Tyll, Daniel Kehlmann / La guerra e il saltimbanco

8 Giugno 2018

Tyll di Daniel Kehlmann (Reinbeck bei Hamburg 2017) si apre con un prologo scritto nella prima persona plurale, un ‘noi’ che rappresenta una comunità richiusa su stessa, segnata dalla paura di una minaccia incombente. È un corpo estraneo rispetto al resto del romanzo e, nella sua posizione privilegiata di esordio, ne marca fortemente il testo e la lettura. Benché non si sappia ancora quando si svolgono gli eventi del racconto, si capisce fin dalle prime righe che quest’epoca dominata dal timore di Dio e della guerra è remota. Siamo un piccolo villaggio, dice il noi, scampato finora miracolosamente alla guerra, viviamo in un tempo sospeso, in attesa che il corso della storia ci raggiunga o ci risparmi, non si sa. Arriva invece Tyll Eulenspiegel, il saltimbanco, figura cara alla letteratura folklorica tedesca; nella saga medievale originaria è un furbacchione in fondo anche un po’ ingenuo, ma in Kehlmann è completamente diverso: sfuggente, versipelle, inquietante, demoniaco. Prima che la guerra arrivi, riesce a inscenarla nel villaggio, spingendo i suoi abitanti a una enorme rissa che della guerra è rovesciamento grottesco, ma anche preannuncio. E infatti, non appena Tyll e il suo carro di acrobati si allontanano, la guerra arriva e non risparmia niente e nessuno, cancellando ogni traccia della vita e della gente che viveva nel villaggio: di loro non rimarrà alcuna memoria. Tuttavia, nell’ultimo paragrafo il coro delle vittime ha ancora modo di commentare: “Ma, anche se di noi non si ricorda più nessuno, noi ricordiamo. E ancora non siamo rassegnati a non esserci. Perché, per noi, la morte è sempre nuova, e niente di quello che riguarda i viventi ci è indifferente. Perché, da quando siamo morti, non è passato molto tempo”. 

 

Jacques Callot “ L’albero degli impiccati”.

 

Questo ‘noi narrante’ che, infrangendo la misura della distanza storica, rivendica la sua presenza nell’età dei viventi è il primo indice di una chiara intenzione di Kehlmann: scrivere un romanzo storico sulla guerra, ma che si muova secondo coordinate astoriche, o persino contro-storiche. Del resto anche il suo romanzo di maggior successo Die Vermessung der Welt (La misura del mondo, traduzione di P. Olivieri, Milano, Feltrinelli, 2006), che si svolge all’inizio dell’Ottocento e i cui protagonisti sono Alexander von Humboldt e Carl Friedrich Gauss, Kehlmann non lo ha definito un romanzo storico, ma “un romanzo contemporaneo che si svolge nel passato”, in cui l’ordine degli eventi viene stravolto dall’autore che agisce su di essi come uno “storico folle”.

 Ma Tyll è un romanzo “contemporaneo che si svolge nel passato” anche perché il suo tema centrale è quello della violenza. Una violenza che, per coloro i quali la subiscono, non è mai passata da “molto tempo”: per le vittime, la violenza, ci dice la voce del coro tragico, non perde la sua attualità, resta sempre “nuova”. E così, poiché il trauma scardina l’idea di tempo e lo ferma nel momento dell’offesa subita, non sarà possibile inscriverlo in un determinato tempo narrato. 

 

Non è un caso quindi che questo corale si trovi in apertura del romanzo e ne sia l’antefatto ideologico, la chiave di lettura, se si vuole. Esso rappresenta infatti il nucleo profondo della tragedia storica narrata nei capitoli successivi, proprio come all’origine della tragedia, al suo fondamento, c’è il canto del coro.

Svincolato dunque dal racconto evenemenziale, il romanzo si muove in una dimensione allegorica: una guerra è sempre tutte le guerre. E le vittime di una guerra sono le vittime di ogni guerra. E anche questa molto lontana che viene qui narrata è tutte le guerre che ci accompagnano, ci assediano, ci riguardano. 

Procedendo nella lettura si scopre che quella di cui si racconta è la guerra dei Trent’anni, che in Germania occupa non a caso un posto di eccezionale rilievo nella memoria nazionale: per i tedeschi la ‘grande guerra’ per antonomasia è rimasta questa, e non quella del ’14-’18. Di entrambe cadono nel 2018 gli anniversari: la guerra dei Trent’anni, secondo la datazione tradizionale, comincia nel 1618 con la rivolta di Boemia e finisce nel 1648 con la Pace di Vestfalia. È una guerra di religione fra cattolici e protestanti, ma anche e soprattutto uno scontro fra poteri politici che si contendono la supremazia sul territorio europeo, in cui oggi il lettore, circondato da conflitti politico-religiosi dilatati e inaspriti da un numero non ben definito di attori, è subito indotto a riconoscere una relazione con il presente. Del resto il parallelismo fra molte dinamiche della guerra dei Trent’anni e, per esempio, il conflitto siriano, è stato più volte messo in evidenza durante questi ultimi anni, tanto da far suggerire i complessi negoziati che portarono alla pace di Vestfalia come modello per una possibile trattativa di pace in Siria. Anche se poi l’assunto del romanzo di Kehlmann sfida proprio uno dei maggiori impegni presi durante quelle stesse trattative dalle parti in gioco, le quali si promisero non solo reciproca amnistia, ma anche “immerwährendes Vergessen”, perenne oblio di quanto, in quei trent’anni di assoluta violenza, era accaduto. 

 


Tuttavia, proprio perché la guerra dei Trent’anni aveva sconvolto e ridisegnato i confini dell’Europa centrale distruggendone città e paesi, devastandone le campagne e decimandone la popolazione, non fu assolutamente possibile cancellarne la memoria, che si è conservata anche attraverso innumerevoli testimonianze e rielaborazioni letterarie. E innanzitutto letterarie sono le fonti più o meno esplicite a cui rinvia il racconto di Kehlmann: da Schiller, autore non solo della nota trilogia del Wallenstein, ma anche di una Storia della guerra dei Trent’anni, fino al romanzo fiume di Alfred Döblin, Wallenstein, pubblicato nel 1920. Il testo di maggiore riferimento per Tyll è però quello di un autore coevo ai fatti storici, una delle più importanti opere della letteratura barocca tedesca, L’avventuroso Simplicissimus, Der Abenteuerlicher Simplicissimus Teusch (1668) di Hans Jakob Christoffel von Grimmelshausen, (in italiano per esempio nella traduzione del 1945 di Ugo Dettore e Bianca Ugo) capostipite della tradizione del romanzo picaresco nell’accezione tedesca, lo Schelmenroman. Romanzo a cui Grimmelshausen fece seguire nel 1669 vari nuovi episodi, compresa una divertentissima versione picaresca femminile, la Erzbetrügerin und Landstörzerin Corausche (Vita dell’arcitruffatrice e vagabonda Coraggio, trad. italiana di I. Battafarano e H. Eilert, pubblicata da Einaudi nel 1988), da cui poi Brecht trarrà spunto per Madre Coraggio e i suoi figli, il cui sottotitolo è proprio Cronaca della guerra dei Trent’anni

 

Kehlmann mescola le sue fonti abilmente cancellando i confini tra narrazione letteraria e cronaca storica, e ibrida la figura del Tyll medievale non solo con quella del picaro Simplicissimus, ma anche con la figura biografica di Grimmelshausen, scrittore solitario, avventuriero e soldato durante quella stessa guerra, che nel Simplicissimus rielabora in chiave grottesca tutta una serie di esperienze personali. Presa a prestito dal romanzo barocco, la metafora del mondo come teatro gli permette di creare con Tyll una maschera che ne riassume molte altre, ma che, soprattutto, ne nasconde una identificazione definitiva. Inoltre l’intrusione di un personaggio buffo in un contesto tragico crea un elemento di forte straniamento del racconto, mentre l’anacronismo, anche se puramente letterario, per cui un personaggio del ‘300 viene spostato nel ‘600, contribuisce a una delegittimazione del tempo della narrazione storica e a porre tutta la vicenda su un piano simbolico.

 

Tutto ciò non implica però una visione astratta della guerra: al contrario, proprio il fatto che il maggiore riferimento letterario a cui si attinge sia intriso di esperienza autobiografica attesta il bisogno di Kehlmann di raccontare la guerra da dentro e da vicino, bisogno che, per uno scrittore nato nella lunga pace europea, si traduce nella scelta solo apparentemente paradossale di raccontare un conflitto molto lontano. Tra l’altro anche il Wallenstein di Döblin ha una forte componente autobiografica. Döblin ha tradotto infatti nelle immagini orrifiche del flagello seicentesco il trauma subito durante la Prima guerra mondiale, annullando dunque la distanza storica fra guerra e guerra e mettendo in scena quella dei Trent’anni come paradigma di tutte le altre. 

 

Fossa comune nei pressi della battaglia di Lützen (1632).


Negli episodi che si susseguono senza ordine cronologico, secondo una struttura frammentaria che assomma disordinatamente materiali eterogenei, in Tyll appaiono e scompaiono come su un palcoscenico figure tratte dalla cronaca storica. Fra queste un ruolo fondamentale spetta ai due protagonisti forse più paradossali di questo periodo, Federico V del Palatinato, re di Boemia dal 1619 al 1620, in ragione dell’effimera durata del suo regno detto il Winterkönig, il Re d’inverno, e sua moglie Elisabetta Stuart, principessa di Scozia, a sua volta Regina d’inverno, sovrani senza regno, senza corte e senza residenza, rappresentanti molto ‘moderni’ di un potere svuotato che alimenta i meccanismi della guerra. Accompagnato dai miserabili resti di quella che una volta era la sua ‘corte’, un cuoco e il buffone Tyll, quando ormai è definitivamente chiaro che “l’affare della guerra non conviene” e persino il cuoco lo ha abbandonato, questo re grottesco muore di peste nel bel mezzo del paesaggio invernale del centro della Germania. Secondo la tradizione storiografica Federico V morì in realtà dopo un lungo esilio più o meno tranquillamente nel suo letto, ma nel racconto di Kehlmann è costretto ad andare verso la sua fine in una bufera di neve fra cadaveri putrefatti e città in rovine, e soltanto uscendo definitivamente di scena e deponendo il ruolo che gli ha assegnato la storia si merita il riconoscimento del velenoso buffone di corte: “Quando si voltò un’ultima volta si accorse che erano di nuovo in tre: il buffone, in ginocchio, con il suo capotto di pelo, il re, per terra, il corpo già per metà coperto di bianco, e lui stesso. Il buffone alzò gli occhi. I loro sguardi si incrociarono. Il buffone alzò la mano portandola alla fronte e fece un inchino. Lui accennò un saluto con la testa, si girò e si allontanò. Camminava più spedito, ora che non affondava più nella neve”. Nella frantumazione della figura, affrancata ormai dal suo modello storico, Kehlmann trova quindi la sua misura per descrivere il destino dei personaggi che ‘fanno’ la storia, i quali, spogliati del ruolo di protagonisti e ridotti a caricatura, finiscono paradossalmente per acquisire una loro comica grandezza.

 

Ma, in Tyll, è soprattutto la riflessione sull’inattendibilità dei documenti e sull’artificiosità delle fonti storiche a iscriversi nella dimensione metanarrativa, riflessione che pertiene la questione ‘classica’ della relazione fra testimonianza e autenticità e, quindi, in assoluto, della narratività della guerra. In uno degli episodi più comici e grotteschi il conte Martin von Wolkenstein, estensore di un libro di memorie e protagonista di una improbabile vicenda in cui l’imperatore in persona gli ordina di andare recuperare Tyll Eulenspiegel in un convento, assiste, nascosto dietro un albero ai margini di un bosco, alla terribile battaglia di Zusmarshausen che porrà fine al conflitto, e però non è capace di raccontare la sua esperienza, i suoi ricordi sono come cancellati; per supplire a questa mancanza decide di utilizzare il racconto di un altro testimone, ma, poiché neanche con questo stratagemma riesce a ”mettere insieme le frasi” giuste, alla fine si risolve “a rubarne delle altre”. La descrizione che più gli piace, e che dunque meglio traduce la sua esperienza traumatica, la trova però in una narrazione letteraria, proprio nel Simplicissimus di Grimmelshausen. Il conte la fa sua, anche se, particolare che però non sembra disturbarlo troppo, Grimmelshausen non descrive nel Semplicissimus la battaglia di Zusmarshausen, bensì quella di Wittstock.

 

 

Non contento di questo pasticcio, Kehlmann aggiunge: “quello che però il conte non poteva sapere è che Grimmelshausen, pur essendo stato testimone della battaglia Wittstock, non aveva a sua volta saputo descriverla e per questo aveva rubato le sue frasi da un romanzo inglese tradotto da Martin Opitz, il cui autore non era mai stato coinvolto in vita sua in una battaglia”. Kehlmann vanifica dunque anche il prospettivismo tipico della descrizione delle battaglie nei grandi romanzi dell’Ottocento e, allo stesso tempo, ribalta la sua debolezza di scrittore ‘senza trauma’ in punto di forza: sono proprio i filtri letterari che permettono di mettere a fuoco la realtà che si sottrae alla descrizione testimoniale, è lo sguardo obliquo che può afferrare la concretezza dell’evento catastrofico, la distorsione comica a narrare ciò che appare inenarrabile. 

 

È quindi coerente la scelta di Kehlmann di prendere a modello il romanzo picaresco, l’unico genere letterario che può dirsi costitutivamente contrario alla guerra perché, attraverso lo sguardo comico-grottesco sulla realtà, mette in crisi l’idea stessa della guerra come evento in sé significativo, narrabile in quanto ‘grande avvenimento storico’. E coerente è infine anche la scelta di porre al centro del romanzo un esplicito non protagonista della grande storia, un saltimbanco poi buffone di corte, che è osservatore diretto degli eventi, ma da una posizione eccentrica, un personaggio la cui funzione è essenzialmente quella di tenere le fila del racconto pur avendo, nella storia narrata, un ruolo marginale. Figlio di un mugnaio appassionato di astrologia che finisce processato come stregone, Tyll è un ambiguo prodotto della violenza. In quanto artista vagante, è un individuo escluso dal rigido ordine sociale dell’epoca, gode di libertà di movimento e di attraversamento delle barriere fra i ceti e, in quanto buffone, di libertà di parola. Nella rivisitazione di Kehlmann è detentore di oscure facoltà che si manifestano non solo nella sua arte funambolica, ma anche in quella retorica. Ha qualcosa del folle e del folletto, e, come l’Eulenspiegel tradizionale (il nome è un composto di Eule, civetta, e Spiegel, specchio), possiede attributi sia sapienziali che demoniaci; essendo un funambolo è battezzato nel romanzo “signore dell’aria”, così come Satana nel Nuovo Testamento è “principe della potestà dell’aria”; è un saltimbanco che cammina sulle mani, e che quindi vede il rovescio del mondo e infine, in quanto giullare, possiede caratteri di ascendenza luciferina mutuati dalla tradizione, che vuole la sua natura all’incrocio fra l’umano e l’animale, di cui sono testimonianza il cappello a punte, che allude alle corna, e il suo mantello di pelo.

 

È destinato ad abitare quegli interstizi che la storia e i potenti gli lasciano abitare, sopravvive però sia all’una che agli altri, immortale in un mondo dominato dalla morte, di cui si rivela sempre più un messaggero e sacerdote.

Non sarebbe possibile tradurre Tyll in una figura precisa e neanche intenderlo soltanto come una rappresentazione a chiave dell’artista, e quindi dello scrittore, che nel saltimbanco ha tradizionalmente un suo doppio, come ha magnificamente illustrato Jean Starobinski nel suo famoso saggio Ritratto dell’artista da saltimbanco. Kehlmann lascia infatti aperto il gioco delle identificazioni e punta apertamente alla polisemia della maschera, tipica del resto non solo della figura del saltimbanco, ma anche di quella del picaro e delle sue più tarde filiazioni letterarie. Tuttavia, se pensiamo allo scenario apocalittico entro cui il libro di Kehlmann si svolge, quelle identificazioni non possono del tutto risparmiare il lettore stesso, come infatti Starobinski a conclusione di quello stesso saggio sostiene, per cui “quando l’ordine sociale si dissolve”, il saltimbanco diventa “ciascuno di noi”. 

 

Frontespizio.

 

Ed effettivamente di caos e di dissoluzione ci racconta questo romanzo. E naturalmente di morte. Di un mondo che, come ha detto Simone Weil a proposito di quell’archetipo di ogni narrazione di guerra che è l’Iliade, si è arreso alla “forza” e quindi alla “materia” e in cui non possono esserci vincitori, ma soltanto vinti. Quello stesso mondo che, nel 1636, un altro grande scrittore barocco tedesco, Andreas Gryphius, citato da Kehlmann nelle sue belle Lezioni francofortesi (Kommt, Geister, Venite, spiriti, Hamburg 2015), piangeva nella lirica Lacrime della patria, in cui la disperazione nasce, più che per ogni orrore e disfatta, dalla terribile costatazione che dentro la guerra “le nostre anime sono perdute”. 

 

Tyll è il testimone per eccellenza di questa perdita, e se il romanzo è anche divertente da leggere, il che ne spiega anche il grande successo (è da 27 settimane nella lista dei bestseller dello “Spiegel”), lo è in un modo che sarebbe riduttivo definire amaro, perché è dalla rassegnazione all’ineluttabilità della violenza della storia che nasce la sua comicità. Una comicità disperata, come quella che troviamo nell’ultimo episodio in cui appare la Regina d’inverno e con cui si chiude il libro: dopo una grottesca pantomima alla corte dell’imperatore, in cui alla regina senza regno non resta che la vacua forma del cerimoniale per affermare il suo rango, questa stessa regina che è all’origine della catastrofe a cui abbiamo assistito, rimasta sola, tira fuori la lingua e ingoia un fiocco di neve, per sentire, ora, lo stesso sapore che aveva la neve un tempo, quando lei era bambina. I trent’anni di guerra, che stanno in mezzo, sono appena finiti. Il saltimbanco Tyll, per cui l’unica cosa importante, arrivati al grado zero della storia, è, come afferma nella sua ultima battuta, semplicemente “non morire”, sa che non saranno gli ultimi.

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