte di noi stessi (oltre alla Italianità, che comunque titilla il nostro orgoglio), in Maradona abbiamo proiettato il nostro stesso riscatto (ho menzionato casi che fanno parte del volume). Dall’altra, mentre ci rappresentano, i simboli ci muovono, muovono il corpo sociale: pensiamo alla croce cristiana, o a QAnon, o (di nuovo) alle bandiere: in nome dei simboli facciamo cose, mettiamo in campo comportamenti, che hanno spesso in sé qualcosa di rituale (e non vale solo per il Cammino di Santiago, di cui nel volume si considera la Conchiglia di San Giacomo, ma anche per i Lego, che hanno uniformato i giochi di migliaia di bambini e relative famiglie nel mondo occidentale).

Come i miti, con cui hanno molte tangenze, i simboli definiscono uno spazio identitario per cui vale la pena mettersi in gioco: miti e simboli non sono uno spazio di disimpegno, ma al contrario uno spazio di investimento di sé, che però dà spazio al libero gioco dell’interpretazione (come dicevamo prima, ognuno vede e vive come vuole la propria bandiera) e alla contraddizione possibile: ai simboli come ai miti concediamo l’incoerenza (e verrebbe da pensare oggi più che mai al caso-Ferragni, impegnata e consumista, generosa e opportunista) e così, per proiezione, la autorizziamo per noi. 

Grazie ai simboli ci sentiamo parte di una comunità, anzi di tante comunità quante sono le dimensioni che riteniamo significative della nostra personalità: ci sentiamo cristiani, punk, ecologisti, complottisti, anche tutto in una volta… perché – vogliamo qui citare le parole efficaci di Demuru nel volume (p. 506) – “la comunità è prima di tutto una sensazione, un affetto. Un ‘noi’ che viene percepito, vissuto e performato ‘a fior di pelle’. Partecipare assieme […] è un’esperienza estatica. È rito, teatro, festa, performance, trance.” 

Attenzione, questa “liquidità” non è casualità, e non è neanche vaghezza (qualità che spesso si è attribuita ai simboli; anche Eco lo fa, nel suo saggio già citato). I simboli sono spesso progettati con grande attenzione, sono cioè l’esito di una manipolazione retorica strategica. Esemplare il caso della bandiera europea analizzata da Paolo Fabbri nel volume: essa è astratta per impedire una fidelizzazione patriottica dopo i disastri della II guerra mondiale; ha le stelle non convergenti per non riconoscere un centro unico etc..

Molto spesso, cioè, si verifica una vera e propria progettazione simbolica, che seleziona tratti e figure proprio per prestare il segno (o il personaggio o l’architettura o la foggia di un abbigliamento) a quel modo simbolico di interpretazione e proiezione di cui abbiamo parlato prima.

A partire da un potenziale di senso, la carriera simbolica dei segni, così come dei miti, si costruisce poi nel tempo, e nei discorsi che li nutrono: Mike Buongiorno, il Che, Charlie Brown sono diventati simboli, e altri ne potremmo citare: Anna Frank, per citare un simbolo in cui la Storia del Novecento collassa, tra infanzia ed età adulta, vitalità e morte, Storia e finzionalizzazione, innocenza (dell’adolescente) e strategia (di promozione).

Come è evidente, non è mai “colpa” dei simboli se diventano rappresentazioni di qualcosa di spiacevole, e perfino pericoloso (dalla svastica alla Z di Putin). I simboli sono innocenti. Sono i modi simbolici di interpretazione, proiezioni, manipolazione, aggregazione, consenso, a essere responsabili dei loro significati.

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