Han Dong non è d'accordo

19 Giugno 2014

Han Dong non è d'accordo, a dir poco: è questa la cifra della conversazione.

 

Ci siamo visti più volte in questi due giorni, questa è l'ultima sera a Nanchino. Mi porta a cena in una ristorante autenticamente nanchinese: ieri è stata cucina dello Yunnan, la migliore forse, e sopratutto quella che viene dallo stato dove lui, come altri scrittori, artisti, registi e poeti vuole prima o poi trasferirsi. Foresta semitropicale e campagna in altura: la meta è Dali, nel nordovest, un'eterna primavera, non lontano dal confine con il Laos. La Toscana dei cinesi.

 

Cucina di Nanchino: sì, le specialità ci sono, il ristorante è annunciato da file di lampade di carta gialla: epperò uguale uguale a quello dove mi capita di pranzare in un centro commerciale  di Pechino. Diverse postazioni tutt'intorno, ciascuna ha la sua specialità, sia carne o pesce, o ravioli o verdura o noodles. Ci si siede nel grande salone, tavolini bassi  e sgabelli, e quando la pietanza è pronta i cuochi levano alte grida a richiamare i camerieri vestiti in costume tradizionale.

 

Lo stile vuole ricordare la vecchia Nanchino, quando si mangiava per strada circondati dai baracchini dei venditori. Bello, ma appunto identico a Pechino: è ristorante di catena, come tutto, e ovunque, in Cina. (A Nanchino possiamo perdonarla: è stata rasa al suolo dai bombardamenti giapponesi in guerra, il centro e non solo il centro è totalmente rifatto, città modernissima.)

 

 

Su cosa Han Dong non è d'accordo? Sua moglie osserva preoccupata la tirata. Ne ha ben donde questo uomo piccolo di statura, magro, calvo e con due occhiali dalla montatura spessa che paiono il punto da cui si irradia l'energia che gli sprizza da tutti pori. Lui fu il centro motore di un gruppo di poeti e scrittori alla fine degli anni ottanta, poi silenziato a cavallo della repressione dell'89, ma che seppe riprendersi e rilanciare una rivista, Tamen, che tradotto significa Loro (e fa il verso al nomignolo popolare che indica i burocrati, i dirigenti, i grandi capi della Cina), fino al famoso manifesto Duanliè, Rottura, che sciolse il gruppo. Una delle avventure culturali più interessanti della Cina nel periodo di Deng Tsiao Ping, che meriterebbe un libro a sé.

 

Han Dong non è d'accordo, io e sua moglie ci lanciamo sguardi allarmati mentre lui  si scaglia sulla traduttrice francese che cena con noi questa sera. Poi parla di nuovo alla moglie. Le rovescia addosso parole in cinese che io non capisco. La traduttrice arrossisce: mi dice, se la prende con chiunque, continuiamo  a dirgli che ha ragione, non siamo mica dirigenti del Partito Comunista! Non è d'accordo: sul fatto che lui, restando estraneo a ogni circuito di potere, non viene tradotto, non viene invitato...

 

Ma prima continuiamo con Tamen. Proviamo a ricapitolare. Lunghe conversazioni (le trovate in molti post di questo blog, della fine 2012) con Zhu Wen, Ou Ning, He Yi. Tutte vertono sulla loro giovinezza, quella seconda metà degli anni ottanta che sembrava promessa di libertà. Riabilitazione per tutti coloro che avevano subito angherie e violenze dalla Rivoluzione Culturale, timide aperture per quanto riguarda la libertà d'espressione. La letteratura occidentale è disponibile in toto, le traduzioni cominciano a circolare liberamente.

 

Agli scrittori che ho citato brillano gli occhi quando ricordano quegli anni (tutti ripetono le stesse espressioni: parlare tutta la notte, discutere, bere, fumare). Diventano poeti, e essere poeti in quegli anni è già essere sul fronte della rivolta: i manoscritti passano, ricopiati di mano in mano. Frasi dure, di rivolta artistica, affermazioni di libertà individuale, quella vera.

 

Vale per la Cina tutta. Ma a Nanchino accade qualcosa  di particolare: quel gruppo di giovinastri trova un suo mentore, già più in la con gli anni, verso la trentina, il poeta più famoso: Han Dong. La rivista è illegale, ma sono anni laschi: la  si può vendere in giro senza pericolo. Pubblicano molta poesia, collabora un nome di spicco come Su Tong, appare un testo di Mo Yen.

 

Han Dong stasera fa la sua tirata e dice: io non sono membro dell'Associazione degli Scrittori, me ne sono tirato fuori e guarda cosa mi succede, gli editori che mi vogliono pubblicare all'estero non ricevono contributi dal governo (attivissimo a supportare i suoi), e non mi invitano a readings, ai convegni! In realtà è scocciato perche un paio di suoi progetti cinematografici (uno è un serial per la tv), sono bloccati nelle stanze della censura – e si sa che ci possono restare per anni.

 

Torniamo indietro. Due giorni fa. Han Dong, paradossalmente, durante il nostro primo incontro aveva esordito dicendo il contrario. Diceva: comunque, che ci siano dei soldi per diffondere la letteratura cinese all'estero è buona cosa. E poi, in quella bella sala da tè (i divani ampi, un po' kitsch, le salette private dove gli uomini giocano a majang), entusiasta io di incontrare finalmente il mito di tanti miei amici pechinesi originari di Nanchino, gli dico: anni grandi, allora, quella metà degli anni ottanta (e penso: parlare tutta la notte, discutere, bere fumare).

No! risponde deciso: molto meglio adesso. Eravamo illegali, ricordalo! Adesso tutto è più facile, c'è più libertà d'espressione. Non ho dubbi, dice: quelli erano anni di promesse e basta, questi, almeno, sono anni di promesse mantenute anche se solo in minima parte.

 

    

 

Io ribatto: ma allora le speranze erano vive. E adesso non hanno più venti o trent'anni, i miei amici di Tamen: hanno l'età in cui delle proprie promesse si fa il conto. Anche con sé stessi. Gli cito quella raccolta di racconti, Vite False, di He Yi. Han Dong ribatte: certo, lui denunciava il fatto che ci stavamo tutti imborghesendo: ma gliel'ho pubblicato io, quel libro! Come dicesse: aveva ragione.

 

Non lo seguo fino in fondo, mi pare si contraddica. Ma insomma: non è d'accordo a priori, e questo mi piace. E mi da l'idea di uno che non ha mollato, che continua scrivere romanzi per vocazione, nonostante la fatica a trovare poi incarichi di lavoro che lo ripaghino, appoggi. Che non ha.

 

Parliamo del manifesto che segnò la fine dell'esperienza. Duanliè: rottura, cesura. Un questionario semiserio inviato a un centinaio di scrittori, editor, giornalisti. Il ruolo della cultura, delle Associazioni degli scrittori. A leggerlo viene un po' da ridere. Gli chiedo delle famose 72 risposte, dice: di tutti i tipi. Risposte serie, facezie, poemi.

 

L'ultima domanda pazza: secondo te un uomo vestito di verde è un bruco? Ho sempre immaginato ci fosse dietro un gioco sulla divisa dell'esercito, di cui molti scrittori 'ufficiali' erano membri, percependone così uno stipendio che consentiva loro di starsene tranquilli a casa a scrivere (Mo Yen è tra questi): lui dice, no, quel giorno passava lì uno con una maglietta verde e Zhu Wen ha inventato quella domanda conclusiva.

 

Poi ci pensa su: il gruppo di Tamen, dice: non ci siamo più rivisti dopo Duanliè. Intende dire che non hanno più lavorato come collettivo. In realtà io li ho visti insieme, Zhu Wen che ora fa il regista, Chu Chen che ora fa l'editore, He Yi che insegna in università. E alcuni di loro insieme a Ou Ning, che fa l'intellettuale a tutto campo, invitato a convegni in giro per il mondo dove propugna anarchia e ricostruzione rurale. Zhu Wen mi aveva detto: Han Dong non è più lo stesso di prima. Forse è quello che si è spezzato, pur rimanendo fedele alla sua poesia, alla sua scrittura: e la frustrazione lo assale.

 

E' poeta Han Dong, ma anche romanziere: cinque libri importanti, uno dei quali entrò come finalista al Man Asian Literary Prize di Hong Kong, che premia romanzi asiatici tradotti in inglese. Il titolo era ! Storia di un intellettuale costretto al lavoro manuale in campagna, nei campi di lavoro; il materiale da cui è tratto è vastamente autobiografico, perché fu suo padre a essere internato, e la famiglia lo seguì: e la riabilitazione delle vittime della Rivoluzione Culturale non guarisce quelle ferite. (Il romanzo lo ha tradotto in Italia ObarraO: ma dall'inglese! mi dice scontento Han Dong).  

 

    

 

Sul tavolo accanto al mio tè (leggero, tè di Nanchino), posa un romanzo nuovo, l'ultimo: ma è ancora ambientato negli anni della rivoluzione culturale. Gli dico: io cerco romanzi sull'oggi, su questo tempo della Cina in trasformazione. Lui dice: ma la rivoluzione culturale è una metafora. Già: è l'unico pezzo di storia cinese sul quale il Partito ha fatto autocritica ufficiale.

 

Dopo la sala da tè, la cena Yunnanese. Tutto cambia, non ha più voglia di far menate. Il baijiu scorre, lo abbiamo scelto secco, lascia meno strascichi la mattina dopo. La moglie deve guidare, la mia interprete non beve, la giovane traduttrice francese ci segue, si stropiccia gli occhi spesso, e perde il filo. Io e Han Dong siamo perfetti, diritti come fusi, aperti ma capaci di portare fino in fondo un ragionamento.

 

Il baijiu: sì, lo riconosce, è parte integrante di un certo vivere maschile, anche per quel che riguarda i poeti. Lui si sente sopratutto poeta, è chiaro. E allora si lancia in un lungo racconto su un gruppo di suoi nuovi amici di Pechino: riunioni tra poeti con bevute e litigate, pianti. Mi dice che un giorno hanno invitato un poeta canadese, abbastanza famoso: ha pianto anche lui. Poi, dopo la litigata, tornano amici e continuano e vedersi. La poesia come rito maschile di autocoscienza. Di cui, in questa Cina che cambia in fretta, forse c'è parecchio bisogno, per tornare a guardare in faccia la realtà, che è durissima.

 

(Ma lui: lui, in lotta con l'autorità, riesce ancora a lavorare come un mulo. Un suo script è nelle mani dell'amico Jia Zhangke, regista di spicco premiato a Cannes, per cui lui ha recitato: particine secondarie, in tre film. E stanno cercando i soldi per farlo: ma non è facile perchè anche l'ultimo film di Jia Zhangke è banished, in Cina.)

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