Spasso / Giampiero Neri: un’acuta perplessità

20 Novembre 2018

Negli anni ’80 del secolo scorso ero uno scrivente alle prime armi, in cerca di interlocutori illustri coi quali corrispondere. Qualcuno mi aveva dato il numero di telefono di Giampiero Neri: i suoi libri di poesia (L’aspetto occidentale del vestito e Liceo) mi affascinavano, ero curioso di conoscerlo di persona. Mi rispose con rara gentilezza e affabilità, e subito mi invitò a casa sua. Scoprii così, con sorpresa, che abitava a pochi isolati da me, in Piazzale Libia. Piazzale Libia è una delle piazze alberate più estese di Milano; lì sono cresciuto, negli anni ’50. Sul verde pubblico e nelle strade ai lati noi ragazzini giocavamo a calcio, finché non arrivava un ghisa (vigile urbano) a sequestrarci la palla, o una rara automobile (“Macchina!” gridava qualcuno) a interromperci. In quegli anni, ai margini del piazzale si vedevano ancora le macerie dei bombardamenti. In un angolo c’erano i resti di quella che chiamavano “la villa di Claretta Petacci” (sembra una poesia di Neri). Sapere che davanti al nostro campo di gioco era vissuto e viveva un poeta importante mi faceva guardare platani e aiuole con occhi nuovi. 

 

Ricordo una prima passeggiata con Giampiero: piovigginava, e noi due giravamo un po’ a caso per il quartiere, sotto il suo ombrello. Il poeta “senior”, di solito, investe il giovane ammiratore con un profluvio inarrestabile di coltissime e sapientissime chiacchiere: Neri parlava invece con estrema parsimonia, lasciando lunghe pause tra una frase e l’altra, con l’aria di chi cerchi e soppesi prudentemente i termini da usare. Più che conversare, sembrava che stesse componendo. Nel suo eloquio mi sembrava di riconoscere l’intensa cautela, l’acuta perplessità che avvertivo nei suoi testi. Durante gli incontri successivi (ne ricordo uno da Taveggia, storica pasticceria del centro) parlammo poco di poesia: Giampiero mi raccontava la sua passione giovanile per la storia naturale, la rinuncia all’università (dovuta, a suo dire, alla difficoltà pratica di rintracciare le aule), i suoi studi musicali (chitarra classica) anch’essi abbandonati. Dell’immagine di uomo irresoluto, esitante, sembrava compiacersi. A conquistarmi, in lui, fu l’assenza di qualsiasi prosopopea, e soprattutto il sorriso sornione, aperto, larghissimo, che ancora oggi mi mette di buon umore. 

 

L’ultima volta che l’ho visto, quel sorriso, è stato durante un incontro presso l’Università Cattolica, che faceva seguito alla premiazione di Neri nell’ambito del XIV Festival di Poesia Civile di Vercelli (25 ottobre 2018). Non avevo mai pensato a Neri come a un poeta “civile” (se per poesia civile si intende quella, mettiamo, di un Pasolini): questo riconoscimento, comunque, mi sembra una buona occasione per rimeditare su questo autore e sul senso della sua opera. 

 

Giampiero Neri (pseudonimo di Giampietro Pontiggia) è nato a Erba, in provincia di Como, nel 1927. Vive a Milano. La sua vita è segnata da eventi tragici – la morte del padre, funzionario di banca e podestà di provincia, ucciso dai partigiani quando Giampiero aveva sedici anni; il suicidio della sorella Elena, appena ventenne – eventi che nella sua poesia emergono a più riprese ma solo obliquamente, per squarci e allusioni. Fin da giovane coltiva interessi entomologici e letterari, ma per tutta la vita lavora in banca. Il suo primo libro di poesia, L’aspetto occidentale del vestito, esce nel 1976, quando l’autore ha 49 anni, e subito si segnala per la sua originalità. Seguono, tra gli altri, Liceo (1986), Dallo stesso luogo (1992), Teatro naturale (1998), Armi e mestieri (2004), l’Oscar Mondadori Poesie 1960-2005 (2007), Paesaggi inospiti (2009), Il professor Fumagalli e altre figure (2012), Via provinciale (2017), fino alla recente autoantologia Non ci saremmo più rivisti (2018). 

Lo stile di Neri è lontano tanto dalla tradizione lirica del Novecento quanto dagli sperimentalismi delle neoavanguardie in auge negli anni del suo esordio. I suoi testi concisi, asciutti, venati di malinconia e di maliziosa ironia, in molti casi scritti in prosa, hanno spesso il tono compassato e oggettivo di un rapporto, di un resoconto o di una voce di enciclopedia, come in questi versi da L’aspetto occidentale del vestito:

 

Opera di Cressida Campbell.


La Pavonia maggiore o Saturnia

la farfalla Atropo e altre specie notturne

sono un notevole esempio di mimetismo.

Si adattano in parte all’ambiente

per il colore più scuro e intenso

grigio bruno sulle ali

ma anche per i continui segni

che vi ricorrono in forma di cerchi

e nel modo uguali. 

All’origine di questi ornamenti

si incontra una simmetria,

uno schema fissato in anticipo

muove insieme chi cerca

e chi ha interesse a non farsi riconoscere,

una corrispondenza, alla fine.

 

Nonostante i forti elementi autobiografici disseminati nei testi, nell’opera di Neri (almeno fino a Il professor Fumagalli e altre figure) l’io è pressoché assente, o comunque marginale. “Per quanto riguarda l’intrusione della presenza di chi scrive –ha dichiarato l’autore – ho cercato di confinarla il più possibile. Il mio desiderio sarebbe stato di eliminarla, ma non si può fare del tutto, quindi ne è rimasta qualche scoria (…)”.

Più che come espressione lirica, questa poesia ama presentarsi come un elenco di informazioni (conservo un dattiloscritto regalatomi da Giampiero, arditamente intitolato Poesia come informazione). Dai dati, dalle notizie sparse nei testi emanano atmosfere di sogno o di allucinazione. Neri inclina al racconto, ma le sue narrazioni lacunose, reticenti e perplesse lo circumnavigano, e raramente conducono a un vero scioglimento: i fatti che ci vengono rivelati uno dopo l’altro con sconcertante limpidezza non fanno che rendere più oscuro l’enigma del mondo.

 

La facciata era sicuramente liberty.

Come onde apparivano i balconi

verso il lago,

in parte nascosti dagli alberi.

Nella casa che è stata abbandonata

cigola la porta non chiusa,

della vecchia proprietà

non si hanno notizie da tempo.

È rimasto nel quadro alla parete

un documento del ’43, 

un attestato che la signora è cittadina straniera

sotto la protezione del Consolato. 

 

A rafforzare l’effetto onirico o allucinatorio contribuisce – qui come altrove – l’uso dei tempi verbali: all’inizio un imperfetto (molto frequente in Neri), che colloca la scena in una distanza temporale indefinita; poi il passato prossimo “è stata abbandonata”, che riavvicina tutto fino al presente vivo di “cigola”; il dettaglio finale (l’attestato appeso alla parete) rimane sospeso tra memoria e attualità, in un tempo senza tempo. 

 

La poesia di Neri è una meditazione per immagini sulla natura e sulla storia (questo forse il suo aspetto “civile”), sul rapporto dell’uomo col male, sul destino, sulla precarietà delle nostre presenze. Al centro sta la memoria, inesauribilmente intenta a scavare nel passato nel tentativo disperato di dare un senso a oggetti, luoghi, eventi, persone. È lo stesso autore – attraverso una similitudine – a fornirci un’immagine del suo operare poetico, in uno dei testi più citati della raccolta Dallo stesso luogo

 

Come l’acqua del fiume si muove 

contro corrente vicino alla riva

si disperde dentro fili d’erba

lontana dal suo centro

la memoria fa un cammino a ritroso

dove una materia incerta

torna con molti frammenti. 

 

Materia della poesia è ciò che un giorno fu presente, e non lo è più se non nelle pieghe del ricordo. Materia incerta, che però continuamente riaffiora, seppure a sprazzi; i frammenti sono molti non solo per quantità, ma per la loro ostinata ricorrenza.

 

Chi non conoscesse la poesia di Neri, potrebbe essersi fatto fin qui l’idea di un “pensiero poetante” grave e solenne, carico di tragedia. I lettori più affezionati, invece, conoscono i fremiti ironici che percorrono le sue pagine, l’umorismo dissimulato in mezzo al dramma. In un intervento apparso nel volume Una macchina per pensare (2018), che documenta una giornata di studio sull’autore, Paolo Giovannetti parla del suo personale, irrefrenabile “spasso” di fronte a certe pagine, e cita fra gli altri l’incipit di una poesia del libro d’esordio, A.D.1960

 

Come si chiama lei?

                                  Sì ma comunque

è tutto inutile. 

(…)

 

Nei testi di Neri, questi improvvisi lampi di comicità non sono rari. Lo “spasso” che producono (il termine usato da Giovannetti è perfetto) è ancora più potente perché mai esibito, e anzi coperto da una flemma impassibile, dalla quale emerge a sorpresa. Ma il comico non rimuove mai la serietà di questa poesia, e anzi la rafforza, insieme a punte di più sottile umorismo e di ironia. 

 

Schivo e appartato, Giampiero Neri ha lavorato per anni senza mai far nulla per mettersi in vista, ma la sua opera ha influenzato quella di molti autori della generazione successiva, e si è guadagnata un solido credito presso i lettori più avvertiti. Qualcuno lo ha definito “un maestro in ombra”. La sua modestia è davvero cosa rara nell’ambiente letterario. “Sai, uno mi dà dieci, e un altro mi dà zero”: così, con divertito disincanto, reagì una volta – durante le nostre passeggiate – alle mie smodate parole di ammirazione. 

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