Gli ottant'anni dell'artista / Giulio Paolini a Rivoli: una conversazione

22 Novembre 2020

Giulio Paolini compie ottant'anni e festeggia la sua lunga carriera con una mostra di opere inedite al Castello di Rivoli, luogo intimamente intrecciato alle vicende dell'Arte Povera. Così è il lavoro dell’artista, si muove senza requie tra un’infinità di punti collocati nello spazio-tempo, oscillando tra la fine e l’inizio e sempre rinnovando un incessante dialogo tra sé e l’opera. Il titolo della mostra è un indizio certo dei temi che si dispiegano nelle tre sale allestite al secondo piano della residenza sabauda, frutto della stretta collaborazione con la curatrice Marcella Beccaria. Il tema cruciale della visione, la relazione tra supporto e immagine, la storia dell’arte come fonte inesauribile d’ispirazione, l’artista come spettatore sono alcuni dei topoi: molti dei temi che hanno puntellato la ricerca decennale del più borgesiano degli artisti italiani sono racchiusi in questa mostra ricca ma asciutta, che da un lato funziona da compendio a una parabola lunga e fertile, e dall’altra rinnova il desiderio di proseguire un’indagine potenzialmente senza fine.

 

Partendo da Disegno geometrico del 1960, il primo ambiente ospita la grande installazione composta da nove cavalletti disposti lungo la raggiera del reticolo prospettico, riprodotto sul pavimento della sala. Nove cavalletti che rimandano al numero delle Muse e che sorreggono lastre di plexiglas nel quale sono inseriti piccoli frammenti di carte, elemento ricorrente nella produzione paoliniana. Sospesa, al centro della sala, una cornice assemblata con delle lastre di plexiglass invita lo sguardo dello spettatore a elevarsi, mentre alcuni frammenti fotografici di un cielo sono disposti sotto il cavalletto centrale. L’universo di Paolini si irradia da quel primo gesto pittorico, quella tela concreta, rappresentazione apparentemente neutra che riporta lo schema di una prospettiva, giocando con seria levità in coincidentia oppositorum tra assenza e presenza, edificando un impero di immagini dove il vero lascia il posto alla dimensione squisitamente mentale dell’opera.

 

Giulio Paolini Disegno geometrico (Geometric Drawing), 1960 Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Foto / Photo © Mario Sarotto, Torino © Giulio Paolini.


Nella seconda sala, intitolata Vertigo, le opere, datate a partire dagli anni ‘90, rimandano ad altre ossessioni e a cicli tematici esplorati nel corso degli anni, come Promemoria (2017), nella quale i ritratti di numi tutelari dell’arte compongono un consesso ideale che si aggancia a quel più vasto “teatro metafisico” di cui scrive Andrea Cortellessa nella prefazione del volume Recital (idealmente collegato alla mostra e costituito dagli “appunti a capo” dell’artista che si affiancano alla già nota produzione poetica). Qui e là, nelle geometrie quasi esoteriche del modello di Dall’Aurora al Tramonto (del 2020), nella micro catastrofe delle fotografie affastellate di Vertigo (2020), si coglie quella passione lucida, tutta distillata dall’intelletto, che percorre la produzione “settecentesca” dell’antinaturalista Paolini. In Senza più titolo (2010) si palesano i numerosi echi dechirichiani, mentre Omega 1948 2018 (2019), allestito insieme a A occhio nudo (1998), appunta quell’oscillazione della presenza che si sostanzia in una immaterialità che non è mai negazione, bensì un vuoto dove il senso si coagula: in una teca di vetro, Paolini colloca l’orologio donatogli dal padre che ha indossato per buona parte della propria vita, e sopra la teca installa la fotografia di una stella dove la luce viene virata al nero, trasformandola in una sorta di buco nero. 

Fine senza fine, l’ultima sala, accoglie opere accomunate da un interrogativo, quel paradosso che le rende sostanzialmente indecifrabili ancorché all’apparenza limpide, evidenti. Ci sono  l’opera infranta, negli sguardi vicendevolmente intrappolati di “Fine”senza fine (Vis-à-vis) e L’immagine di un’immagine, due opere del 2020 nelle quali Paolini raffigura rispettivamente Narciso e Plotino, il giovane che si innamora fatalmente di sé stesso (mito che evoca l’inafferrabilità dell’immagine, l’impossibilità di raggiungere l’oggetto dello sguardo che è anche l’oggetto del desiderio) e il filosofo padre del neoplatonismo che rifiuta di farsi ritrarre, disprezzando il proprio corpo in quanto simulacro. 

 

I would prefer not to (2020) inscrive Paolini nel circolo dei bartlebyani, quegli artisti che si ritraggono, compresi come sono in un fare ostinato che è volto tutto alla pratica dell’arte e non del sé, che rifiuta il commento, il coinvolgimento con l’attuale, l'investitura. Vuoto, ancora, e in negazione è il set di Il modello in persona (2020), dove l’artista raffigura lo studio disabitato, così come in absentia agisce la valigia che galleggia in mezzo alla sala, sospesa a un filo, di Deposizione (2018-2020), che diverte e sgomenta per il richiamo cristologico che si sovrappone al tropo dell’attore. Non è possibile stabilire se si tratti di un’ascesa al cielo o una catabasi, e forse l’una non è che lo specchio dell’altra. L’artista non finisce di sparire eppure is present, riesce a farsi fantasma e a infestare le proprie stesse opere, ingaggia una lunga negoziazione con il tempo che nella dimensione del museo e nel dispositivo dell’opera si piega e si dilata, cristallizzandosi. Non c’è operazione di scavo, Paolini evita la tentazione dell’archeologia anche quando attinge all’archivio, al ready made o si avvale della citazione: nella ricerca di un ordine sempre transitorio, una messa in scena coerente ancorché percorsa da fratture e incidenti, si dispiega quel regno del visibile in cui egli è principio ordinatore ed esegeta silenzioso, attore e testimone di un’evidenza che non esaurisce il suo stesso enigma. 

 

Giulio Paolini L’immagine di un’immagine (Narciso) (The Image of an Image – Narcissus), 2020 Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Foto / Photo Luca Vianello © Giulio Paolini.

 

Giulio Paolini L’immagine di un’immagine (Plotino) (The Image of an Image – Plotinus), 2020 Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Foto / Photo Luca Vianello © Giulio Paolini.


Vorrei iniziare dalla fine, che nella sua ricerca è sempre stata una sorta di promessa felicemente tradita. In questa mostra, fatta soprattutto di inediti, l’ultimo spazio espositivo si intitola “Fine” senza fine. Anche in questa occasione lei sembra affermare la capacità specifica dell’arte di mettere in scacco il tempo e di riattualizzare questioni che si dimostrano inesauribili. C’è un piacere e un mistero in questa vertigine, e proprio in quel mistero insolubile mi pare si riveli un aspetto ermetico del suo lavoro, per altri versi così luminoso e organizzato. Esiste questa dialettica interna nella sua ricerca e quale ruolo ha giocato il tempo all’interno del progetto della mostra?

Vorrei finire dall’inizio, non solo per amor di simmetria a questa prima domanda, ma per applicare e confermare l’autorità suprema e indiscutibile del tempo, del “qui e ora” o del “mai più” come riferimenti complementari e intercambiabili.

Una vertigine – o un’immobilità – dettata dal voler possedere il senso – o la distanza – che ci unisce o separa dal tutto. Visibile o invisibile, ogni cosa è sempre qualcosa che è lì a interrogarci, più o meno sommessamente.

Dunque, questa mostra esplora la dimensione del Tempo (con la T maiuscola) come elemento primario della “messa in scena” espositiva. Una pura dimensione, dotata di coordinate, di dati… o meglio di date. Da sempre conservo l’innata predilezione per un tempo circolare, sempre più lento fino a sembrare immobile… 

 

 

La sua mostra si apre con la ripresa del suo primo lavoro, il celebre Disegno geometrico del 1960. Stavolta però lo spettatore entra letteralmente nello spazio prospettico e la griglia non è più solo una forma simbolica, ma un luogo reale. L’organizzazione dello spazio, in qualità di prodotto culturale, ha subito una profonda evoluzione nei secoli. Oggi per lei che valore ha assunto?

Possiamo trovarci in uno spazio definito come una “misura” oggettiva e conclusa oppure concepirlo in chiave soggettiva e ipotetica, dettata dalla dimensione virtuale della rappresentazione. 

Nel caso dell’installazione al Castello di Rivoli dal titolo Le Chef d’oeuvre inconnu ho voluto cercare di incrociare nello stesso luogo una dimensione fisica, addirittura praticabile ed esperibile concretamente con una dimensione puramente teorica e mentale. Ho voluto cioè delineare al suolo il tracciato virtuale e amplificato del mio primo (e ultimo) quadro, Disegno geometrico, datato 1960. Nove cavalletti sono disposti in corrispondenza dei nove punti della squadratura di quel disegno, ognuno di essi regge una teca trasparente di dimensione multipla del quadro originale, tracce, ritagli, frammenti indecifrabili di figure tratte da libri e manuali conservati nel mio studio sono trattenuti e visibili ai margini delle teche poste sui cavalletti. 

Al centro della sala, fulcro originario dell’intero tracciato, il cavalletto è il solo privo di teca, come in “attesa” dell’elemento sospeso in alto, fine (o inizio) di un istante incompiuto. 

Sulle quattro pareti della sala vengono inoltre delineate altrettante ipotetiche varianti di Disegno geometrico; le pareti diventano dunque proiezioni e ingrandimenti di quanto già annunciato a terra e sui cavalletti.

 

Il titolo della mostra e la prima installazione rimandano al racconto di Balzac Il capolavoro sconosciuto. Mentre il protagonista del racconto è ossessionato dall’idea della perfezione, nel suo caso lei sembra essere da sempre molto più interessato alla testimonianza del processo che spinge l’artista a proseguire inesorabilmente la propria ricerca, a questo lavoro senza fine che presuppone il fallimento come condizione implicita del fare artistico. 

Un fallimento trionfale – se così posso dire – che consente di riprendere voce di volta in volta, di “enunciare il silenzio” come premessa essenziale di un mondo “altro” depurato dall’incessante brusio quotidiano al quale desideriamo sottrarci.

 

Il suo lavoro è sempre stato contraddistinto da una mise en abyme, una vertigine dello sguardo che si sposta diacronicamente lungo il corso dell’intera storia dell’arte, trasportando lo spettatore in una casa degli specchi o, se vogliamo, in una biblioteca infinita. Oggi questa vertigine mi sembra appartenga al digitale, che è diventato lo sterminato archivio della storia umana. Come vede oggi la relazione tra il sapere storico-artistico e la dimensione digitale?

Tutto sta nella capacità di ridurre la potenzialità del digitale a “cosa”, a qualcosa di relativo e connaturato ai canali dell’informazione. Un pieno che apre – e non conclude – un vuoto destinato a perdurare al di là degli irraggiungibili confini dell’universo.

 

Giulio Paolini Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Foto / Photo © Luciano Romano, Napoli.


Sempre a proposito di teatro, le sue stanze mi fanno pensare agli spazi della mnemotecnica rinascimentale, vere e proprie architetture mentali dove lo studioso o il retore potevano organizzare il sapere e renderlo accessibile e funzionale. Mi chiedo se gli spazi della mostra in corso non abbiano una parentela con quei teatri, e in qualche modo attualizzino quella forma di pensiero visivo, traducendo i phantasmata in entità incarnate, o meglio, oggettificate. Cosa ne pensa?

In teatro lo spazio ben determinato del palcoscenico diviene il luogo fisico e mentale che ci apre e conduce ai limiti della “sacra rappresentazione”. Un’apoteosi, che ci colloca fuori tempo e fuori luogo come nessun altro artificio del linguaggio riesce a raggiungere. 

Il teatro, peraltro, è la dimensione perfetta, se così si può dire, di quel qualcosa che si propone come alternativa radicale alla nostra realtà corrente. Qualcosa di esauriente e convincente che si contrappone alla nostra esperienza di vita vissuta. Vorrei augurarmi che la sale di questa mostra riescano a produrre lo stesso effetto.

 

Nella mostra, vediamo intessuto un sottile gioco di rimandi tra spazio espositivo e spazio privato. Si tratta in entrambi i casi di due forme di teatro, in cui la messa in scena dell’opera in un caso e della vita intima nell’altro presuppongono una relazione imprescindibile con lo spettatore. In riferimento alla sua ricerca, mi sembra che la figura dello spettatore sia sempre stata coincidente quella dell’autore, testimone della propria stessa opera. Come è cambiato per lei questo rapporto dialettico tra lo sguardo esercitato dal sé autoriale e lo sguardo dell’estraneo, dell’altro?

Mi vedo tenuto a ripetere ancora una volta il mio ruolo di (primo) osservatore dell’opera della quale tutto concorre ad affermare di esserne stato (proprio io) l’autore. Credo cioè alla figura dell’autore come artefice visitato dall’ospite ignorato e sconosciuto (l’ispirazione) che gli detta il da farsi: ed è proprio il farsi stesso dell’opera a compiere il prodigio al quale assistiamo.

 

L’impossibilità di pervenire a una forma compiuta dell’opera d’arte, condannata a una verifica continua, a un incessante divenire destinato a non ripristinare mai il nucleo originario e assoluto da cui proviene. In questa circolarità dell’opera si delinea anche l’impossibilità di una retrospettiva canonicamente intesa. L’idea di questa “cacciata dal Paradiso” ha giocato un ruolo anche nella concezione di questa esposizione?

Proprio così: ancora una volta è il Tempo a fare e disfare le verità che ci sembrano incorruttibili. È proprio l’“Adamo” affidato a sé stesso che pur senza volerlo si trova così obbligato a rinnovare, resuscitare ogni volta il proprio ruolo, la controfigura che è destinato a impersonare.

 

Al centro della sua ricerca c’è lo sguardo inteso come strumento di conoscenza. La contemporaneità è caratterizzata da un surplus informativo causato da quella che Fontcuberta ha definito “la furia delle immagini”. Possiamo ancora ritenere l’atto del guardare uno strumento affidabile per relazionarci con il reale o la proliferazione incontrollata di immagini il cui statuto è difficilmente accertabile ci pone di fronte a uno scacco insormontabile?

Non c’è che ricordare, inchinarsi commossi davanti alla pagina scritta che, meglio di qualsiasi argomentazione, ci illumina sulla differenza tra guardare e vedere. Scrive Jorge Luis Borges nel racconto “Una rosa amarilla”:

“Né quella sera né la successiva morì l’illustre Giambattista Marino […], ma il fatto immobile e silenzioso che allora accadde fu veramente l’ultimo della sua vita. Carico d’anni e di gloria, l’uomo moriva in un vasto letto spagnolo a colonne intagliate. […] Una donna ha posto in un vaso una rosa gialla; […] Allora accadde la rivelazione. Marino vide la rosa, come poté vederla Adamo nel Paradiso, e sentì che essa stava nella propria eternità e non nelle sue parole e che noi possiamo menzionare o alludere ma non esprimere e che gli alti e superbi volumi che formavano in un angolo della sala una penombra d’oro non erano (come la sua vanità aveva sognato) uno specchio del mondo, ma una cosa aggiunta al mondo […].”

 

Giulio Paolini No Comment, 1991 Courtesy Fondazione Giulio e Anna Paolini, Torino Foto / Photo Paolo Pellion © Giulio Paolini 


Nel corso della sua carriera lei ha realizzato moltissime mostre. Il museo, ancora più che la galleria, si sta trasformando, sotto la pressione di un pubblico che ha nuove esigenze mostre più coinvolgenti, tempi di fruizione più rapidi, richieste di servizi aggiuntivi che non hanno a che vedere con l’arte ma anche maggior legame con i territori e le comunità locali. Sente che la dimensione museale ha ancora una sua valenza che le interessa indagare e quale tipo di forma/statuto si augura possa acquistare il museo del futuro prossimo?

Ebbene, è proprio il caso di dirlo, le deviazioni, i compromessi che l’accoglienza del museo è oggi tenuta ad offrire (quasi un ritrovo, una pausa per turisti e famiglie) non depone a onore né a vantaggio dell’istituzione. Concessioni che sembrano andare incontro a quei bisogni sottraggono in verità attrattiva e riservatezza al fascino di luoghi di elevato prestigio. Luogo di “clausura” piuttosto che di passaggio, sembra essere la vocazione ideale del Museo.

Oggi la politica ha messo radici nell’arena, risiede nella piazza (del popolo). L’arte è accolta nei confini di una località segreta, chiamata a volte esilio o rifugio. La politica gode della garanzia del numero (del grande numero), l’arte comunica in codice, i suoi sono segnali cifrati. La politica considera il mondo come un territorio governato, o governabile, da una armonia dove generalmente prorompe un cieco e dogmatico culto della Natura. L’arte osserva invece il mondo a dovuta distanza e ormai da tempo ha capito che non conviene neppure pensare di correggerlo.

 

Corsi e ricorsi storici fanno sì che oggi godano di grande attenzione tutti quegli autori che dichiarano di fare arte politica, che operano come cronisti del quotidiano e non temono di dichiarare il proprio impegno verso le cause civili. Lei è stato una delle figure di riferimento dell’Arte Povera, in un momento storico dove la politica era al centro degli interessi della collettività, eppure sappiamo che la costellazione che deve il nome a Germano Celant era composta da artisti eterogenei, che declinavano l’impegno politico in maniera ben più problematica di quanto una certa narrazione abbia poi scelto di raccontare. Il suo caso, per esempio, è quello di un artista che ha costantemente ragionato su un’arte che riflette su sé stessa e ha mantenuto una distanza programmatica da ciò che era il commento dell’attualità. Qual è la sua relazione con il contingente, con ciò che le è contemporaneo?

Troppi equivoci sono provocati dalla credenza, ampiamente condivisa, che individua l’artista come interprete del suo tempo. Il tempo che conta non è il suo, ma quello dell’opera, alla quale non corrisponde l’arco di esperienze della vita dell’autore. Al contrario, dalla vita – sua o non sua – l’artista prende distanza tale da consentirgli di orientare lo sguardo altrove.

Sullo slancio di questa domanda, eccomi incoraggiato a esporre una nuova invettiva. Alla mia età (ma già da molto prima, da sempre direi) ho maturato qualche convinzione. Tra queste, l’assoluta certezza dell’autonomia dell’arte rispetto alla realtà contingente. È questa una lunga, forse interminabile vicenda che l’arte e la sua storia rinnovano da sempre e sulla quale credo sia inutile schierarsi. Da parte mia ho sempre ritenuto l’esistenza dell’una e dell’altra assolutamente indipendenti, addirittura contrapposte.

Vorrei dire, a commento forse improprio ma sincero che l’arte (quando c’è) è cosa nobile; al contrario della realtà che (molto spesso) è ignobile.

 

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