10 gennaio 1937 – 3 gennaio 2022 / Gianni, pifferaio magico

31 Gennaio 2022

Gianni adorava il Po e gli piaceva molto venirci a trovare sul Barcone. Era un luogo un po’ fuori dal tempo frequentato da tantissimi amici e amici degli amici. Due sono i ricordi che conservo più vivi di Gianni sul Barcone: la volta in cui Davide Ferrario girò alcune scene di Sul 45o parallelo e quella, successiva, in cui Gianni stesso vi ambientò una parte del film su Luigi Ghirri di cui aveva scritto la sceneggiatura.

 

Nel film di Ferrario Gianni era seduto sul parapetto del barcone e raccontava storie dei mongoli in fuga alla fine della seconda guerra mondiale davanti a noi quattro o cinque, Gino, Giorgio Messori, Alessandro Pelli, io e non ricordo chi altro, che condividevamo bicchieri di lambrusco. Le riprese durarono un giorno intero e culminarono la sera con l’accensione di un fuoco vicino al quale il viso di Gianni prendeva una luce calda e guizzante che valorizzava i suoi bei lineamenti. Perché Gianni era davvero un bell’uomo.

All’inizio della nostra conoscenza faticavo a capire il suo modo di fare, ero indecisa se quella sua apparente ingenuità che lo mostrava stupito di fronte a tutto e a tutti fosse sincera oppure il vezzo snob di un intellettuale che aveva scelto la purezza come propria immagine distintiva.

 

Mi metteva in soggezione perché non riuscivo a collocare il disincanto che trapelava dietro il suo apparente stupore infantile; parlava con tono dolcissimo e stupito di cose che in realtà criticava profondamente. Mi sembrava tutta una affettazione. Le case geometrili, i nanetti di Walt Disney, la perdita dei nostri caratteri più autentici erano argomenti che trattava senza risentimento, senza rabbia nel tono della voce, ma con una ironia dissacratoria molto più forte di qualsiasi aperta indignazione. Mi sembrava una specie di bambino anziano che rifiutava l’inevitabilità del compromesso ma non tramutava mai il disappunto in rabbia.

 

 

Il suo codice di lettura della realtà per me, allora, era troppo raffinato e profondo; come da bambina non sono mai riuscita a entrare veramente nell’Alice di Lewis Carroll, così, da grande, le intelligenze che sapevano giocare sul filo del non senso e del paradosso mi incutevano una certa inquietudine. Capivo che si trovavano su un livello di comprensione più alto che permetteva loro di giocare coi valori in una sorta di decostruzione che non era distruttiva ma nemmeno indifferente. Per me ciò che non era bianco era nero, faticavo a cogliere le sfumature dei grigi.

 

La stessa cosa mi succedeva, all’inizio, con Luigi Ghirri e con Alfredo Gianolio: di fronte a loro sentivo una sorta di pudore accompagnato da un sottile senso di inferiorità che escludeva la possibilità di una comunicazione alla pari.

Quando ero sul barcone mi sentivo a casa mia e la distanza si accorciava perché compensavo il divario intellettuale con l’ospitalità che era da tutti loro fortemente gradita e condivisa: nel piacere dello stare insieme il livello era paritario.

Il tempo è passato, la frequentazione è aumentata e la distanza si è accorciata, ma è stato necessario un mio cambiamento perché capissi che Baratto, che pensa i pensieri degli altri, è forse un individuo toccato dalla grazia, mentre tutti noi giustifichiamo le nostre piccolezze dicendo a noi stessi “si vede che il destino vuole cosi”.

 

La serata delle riprese su Luigi Ghirri, sulla riva vicino al barcone, Gianni aveva allestito una lunghissima tavolata e filmato parti della cena illuminata da piccole lampadine colorate: come un vecchio festival. Alle nostre spalle, tra due pioppi, Paola Ghirri su indicazione di Gianni aveva appeso un grande lenzuolo sul quale venivano proiettate le fotografie di Luigi: muri di campagna colorati di verderame su cui si aggrappavano roseti rampicanti, casolari deserti in fondo a campi disegnati dalle ruote dei trattori, spiagge rivierasche immerse nella luce lattiginosa dell’estate, carraie affondate nella nebbia, colonne d’ingresso a poderi senza recinti, precarie insegne al neon appese per un pelo su pergolati di vecchi bar. Totale assenza di quella luce dispersa, piena di riflessi, che Gianni aborriva perché “faceva pensare a traffici e vendite come i neon della pubblicità”; per entrambi “le ombre e le luci, i silenzi e i rumori dipendono dall’ora del giorno, dal caso o dal destino”. (Quattro novelle sulle apparenze. “Condizioni di luce sulla via Emilia”)

 

Il telo svolazzava e così le foto ondeggiavano dolcemente e uscivano dai margini in modo inatteso e sempre diverso andandosi ad appoggiare ora sull’erba, ora sui tronchi dei pioppi, ora su una sedia lasciata casualmente dietro lo schermo.

In quel vento leggero che giocava con le immagini aleggiava lo spirito di Luigi e Gianni ce lo aveva portato vicino, in tutta la sua leggerezza e il suo affettuoso sguardo ironico.

Più che il regista Gianni sembrava l’accompagnatore di un gruppo di turisti riuniti in un convivio simile al pranzo di nozze nel finale di Amarcord.

Oggi Gianni lo ricordo così: col suo sorriso dolcemente canzonatorio davanti a tutti noi che cammina ciondolando gioiosamente; il lungo braccio alzato ad indicare di seguirlo verso un orizzonte più in là, un curioso piccolo punto in fondo, dove non si sa, ma dove di sicuro c’è una storia da sentire raccontare. 

Gianni era un pifferaio magico che incantava e sottrarsi al fascino del suo racconto era impossibile.

Quando penso che privilegio è stato potere condividere pezzi di strada con persone così, mi sento baciata dalla fortuna.

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