Ricette immateriali / I piaceri selvatici

22 Ottobre 2021

Non ci sono solo una primavera astronomica, una meteorologica e una vegetativa, anticipata rispetto alle altre, in molte zone d'Italia. Nel Belpaese c'è anche una seconda primavera vegetativa, riguardante solo le erbe, che segue le prime abbondanti piogge d'autunno, quando le arie sono ancora tiepide. Pressoché sconosciuta ai cittadini, ben nota invece a contadini e pastori. Altrettanto apprezzata dagli erboranti, eredi delle primordiali arti dei raccoglitori pleistocenici. Gli erboranti sono ormai pochissimi per mestiere, mentre va diffondendosi la pratica per diletto. L'erborare, nell'accezione di raccolta di erbe selvatiche ad uso alimentare, è ascrivibile al più grande fenomeno del foraging, la ricerca di cibo selvaggio. Se Henry David Thoreau è considerato un profeta di queste pratiche, e il suo breviario sulla raccolta dei mirtilli selvatici un'imprescindibile lettura (Mirtilli o L'importanza delle piccole cose, 1860, riedizione 2018, Lindau, Torino), il foraging come controcultura è rinato negli anni Settanta del Novecento, e ha tra i suoi padri Richard Mabey, botanico e divulgatore inglese.

 

In quegli anni aveva “un sapore politico, provocatorio, alternativo, un pugno levato contro la vita domestica e contro una vita addomesticata” (I doni della natura, 1972, riedizione 2016, Vallardi, Milano), e contro l'imperante industria alimentare aggiungiamo noi. Oggi, al contrario, rischia di apparire come uno dei tanti fenomeni modaioli legati al food, anche se i raccoglitori sono sempre più numerosi e animano associazioni, corsi e manifestazioni. Fenomeni importanti di resistenza e resilienza eco-sociale. 

Per tutti gli erboranti la seconda primavera è una festa attesa, dopo la siccità infeconda, il deserto estivo. La seconda primavera regala gioie d'erbe selvatiche, da nord a sud: raccolti abbondanti, ma anche fioriture luminose. Sono i giorni dei lilla delle malve o dei gialli delle senapi, entrambe belle da vedere e buone da mangiare. Erbe robuste e rustiche che impreziosiscono i margini stradali, che insaporiscono i piatti poveri. Meno appariscenti, ma non meno rigogliose e gustose, in questa seconda primavera sono cicorie, crespigni, borragini, tarassachi, farinacci e tante altre. Erbe selvatiche buonissime semplicemente sbollentandole o da saltare in padella con olio e aglio.

 

 

Ma non c'è contrada in Italia che non abbia la sua ricetta tipica o variazioni infinite legate ai tipi d'erbe utilizzate, ai condimenti, agli abbinamenti. Ha addirittura ascendenze leggendarie il preboggion ligure, legato alle avventure di Goffredo di Buglione, guaritosi grazie a un piatto d'erbe selvatiche “per Buggiùn” o “pro Buglionis”, cucinato dai genovesi durante l'assedio di Gerusalemme, nella Prima Crociata. Nelle Marche invece le erbe straginate sono un capolavoro d'arte contadina, felice incontro tra vegetale e animale, tra ciò che cresce spontaneo e ciò che viene allevato, tra erbe selvatiche e grasso suino.

E allora in questi giorni d'ottobre, in questa attesa seconda primavera vegetativa, ripartiamo alla ricerca di erbe selvatiche per strade secondarie, “sovra il ferreo corsier”, riprendendo la poetica definizione di bicicletta, data alla fine dell'Ottocento da Olindo Guerrini, in arte Lorenzo Stecchetti.

 

Poeta, saggista e buongustaio, gourmet diremmo oggi, autore di libri dedicati alla bicicletta e alla cucina (In bicicletta, 1901, riedizione 2016, Tarka, Mulazzo – MS; L' arte di utilizzare gli avanzi. E risparmiare con gusto, 1918, riedizione 2016, Tarka, Mulazzo – MS). Se Guerrini invitava all'uso della bicicletta perché “non c'è arte al mondo che possa esprimere il piacere, direi quasi la voluttà, della vita libera, piena, goduta all'aperto, nelle promesse dell'alba, nel trionfo dei meriggi, nella pace dei tramonti, correndo allegri, faticando concordi, sani, contenti”, noi erboranti del XXI secolo possiamo solo aggiungere che è proprio la bicicletta il modo migliore per andare a erbe, nelle infinite periferie delle nostre città o nelle incerte campagne urbane che le circondano.

 

Perché va sottolineato che le erbe selvatiche sono indomite ribelli che crescono ovunque, offrendo colori, odori e sapori non solo a bucolici paesaggi collinari, da vivere e riscoprire, ma anche a indistinti paesaggi periurbani, comunque riserve di naturalità. Il terzo paesaggio, descritto e valorizzato da Gilles Clément (Manifesto del Terzo paesaggio. 2004, riedizione 2005 Quodlibet, Macerata), offre anche inaspettate risorse alimurgiche, cioè piante selvatiche commestibili. L'alimurgia nel Settecento era una scienza, utile ad affrontare carestie e malattie. Oggi una neo-alimurgia può aiutarci a vivere meglio, riscoprendo i piaceri della selvatichezza, anche a tavola, senza scadere dell'antiscientismo, anzi rinnovando l'indispensabile alleanza tra scienza e cultura, tra uomo e natura.

Godiamoci quindi questa seconda primavera, pedalando ed erborando, facendo nostra la preghiera di Frate Ciccillo, “l'assurdo, l'umano, il matto, il dolce Totò”: “Beata l'erba fresca, l'ortica, la cicoria / e chi se la magna, che Dio l'abbia in gloria”.

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