I cornflakes di Pascale
«Ma l’hai letto l’ultimo libro di xy? Parla dei fatti suoi!» «Ah, parla dei fatti suoi… e com’è, però, il libro?» Questa degli scrittori che parlano dei fatti loro, e dello stupore che ingenera, mi pare una bizzarria da avventizi, da gente che pensa alla letteratura come a un sacrario di valori e concetti obbligatoriamente metafisici: o parli del Male, dell’Evoluzione (molto di moda tra i poeti, in questo periodo), oppure hai poca speranza di sfuggire al pantano vischioso dei fatti tuoi. Ci sono poi di quegli scrittori, pure molto diversi tra loro, che dei casi propri hanno fatto dichiarata poetica (Walter Siti in Scuola di nudo: «Sono pettegolo su me stesso»; oppure Sanguineti, via Stendhal: «Un piccolo fatto vero (possibilmente fresco di giornata)»; e ci vogliamo dimenticare di Flaubert: «Madame Bovary c’est moi?»).
Questa dello scrittore che parla di sé, poi, in generale, non mi pare una grande novità: la possibilità di raccontare il presente, il quotidiano della propria vita, o della propria generazione, o della propria città o nazione o epoca, è persino ovvia, in letteratura. E se no, di che parlar suoli? Poi certo c’è quella bonomia sorniona, la provocazione controllata, le cene degli ex fighetti di sinistra oggi padri attempati e stempiati, invariabilmente fedifraghi. Un mio collega al giornale una volta lo definì il topos degli stendini, notando che nei film di certi registi della famiglia o della coppia borghese ce n’era sempre uno, a un certo punto della vicenda di solito sentimentale (allegoria di cosa? Non lo capimmo mai).
Comunque la faccenda del dire i fatti propri mi coinvolge in prima persona. Quando ho iniziato questa rubrica, ad esempio, il primo commento ricevuto è stato: «Perché racconti sempre le cose che ti succedono? Coinvolgono altri, non si fa». Poi lo hanno detto anche del nuovo libro: «Ma che coraggio hai avuto!» Oppure: «Ma sei pazza a parlare dei fatti tuoi, e se s’incazzano?».
I libri, però, bisogna leggerli. Sembra un truismo pedante, ma l’uso è ormai discettarne (e non solo in società o alle cene mondane, ma nelle pagine culturali e peggio che mai in internet) a partire dalla fascetta, da un’impressione, dalla frase in quarta, dalla bandella. Ora: è vero che un sondaggio basta eccome a dare un’idea del libro, come l’assaggio al gourmet. Prendi il romanzo che invade le librerie, te ne viene una curiosità invidiosa, lo sfogli a campione, e ci trovi quella frase sugli asciugamani, sul personaggio che ne usa tre per nettarsi viso, corpo, piedi. Dobbiamo leggerlo tutto, dobbiamo per forza? (l’altro campione individua il pezzo che si apre con «Lui si accese una sigaretta»). No, non dobbiamo. Però invece ci sono dei libri come quello recente di Antonio Pascale, ad esempio, rispetto ai quali, superata la diffidenza per la bonomia gigiona e l’autocompiacimento della critica sociale trasgressiva (le polveri sottili non esistono, gli insetti non sanno scegliersi i prodotti non geneticamente modificati, le buste non ecologiche inquinavano, ma almeno servivano a ripararti dalla pioggia), lo sforzo (ripagato) è individuarne il sovrasenso.
E tanto più lo rivelano, tali libri, un sovrasenso, quanto meno l’autore si nasconde dietro maschere, chiama i personaggi con nomi reali o molto simili a quelli reali. Tanto meglio, cioè, può venir fuori dal pettegolezzo su noi stessi una nostra (certo, e di chi?) verità sulle cose che abbiamo intorno, sul mondo che abbiamo ereditato ma anche costruito o che lasceremo ai nostri figli (figli?). La Bovary era lui, e noi continuiamo a essere curiosi o pettegoli: ma se pubblichiamo un romanzo e non un pezzo di cronaca gossippara per Chi, una ragione c’è.
Il libro di Pascale, tra l’altro, non parla solo dei fatti suoi, o meglio: all’interno dei fatti suoi c’è la difficoltà metaletteraria a inventarsi le trame e costruire una vicenda narrativamente complessa. Difficoltà che condivido, e che mi porta a diffidare, da lettrice, di una costruzione romanzesca troppo articolata in cui i personaggi non si chiamino Dmitrij o Gregor, ma Giuseppe o Lucia. Peggio che mai, Ione e Remì, per dirne una recente. Quando scrivo, poi, mi disamoro presto: vorrei affollare sulla pagina miliardi di personaggi, raccontare gli squarci di vite che raccolgo per caso, le situazioni parziali e minute in cui m’imbatto, gli episodi più che la costruzione ideale. Del resto, DeLillo è così che la risolve, in Underworld: chi se li ricorda più, quando riannoda le fila, Marion, Charlie e quell’altro, chi erano, cosa facevano e dove andava a finire, la famigerata palla da baseball, di mano in mano (e a partire da quale mano, poi, più?).
Di cosa dovrebbe parlare la letteratura è uno dei temi che ci si è scarsamente posti, rispetto al romanzo. Mentre invece è vivissima in poesia la contrapposizione tra contenutisti e asemic, ad esempio. Quelli che pensano la poesia debba dire qualcosa e quelli che viceversa piuttosto poesia coi byte e i videogiochi che coi sentimenti, mai sia. I sentimenti sono il vitandum assoluto, in generale, nella scrittura: figurarsi quello là che li annuncia dal titolo. I sentimenti non si possono enunciare, forse alludere, mai e poi mai spiattellare. Ecco perché ti devi inventare qualcosa, non vorrai mica passare tutta la carriera a raccontarci della madre morta? I temi autobiografici vanno travestiti, dislocati: potevi farlo un libro sul potere, ma dovevi ambientarlo, che so, in televisione, un altro contesto, comunque, non il tuo di afferenza (di?). Questo della dislocazione (extralocalità, si diceva una volta) è il grande abbaglio della prassi romanzesca. Specie se applicata a una tradizione come la nostra, che il grande romanzo nemmeno ce l’ha. Manzoni, Verga, De Roberto. Ma diciamoci la verità, sull’isola deserta, ci porteremmo Tolstoj.
E allora: allora i fatti propri non hanno bisogno di un travestimento romanzesco, o di una dislocazione, per acquisire dignità letteraria. Hanno bisogno di un dato essenziale: essere scritti, essere scritti cioè con cognizione della narrabilità come condivisione e non cipiglio autoriale ostentato o, al contrario, dimesso sguardo ombelicale. La domanda non è: devo perdere tempo con un libro che parla di te e della tua insonnia, invece di leggerne uno sui Guai del Mondo, ad esempio l’immigrazione o la cocaina. No, non è quella la domanda. Perché varrebbe anche per Proust, che perderebbe con la cronaca giudiziaria o mondana.
La domanda è: quello che leggo mi riguarda, ma soprattutto mi svela qualcosa, apre squarci, mi sorprende, mi illumina, mi acceca, mi sollecita, mi urtica, mi sconvolge, mi penetra, mi modifica? E dunque: il romanzo che satura le vetrine e gli scaffali andrà considerato più romanzo di quello di Pascale, solo perché la protagonista si chiama con un nome di fantasia e Pascale no? E perché quella racconta i fatti inventati e lui i siparietti di casa sua al mattino coi cornflakes triturati dai piedi sul parquet? Il problema è capire dove si trova il discrimine, individuare il succitato sovrasenso, ove ci sia: se quegli asciugamani e quei cornflakes sono sostanza della narrazione, e a quel punto dibattere sul vulnus del romanzo per i narratori italiani, e, ancor più produttivamente, su come dire le cose, oggi, narrando. Perché quegli asciugamani lì non costruiscono un mondo, ma allungano la broda mentre i cornflakes di Pascale sono una madeleine aggiornata e senz’aura, ma pur sempre una madeleine. Ed è stata una madeleine a rifondare, nel Novecento, la letteratura: quel mondo di falsi, ambiguità e carogne, in cui figuriamoci se ci si può baloccare nella toilette cambiando asciugamani.