Speciale
La rocambolesca storia di un manoscritto / Franz Kafka, Tutto il Processo a Berlino
Il 30 giugno, data esplicitamente non commemorativa (Kafka è nato il 3 luglio 1883 ed è morto il 3 giugno 1924), è stata inaugurata a Berlino una piccola mostra dedicata al Processo nel Martin Gropius Bau, un elegante edificio ottocentesco opera di un prozio di Walter Gropius, che contiene molteplici spazi espositivi e ospita contemporaneamente più mostre. Quella di Kafka occupa tre vani, uno centrale occupato quasi interamente da una lunga vetrina contenente le 171 pagine del manoscritto autografo del Processo, e due piccole sale laterali, una in cui sono esposte alcune fotografie e una raccolta delle prime edizioni del Processo uscite in vari paesi, l’altra adibita alla proiezione del film omonimo di Orson Wells del 1962.
Nonostante il minimalismo la mostra si intitola “Tutto il Processo”, alludendo evidentemente all’integrale esposizione del manoscritto. L‘apparato critico e informativo è scarno, ma mette subito il visitatore al corrente di una coincidenza storico geografica. Infatti a pochi passi dal Martin Gropius Bau si trovava l’albergo Askanischer Hof, in cui Kafka, il 12 luglio del 1914, si incontrò con Felice Bauer, da cui si era separato dopo un breve fidanzamento. A questo incontro parteciparono la sorella e un’amica di Felice, e Kafka, allora trentunenne, annotò nel suo diario di essersi sentito sottoposto a un vero e proprio “tribunale in albergo”(Gerichtshof im Hotel), a quello, insomma, che Elias Canetti, nel suo libro dedicato alle lettere di Kafka a Felice chiamerà “l’altro processo” (Der andere Prozess ,1968, pubblicato in Italia presso Guanda nel 2015 con il titolo L’altro Processo. Le lettere di Kafka a Felice, nella traduzione di A.Ceresa), un evento che non solo da Canetti viene messo in stretta relazione con la genesi del romanzo, scritto immediatamente dopo, tra i primi dell’agosto 1914 e una data non ben precisabile del 1915.
L’accento posto sulla vicinanza ai luoghi della biografia di Kafka allude già allo spirito evocativo e celebrativo della mostra. Come ha giustamente notato Andreas Kilb sull’autorevole pagina culturale della Frankfurter Allgemeine Zeitung, entrando nella sala si ha l’impressione di varcare la soglia di una cappella votiva nelle cui vetrine si conservino sacre reliquie. La luce fioca, l’ambiente dominato dell’esposizione del libro, una pagina accanto all’altra, come un rotolo della Torah, la devozione con cui i visitatori si chinano, o, bisognerebbe dire si inchinano, davanti alle teche, tutto contribuisce a creare l’impressione che non ci si trovi in un normale spazio espositivo, ma in un sacrario in cui si è chiamati a un deferente processo di decrittazione, aggravato dal fatto che i fogli autografi posso essere esposti solo a una luce di 35 Lux e che, appunto, per leggere, bisogna scomodamente piegarsi in due sulle vetrine.
Ma che cosa si scopre decifrando le pagine del Processo? Innanzitutto che la scrittura è veloce ma chiara, che le correzioni sono poche, e che comunque le cancellature, anche là dove sono più frequenti, lasciano visibili i passi espunti. Salta poi agli occhi che alla terza persona riferita a Josef K., con una certa frequenza si sostituisce per errore o forse lapsus la prima, come accade esemplarmente nell’ultima scena, quella dell'esecuzione. E solo il confronto con il manoscritto rivela quanto Max Brod, primo curatore assoluto delle opere di Kafka, abbia manipolato gli originali, e quanto errori e lapsus possano rivelare. Come lui stesso spiega commentando la sua edizione del Processo, oltre a essere intervenuto sull’ordine dei capitoli, Max Brod ha corretto sviste e imprecisioni ascrivibili alla mancata revisione dell’opera o all’urgenza con la quale essa fu scritta. A questa stessa frettolosità Brod attribuisce il fatto che Kafka siglasse alcuni nomi, e quindi li corregge scrivendoli per esteso. Ma succede che, leggendo l’originale, si scopre che Fräulein Bürstner, la signorina Bürstner, è indicata con F.B., le stesse iniziali di Felice Bauer, indizio che conferma con assoluta evidenza l’importanza del “Gerichthofim Hotel” come nucleo generativo del romanzo e mette forse in dubbio la legittimità di alcuni interventi redazionali di Brod.
Tuttavia, non c’era bisogno di questa mostra per queste o altre rivelazioni, poiché il manoscritto originale non viene presentato al pubblico per la prima volta. L’esposizione berlinese è infatti una precisa replica di quella che nel 2013/14 ha avuto luogo al Literaturmuseum der Moderne di Marbach. Neanche le fotografie sono inedite, poiché provengono dalla collezione Wagenbach e sono quindi in massima parte inserite nel volume curato da Klaus Wagenbach nel 1983 Kafka. Bilder aus seinem Leben (e nello stesso anno pubblicato in Italia da Adelphi, ancora disponibile, con il titolo Kafka. Immagini della sua vita). E neanche può essere vero quanto sosteneva il quotidiano Berliner Zeitung con il titolo “Una mostra per germanisti”, e non solo perché il manoscritto del Processo è conservato in Germania nel Deutsches Literaturarchiv, l’archivio della letteratura tedesca di Marbach, ed è quindi accessibile a qualsiasi filologo, ma anche perché esso è stato fedelmente riprodotto in un’edizione critica, pubblicata da una piccola casa editrice, lo Stroemfeld Verlag, a cura di Roland Reuß, nel 1997. Questa casa editrice ha ottenuto dall’Archivo di Marbach il permesso di scannerizzare l’autografo del Processo per riprodurlo sul recto e sul verso di pagine facsimili, a cui è stata allegata una trascrizione diplomatica, che riporta dunque fedelmente le cancellature e correzioni presenti sull’autografo in una versione leggibile senza alcuna fatica.
Questo pratico facsimile non entra del resto in concorrenza, nell’ambito della mostra, con l’esposizione dell’autografo, tanto che nella scarna scenografia della sala centrale sono affiancati alle vetrine due computer sui quali si può appunto consultare l’edizione Stroemfeld.
L’edizione storico-critica Stroemfeld riproduce inoltre in fascicoli separati i capitoli del romanzo che, come è noto, non ha mai raggiunto una redazione definitiva e si presenta come una composizione di frammenti privi di una compiuta struttura narrativa, compresi fra il celebre inizio (“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato.”, nella traduzione di Primo Levi) e l’altrettanto celebre finale (“’Come un cane!’ disse e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere.”). Nella versione proposta da Roland Reuß, quindi, il lettore è invitato non solo a decifrare la scrittura di Kafka, ma anche ad assemblare le sequenze narrative del romanzo secondo un ordine che non deve coincidere con quello stabilito da Max Brod che, come primo e per lungo tempo unico curatore del romanzo, diede alle stampe il frammento già nel 1925, un anno dopo la morte di Kafka, e poi in seconda e terza edizione rispettivamente nel 1935 e nel 1946. Questo percorso di lettura è invece quello delle vetrine della mostra, che segue quindi la disposizione dei capitoli che Max Brod ha individuato seguendo, almeno in parte, le indicazioni più o meno esplicite di Kafka stesso.
La scelta di rispettare l’ordine brodiano può avere molte motivazioni, anche semplicemente di ordine pratico e consuetudinario, tuttavia la si potrebbe anche collegare all’alto valore testimoniale del manoscritto stesso e della storia della sua trasmissione, in cui Max Brod riveste un ruolo centrale. Non solo perché si rifiutò di distruggere il manoscritto, come gli era stato espressamente richiesto da Kafka, ma perché riuscì miracolosamente a metterlo in salvo, scappando in treno nel cuore di una notte del marzo 1939 da Praga, poche ora prima dell’invasione tedesca, portando con sé le carte che Kafka gli aveva consegnato, e raggiungendo infine, dopo un lungo viaggio, la Palestina. Ma questa storia rocambolesca non finisce qui ed è, anche in quel che segue, molto significativa, perché enfatizza il valore simbolico del romanzo per la cultura tedesca e spiega quindi la sacralizzazione dell’originale.
Infatti,in Israele, Max Brod lasciò gli autografi kafkiani in eredità alla sua segretaria e questa, negli anni ‘80, decise di cominciare a venderne alcuni. Nel 1987, per esempio, le lettere a Felice furono comprate all’asta da un anonimo acquirente privato, e da allora se ne sono perse le tracce. Quando nel 1988 l’autografo del Processo fu messo all’asta, venne mobilitata l’opinione pubblica tedesca e, grazie a una grande raccolta di fondi senza eguali nella storia della Repubblica Federale, a cui parteciparono oltre a istituiti e fondazioni, private e statali, anche moltissimi singoli donatori, si riuscì ad acquistarlo per l’Archivio di Marbach per una somma superiore al milione di sterline, corrispondente a circa 3,5 milioni di marchi, all’epoca la cifra più alta mai pagata per un manoscritto. E quindi solo dopo questa data fu possibile prendere visione del frammento originale del Processo, di cui fino ad allora si conoscevano solo le edizioni curate da Brod. La prima edizione critica del testo è datata infatti 1990, a cura di Malcolm Pasley.
Se si pensa alla sterminata bibliografia sull’opera di Kafka, bisogna dire che, nella penombra della sala del Martin Gropius Bau, il confronto con il solo testo manoscritto, senza apparati storico critici, senza didascalie e tavole esplicative, consente un’esperienza assoluta e liberatoria di lettura. Kafka è l’autore di lingua tedesca più letto e sicuramente quello più studiato; la ricezione di Kafka è stata in Germania un fenomeno di ampissime dimensioni, e nel suo contesto il Processo, anche in quanto scrittura profetica di un autore ebreo, ha ricoperto sempre un posto privilegiato. La rinuncia quasi integrale a commenti interpretativi, che lascia il visitatore a tu per tu con queste pagine salvate dalla devastazione della storia, costituisce dunque il vero fascino della mostra berlinese. Se nella parabola “Davanti alla legge”, che non a caso Orson Wells antepone al suo film in forma di apologo illustrato, il sacerdote nel Duomo avverte Josef K. che “la scrittura (ma la parola tedesca Schrift significaanche ‘le sacre scritture’) è immutabile” e che le “interpretazioni (Meinung può voler dire‘opinione’, ma anche “significato di una storia”) sono spesso un’espressione della disperazione di fronte alla sua immutabilità”, (Die Schrift ist unveränderlich und die Meinungen sind oft nur ein Ausdruck der Verzweiflung darüber.“), bene, questa mostra rinuncia ad esse, per porci davanti alla forza evocativa dell’oggetto testimonianza, in quanto unicum avvolto da quella che Walter Benjamin avrebbe definito la sua aura, segno dell’autenticità dell’opera e del suo immutabile contenuto di verità.