Tra scherzi, kitsch e cattivo gusto
Apocalittici e integrati ha avuto vari meriti. Quelli più evidenti sono noti: attribuire dignità di studio a oggetti della comunicazione di massa fino ad allora relegati nello spazio di inconsistenti distrazioni; aprire la strada a uno studio formale che tenesse contemporaneamente in conto il problema della ricezione; dare prova della capacità di uno sguardo semiotico che all’epoca, ancora, non sapeva forse neanche di essere tale.
Fra questi meriti ce n’è un altro: tracciare una cartografia del kitsch, darci strumenti per riconoscerlo (e quindi giudicarlo), offrirci una bussola per orientarci nel poliedrico mondo del cattivo gusto. Essendo tanto polimorfo – il cattivo gusto – , Eco ha evitato, in quel saggio del 1964, di darne definizioni rigide. È partito piuttosto da una “stilistica del kitsch” (ovvero la definizione di alcuni tratti formali e strutturanti dell’oggetto-kitsch: la ricerca dell’effetto sentimentale, la ridondanza di alcuni tratti, il ricorso a stilemi già codificati e consumati..) e l’ha completata con un’attenta considerazione delle dinamiche interpretative cui l’oggetto-kitsch, come qualsiasi altra forma culturale, è sottoposto. A Eco è ben chiaro che gli oggetti non sono kitsch per sempre e ovunque, ma diventano kitsch all’interno di una certa forma di consumo, “comportamento di vita” per usare le parole di Eco.
È proprio questo spostare l’attenzione delle forme agli stili di vita che mi ha fatto guardare con occhio interrogativo a una serie di pratiche tipiche di questi nostri recenti anni – pratiche che hanno qualcosa a che fare col kitsch (mi sembra) ma che ne definiscono una variante diversa, e forse perfino una mutazione. Penso alle tendenze animalier, o a quelle vintage (su cui si può leggere l’interessante volume, Passioni vintage, a cura di Maria Pia Pozzato e Daniela Panosetti), che ci circondano e incalzano da ogni parte – e specie dalle parti colte, disincantate, consapevoli.
Come nel kitsch, anche qui abbiamo certamente il ricorso a forme consumate, forme ormai diventate dei veri e propri feticci, usate a effetto. E sicuramente kitsch potrebbero essere gli oggetti vintage o animalier, gli “oggetti in sé”, sospesi sul crinale pericolosissimo del cattivo gusto: cover di i-Phone zebrati, pouf di pelliccia sintetica, sneakers leopardate (per stare sul fronte animalier), o cornette telefoniche coloratissime per i-Phone più grandi di qualsiasi telefono degli anni 60, radiolone di altri tempi, perfino reggiseni e corpetti che sembrano distanti anni luce dalla tendenza alla smaterializzazione della modernità.
Diversa però è la modalità di ricezione e consumo di queste forme. Diversa perché iper-consapevole, ironica, distaccata, giocosa. In questi fenomeni non troviamo l’ingenuità del kitsch, ma una tendenza meno frustrata e sempre più prevalente nel nostro tempo: la tendenza al gioco.
Il kitsch ha una dimensione serissima, che nell’occhio disincantato dell’osservatore raffinato può persino essere patetica: chi compra, indossa, esibisce forme kitsch il più delle volte crede alla bellezza di quei segni. Il kitsch presuppone l’ingenua fiducia nella certezza che certi segni – quei segni – siano effettivi segni di: eleganza, affermazione, ricchezza. È solo nell’occhio di chi, asimmetricamente, guarda che tutto ciò è kitsch, ridicolo, perfino – come dicevo – patetico.
Niente di tutto ciò nelle forme attuali di “citazionalità di repertorio”.
Non che il kitsch non esista più, naturalmente. Temo che finché ci saranno dislivelli socio-culturali (cioè, inevitabilmente, per sempre), la possibilità del kitsch esisterà, come illusione di emancipazione e upgrading. A me sembra, però, che ci troviamo oggi di fronte a una nuova fase del kitsch – dicevo prima variante, ma forse più radicalmente mutazione – dove in gioco non c’è tanto la ricerca dell’effetto (estetico) quanto la ricerca della complicità (comunitaria), secondo quella logica ironica che è tipica dell’epoca post-moderna.
Ricordiamolo: le strategie ironiche si basano sempre su un gioco a tre posti: chi ironizza, l’oggetto su cui si ironizza, chi assiste e “riceve” il gioco ironico, che condivide medesime competenze e medesimi atteggiamenti dell’ironista.
È questo che si ritrova nel vintage o nell’animalier: si ricorre a un repertorio di forme, nella consapevolezza che ci si trova all’interno di una comunità che è in grado, con noi, di riconoscerle, condividendone le stesse associazioni emotive: divertimento (nell’animalier), nostalgia (nel vintage).
Se il kitsch delle origini, insomma, offriva solo un’illusione di inclusione, e confermava invece la distinguibilità di buono e cattivo gusto, il neo-kitsch di questo iniziale XXI secolo offre una reale possibilità di complicità inclusiva, mentre confonde irrimediabilmente buono e cattivo gusto.
Che tutto questo abbia a che fare con la sostituzione di chiare gerarchie valoriali (che ispirano frustrazioni e ambizioni) con un generale appiattimento valoriale (supermarket dei valori e delle sceneggiature di vita, oltre che degli stili), è ipotesi che ci sentiamo solo di azzardare, con timidezza, in chiusura.