Giulio Ferroni, l’importante è finire
Alla fine dello scorso maggio, dopo molto tempo, ho rimesso piede all’Università dove vent’anni fa studiavo (e dove non ho mai lavorato): alla Facoltà di Lettere della «Sapienza» di Roma. L’occasione cui non ho resistito è stata la lezione di congedo di quello che è uno degli ultimi suoi grandi docenti, Giulio Ferroni. Che non è stato il mio “maestro”, come si dice in termini accademici, ma dal quale certamente ho imparato molto.
Il 14 agosto ha compiuto settant’anni, ed è stata l’occasione di una bellissima festa a casa sua. Ma non poteva non colpirmi, piuttosto, l’ultima lezione di quello che è stato anzitutto un grande docente. Ci penso solo ora, ma in un’altra occasione solamente non sono voluto mancare all’ultima lezione di un maestro: e fu la volta di Edoardo Sanguineti, a Genova nel 2000. Il comportamento dei due è stato opposto, a chiasmo: l’algido, il tagliente Sanguineti si emozionò sino alle lacrime; il passionale, l’irruente Ferroni è stato lieve, lesto, quasi giulivo. Ma il titolo scelto, Come si finisce, rivela come il tema della conclusione di un percorso, di un ciclo storico, di un’esperienza gli sia connaturato ben oltre l’occasione personale.
Fotografia di Dino Ignani
Mi sono ricordato di come in quelle stesse aule, fra studenti e neo-laureati, venisse appassionatamente discusso – ancora prima che apparisse, nel 1996 – il suo saggio più importante, Dopo la fine, col suo impegnativo sottotitolo Sulla condizione postuma della letteratura. Non so se oggi esistano studenti, brillanti come e più di quelli, che abbiano modo di appassionarsi così tanto al libro di un loro docente.
Ricordo che ci si accapigliava in particolare sul senso da dare al titolo. In Dopo la fine contava più la parola «fine» o la parola «dopo»? Quel saggio ci indicava che la letteratura e l’arte erano una cosa del passato, da limitarsi a storicizzare e filologizzare, oppure dopo una loro soluzione di continuità potevano ancora darsi, in futuro, su basi rinnovate? Un paio di volte lo stesso autore del libro assisté a quelle discussioni, sorridendo sotto i baffi, senza orientarle né in un senso né nell’altro.
Di recente il suo ultimo saggio, Gli ultimi poeti, dedicato agli amici Giudici e Zanzotto appena morti, ha sollevato quasi altrettante discussioni, anche in questo caso a partire dal titolo. Ma fu proprio in un corso di Ferroni, nel 1994, che vidi per la prima volta, in carne e ossa, non solo Giudici e Zanzotto – quest’ultimo tenne un’indimenticabile lezione su Dante – ma diversi altri autori in precedenza incontrati solo sui libri, da Consolo allo stesso Sanguineti.
Fra le altre cose che mi ha insegnato Ferroni, con l’esempio concreto prima che con le tesi professate, è che di un autore che ami puoi anche essere amico: lo puoi incontrare vivo, in tutti i sensi. E mi è piaciuto molto che nel 2010 una seconda edizione ampliata di Dopo la fine, uscita da Donzelli, recasse un sottotitolo diverso da quello della prima: Una letteratura possibile. Poco dopo la festa dei suoi settant’anni (colonna sonora, certo, la Mina de L’importante è finire), sono andato di nuovo a trovarlo nella sua casa nel verde dei Castelli Romani, lontano dal clima tropicale della città.
GF
La lezione dello scorso maggio era quella conclusiva del mio ultimo corso all’Università, che deliberatamente ho dedicato a “come si finisce”, nel senso di come si concludono le grandi opere letterarie, dall’Iliade al Pasticciaccio. Mi piacerebbe dedicare a questo un libro complessivo. Sono parecchi anni che mi dedico al tema, anche se negli ultimi tempi mi pare divenuto, nella teoria della letteratura, sin troppo di moda…
AC
Quando è cominciato il tuo interesse per l’idea di fine?
GF
Ben prima di Dopo la fine, quando se ne parlava poco, quando stavo scrivendo la mia Storia della letteratura. Devo aver dedicato le mie prime lezioni all’argomento verso la metà degli anni Ottanta. C’era il problema di come concluderlo, quel racconto. Mi rendevo conto sempre più acutamente del fatto che la presenza della letteratura nel mondo è legata non solo alla lettera dei testi ma anche a ciò che nei testi non si vede, a tutto quello che c’è prima e tutto ciò che c’è dopo, a quello che Calvino chiamava «il mondo non scritto» (e al tema del Cominciare e finire avrebbe voluto dedicare una delle sue Lezioni americane). Anche questo interesse, peraltro, è legato all’insegnamento. Quando si comincia a insegnare fa un certo effetto quel momento in cui si entra in aula e bisogna cominciare a parlare.
Vedi tanti volti di giovani che non sai cosa sappiano, cosa si aspettino, e devi trovare un modo per cominciare, per rompere il silenzio. Anche dopo tanti anni quel momento non mi lascia indifferente, non è mai diventata una routine. Quell’esitazione, quell’incertezza è un momento vitale, fondamentale. E mi fa pensare a come interrompano il silenzio gli autori, in particolare i poeti. Un attacco come Dolce e chiara è la notte e senza vento… Lo stesso vale per il finale: il testo s’interrompe e si deve rientrare nel mondo…
AC
Un’altra cosa che mi colpiva molto, frequentando i tuoi corsi negli anni Novanta, era come fossi saldamente piantato nella tradizione italiana ma la considerassi sempre in una prospettiva europea e, anzi, globale. Sempre in questi termini di Weltliteratur, diciamo, quali grandi opere non italiane restano per te decisive?
GF
A parte i grandi classici della letteratura italiana, su cui continuo a tornare, direi anzitutto Don Chisciotte, che è il primo romanzo anche perché contiene tutti gli altri generi, e contiene l’intera esistenza nella sua contraddittorietà. Poi uno scrittore che sempre più mi piace rileggere è Stendhal: col suo vitalismo talmente sfrenato, egotistico appunto, da piegarsi quasi nel suo contrario, nella dimensione più sottilmente ironica, nel più assoluto e “ariostesco” laicismo; e poi colla sua passione per Mozart. Passione e ironia insieme, al massimo grado, in fondo accomunano Cervantes, Mozart e Stendhal.
AC
In quella lezione dello scorso maggio ricordavi anche un passo dello stendhaliano Sciascia, da Nero su nero, che riporta la battuta di un contadino: «Un libro sta tutto in come si finisce. La fine dev’essere spaventosa! E ci dev’essere un Re!». So che non ti fa piacere che ti si dica, ma non mi pare di dire una cosa arbitraria se dico che tu sei uno degli ultimi maestri in circolazione, diciamo uno degli ultimi re della tua disciplina. La tua generazione però è quella che “ha fatto il Sessantotto”: ha assistito alla fine, o alla radicale trasformazione, del concetto stesso di maestro.
GF
Forse alla fine dello stesso concetto di autorevolezza. Probabilmente quella relativa insicurezza, sul modo in cui la nostra parola entra nel mondo, è legata proprio a questo. I nostri maestri questa insicurezza non la conoscevano; non necessariamente erano della specie dell’«uomo che se ne va sicuro» di Montale, individualmente potevano essere spiriti tormentati; ma nell’esercizio del proprio ruolo non mostravano tentennamenti. La loro autorevolezza – anche di chi oggi, a posteriori, ci appare tutt’altro che autorevole… – non era affatto problematica. «L’uomo che se ne va sicuro» di oggi, invece – e ce ne sono tanti… –, si ritiene portatore di un’autorevolezza che è del tutto mistificata, non trova riscontro nella realtà.
AC
Il tuo coetaneo Franco Cordelli sul Corriere della Sera, facendoti a sua volta gli auguri per il compleanno, ricordava che la vostra amicizia nacque nel ’66, sulla scalinata della Facoltà di Lettere della «Sapienza», al funerale dello studente Paolo Rossi ucciso dai fascisti. Proprio al Sessantotto molti oggi imputano la crisi del magistero e dell’autorevolezza di cui parli. Fra gli altri ha scritto un pamphlet molto tranchant, su questo, un altro tuo caro amico che è Mario Perniola.
GF
Quello che chiamiamo “Sessantotto” è il luogo della contraddizione, qualcosa di molto complesso che non mi pare il caso di ridurre a formula spicciola, né in positivo né in negativo. Esplosero nello stesso momento una serie di contraddizioni, in campi fra loro molto diversi e lontani fra loro, che si accumulavano da tempo. Si trattò di una critica, sacrosanta, non all’autorevolezza ma all’autoritarismo: che è la piega che sempre rischia di prendere ogni forma di autorità.
Poi, a distanza di anni, le conseguenze di quel grande rivolgimento di costumi hanno incontrato profonde modificazioni dell’impianto sociale ed economico, che a loro volta hanno fatto cambiare di segno alla società nel suo complesso, compresi gli esiti del Sessantotto. C’è stato un ritorno indietro generale, nel quadro politico e prima ancora in quello sociale. Ma tutto questo è avvenuto in un periodo di tempo lungo e, ripeto, pieno di contraddizioni.
AC
Tu stesso però te la sei presa spesso cogli eccessi demagogici di certa linguistica, di certo pedagogismo… che sono poi stati protagonisti nelle cosiddette “riforme” universitarie che l’Università hanno portato vicino allo sfacelo.
GF
È probabile che queste storture abbiano approfittato delle aperture del Sessantotto, non lo nego. Certi modelli culturali, in origine, avevano anche giustificazioni positive; ma in seguito – torno a sottolineare il tempo che è passato, il mondo che mutava nel frattempo – sono stati strumentalizzati per svilire tutto…
AC
In ogni caso, tornando agli anni Novanta in cui ci siamo conosciuti, in quegli anni ho avuto l’impressione che fosse possibile incontrare un maestro che non fosse autoritario. Qualcuno che, appunto in quanto uscito dalla crisi del Sessantotto, era portatore di tutte le incertezze e le contraddizioni del nostro tempo. Ma che, con tutti i dubbi del ruolo e della funzione, restava portatore di un insegnamento credibile, e che dunque si poteva pensare di trasmettere a nostra volta. Credibile perché effettivo, efficace; e, insieme, all’altezza dei tempi.
GF
Più in generale, all’inizio degli anni Novanta ci fu un momento non brevissimo in cui parve che fosse tornata possibile una vera progettualità sul piano non solo culturale, ma civile e sociale. L’apertura del Sessantotto era stata uccisa, prima dal terrorismo e poi dal riflusso degli anni Ottanta. In quel momento, invece, pareva possibile una democrazia aperta, finalmente, dopo il crollo del Muro di Berlino e dopo Tangentopoli. Penso per esempio alla primavera siciliana, al risveglio di una coscienza civile contro la mafia. Poteri non solo culturali, che in precedenza apparivano inamovibili, parevano finalmente sconfessati e rinnegati: anche a sinistra.
Sappiamo però cos’è successo, invece, nei vent’anni seguenti. A sinistra e dall’altra parte. Tutto il vecchio è stato ricombinato e presentato come nuovo. E il Paese si è impantanato nella palude in cui resta tuttora. Anche il momento attuale, che a tanti sembra quello di un’uscita dalla crisi economica e dal berlusconismo, e che in fondo potrebbe avere per esito una vera riforma del capitalismo e delle istituzioni repubblicane, a me pare piuttosto di riconoscerlo come quello in cui il vecchio muta aspetto, si ricombina e si riadatta, si ripresenta – nella sostanza – inalterato. Basta vedere cosa sta succedendo in Medio Oriente, dopo l’illusione delle “Primavere arabe”… La crisi non è congiunturale, malate sono le radici stesse della nostra civiltà…
AC
In un libro di dieci anni fa, Crolli, sosteneva Marco Belpoliti che il modello culturale in cui ci troviamo sia, più che apocalittico, simile all’apocatastasi. Una fine che non finisce mai di finire, un suo eterno ritorno. È ormai un quarto di secolo che parliamo di “fine”…
GF
… è senz’altro possibile che, agli occhi di chi vive un determinato periodo storico, questo appaia più decisivo, più cruciale degli altri. Che ci sia un errore di prospettiva. E tuttavia c’è un piano che non credo affatto illusorio, sul quale l’orizzonte della fine si profila non solo minaccioso ma potenzialmente terminale, che è quello ecologico. L’equilibrio del pianeta è stato modificato irreversibilmente, nell’ultimo secolo; nell’arco di pochi decenni vi abbiamo assistito anche noi, nel nostro piccolo, per esempio nel famoso Nord Est; ma nei paesi che stanno vivendo uno sviluppo frenetico, in Cina come in Africa, il degrado dell’ambiente viene vissuto da milioni, da miliardi di persone come una catastrofe quotidiana e senza rimedio. I conflitti sociali, politici e anche religiosi si devono anche a questa instabilità di base, a questo vivere invivibile cui sono condannate intere popolazioni.
AC
C’è un tuo piccolo e sorprendente libro autobiografico, La passion predominante, pubblicato da Liguori nel 2009, che si legge anche come documento prezioso sulla cultura intesa come emancipazione sociale. Ancora per quelli della tua generazione, impossessarsi della cultura significava liberarsi di una condizione minoritaria insopportabile. Oggi che abbiamo tutto non ci pensiamo più… tanta sufficienza nei confronti della cultura, specie da parte di chi molta ne ha ricevuta o, più precisamente, molte opportunità ha avuto di conseguirla, si spiega probabilmente così. Ma ora che quel tutto rischiamo di perderlo, forse quel modo di intendere la cultura torna d’attualità…
GF
Non c’è dubbio che, per chi ha conosciuto condizioni di vita di una durezza oggi francamente inconcepibile, “cultura” volesse dire speranza in un mondo migliore. Speranza di giustizia, per esempio; di una reale possibilità di dialogo fra le persone, gli ambienti, le classi sociali… Chi invece ha vissuto sempre condizioni privilegiate coltiva lo stereotipo stucchevole dell’infanzia come qualcosa di dolce, profumato, avvolgente… anche nel mondo rurale di mio nonno, un paesino in provincia di Rieti, c’erano le feste di popolo e i dolci all’uovo, le mie piccole madeleines… ma io non dimentico neppure la miseria, le condizioni insostenibili d’igiene per esempio, che poi per fortuna sono state cancellate.
Oggi torniamo in questi posti con uno spirito mieloso di riscoperta della natura, ma non dovremmo dimenticare la miseria che in quei luoghi abbiamo combattuto e vinto. La cultura, certo, faceva parte di tutto questo. Io credo che, nel contesto sociale ed ecologico cui facevo prima riferimento, la cultura possa ancora essere vissuta come emancipazione: se intesa come consapevolezza del limite. Ce lo insegnano i classici, del resto, da Ariosto sino agli illuministi. La cultura – apertura, tolleranza, libertà – va intesa anzitutto come coscienza dei nostri limiti personali, dell’insufficienza di qualsiasi esperienza soggettiva, di qualsiasi posizione ideologica che non si ponga il problema della contraddizione; e, insieme, come consapevolezza dei limiti del sistema cui apparteniamo.
AC
Vuoi dire che la cultura in passato era lo strumento col quale superare i limiti soggettivi, di una condizione data, mentre ora non può che essere il modo di circoscrivere i limiti ultimi, oggettivi, che non è dato valicare?
GF
Ma sì. La società in cui viviamo si basa invece sull’accelerazione indiscriminata, sul culto dell’eccesso e dello spreco, sul superamento appunto di ogni limite, se non sulla compiaciuta ignoranza del limite stesso. Naturalmente sono interessato al pensiero attuale della Decrescita, solo che mi pare spesso impostato in maniera troppo eurocentrica… non si può insistere sull’abbattimento di livelli economici e sociali che altri paesi non hanno conosciuto e ai quali aspirano, anche in questo caso bisogna pensare in prospettiva globale, all’equilibrio complessivo del sistema.
AC
Un’emancipazione concreta, negli ultimi decenni, è stata quella conosciuta dalla cosiddetta terza età. Lo spazio di dopo la fine del proprio lavoro principale, oggi, si è straordinariamente allargato: non solo in termini quantitativi, di tempo (il che pone problemi serissimi sul piano economico strutturale, come sappiamo, basti pensare al tema della previdenza), ma soprattutto qualitativi. Oggi le persone in pensione si possono permettere una vita non solo più decorosa che in passato, ma anche straordinariamente più ricca di interessi, attività, e vero e proprio lavoro. Basta pensare all’orizzonte dei consumi: c’è chi ha letto il ciclo sociale e culturale che ha portato al Sessantotto come l’effetto dell’apertura di un nuovo mercato prima inesistente, quello appunto dei giovani; ma negli ultimi decenni il vero nuovo mercato a essersi aperto è quello appunto dei pensionati. In ambito intellettuale lo stile tardo di cui hanno parlato Adorno e Said potrebbe non riguardare più, come in passato, figure eccezionali ma un po’ tutti… Said lo descrive come un nuovo momento di radicalità, un andare dritti alle cose essenziali con la brutalità, se vogliamo, di cui eravamo capaci nella gioventù.
GF
Lo spazio dopo il lavoro – specie dopo un lavoro che negli ultimi anni si era insopportabilmente burocratizzato, come l’insegnamento universitario – anzitutto in termini di tempo è uno spazio di libertà, quello in cui si possono operare approfondimenti in precedenza impossibili. Ma è una libertà che può anche ingenerare angoscia! Ricostruirsi un ritmo di vita autogestito cambia tutto, cambia le proporzioni fra le cose. Bisogna coltivare anche un’ecologia personale, mettersi nelle condizioni di dedicarsi alle cose che per noi contano davvero.
È anche il tempo in cui, rileggendole, “scopriamo” per la prima volta certe opere che in passato avevamo trascurato. Per esempio qualche tempo fa ho riletto Le affinità elettive di Goethe, che in gioventù non so bene perché avevo letteralmente odiato; e naturalmente è un capolavoro, una partie carrée, un gioco geometrico inquietante, formidabile. Forse da giovane non amavo questo gelo combinatorio, l’olimpica sovranità di Goethe… come Camus che lo definiva, sbagliando, un faux grand homme… Ho riletto Le affinità elettive in occasione di un saggio che ho scritto su Così fan tutte di Mozart come «ultima commedia», che Goethe teneva ben presente.
AC
A proposito di Da Ponte, La passion predominante comincia con un capitolo che s’intitola (proseguendo la citazione maliziosa dal Don Giovanni) Il principiante; e si conclude con un altro dal titolo La passione per il futuro. Si potrebbe dire che sia il contraltare segreto di Dopo la fine, un libro sugli inizi… a me viene in mente quella cosa bellissima che amava dire Zanzotto, capovolgendo la formula di Freud, sul piacere del principio. Se vogliamo è un portato della cultura esistenzialista: si parte dalla Caduta cui tutti soggiacciamo, ma solo dopo tale caduta è possibile la Ripresa, la spinta in avanti. Ecco, in quest’orizzonte di fine così immanente e pervasivo, quali sono i punti d’attacco d’una passione contraria ma correlata, della passione dell’inizio? Qual è lo spazio oggi, per citare il sottotitolo della nuova edizione di Dopo la fine, per una letteratura possibile?
GF
Esistenzialmente, appunto, non si può che guardare alla nostra situazione, allo stato presente. A partire da questo, non si può guardare al futuro se non volgendo lo sguardo alle nostre spalle: riscoprendo le nostre origini e cercando in esse, al di là delle apparenze, cosa ci ha dato davvero la spinta per proseguire, per giungere al punto dove siamo oggi. È stato questo, in fondo, lo spirito col quale ho scritto quel libretto. E non posso che ribadire che per me la letteratura possibile, possibile oggi, è quella consapevole del limite. L’unica via possibile al futuro è quella appunto che ho definito «postuma»: che sa scavare in tutto ciò che abbiamo alle spalle, non necessariamente per rimpiangerlo, ma sempre consapevole del suo essere venuta dopo: fra l’altro e in primo luogo, dopo tutte le liberazioni, ma anche dopo tutte le catastrofi, del Novecento. Consapevole del mondo com’è stato: prima della fine.
AC
Oggi si parla molto, dopo l’esaurimento della «spinta propulsiva» del postmodernismo (se non è questa una contraddizione in termini), di «neomodernismo». Dopo la fine insisteva soprattutto sui limiti e sulle contraddizioni dell’ideologia della modernità. Ma guardando appunto alle nostre spalle, ed edotti dai suoi errori, che cosa possiamo recuperare, invece, di una modernità che oggi può apparirci persino, per dirla con un’espressione di Luigi Baldacci, «passato remoto»?
GF
Senz’altro la dimensione critica, che appunto il postmoderno ha abiurato. Tanto nelle sue componenti illuministiche che in quelle più sfrenatamente irrazionalistiche, la modernità era percorsa da una volontà razionale di capire, di sapere, di guardare la realtà al di là delle mistificazioni e delle illusioni, dei miti. In fondo tanto Cervantes e Stendhal sono per eccellenza moderni proprio perché, subendone il fascino, raccontano l’inesauribile sforzo dell’uomo di andare oltre le illusioni.
Una versione più breve di questa intervista è stata pubblicata il 14 settembre su Tuttolibri de La Stampa. Si ringrazia Daniela Voso per la collaborazione.