Speciale
Il fantasma del censimento
Ancora oggi non so perché ho deciso di lavorare come rilevatrice al censimento della popolazione.
Forse perché dopo mesi e mesi trascorsi da sola davanti a un computer per scrivere la tesi di dottorato avevo bisogno di mettere nuovamente le mani nella terra, sbriciolarla, farla entrare nelle unghie e sentirne l’odore. In poche parole avevo bisogno di gente, di rumore, di guai, di tutto quello che è quotidianità: il caffè prima di entrare in ufficio, il barista con cui parlare di politica, la discussione, il dibattito, lo scontro, la guerra, fuori dalle pareti della mia stanzetta.
Per molti mesi io stessa ho tenuto una mano sopra la mia testa, facendole tante carezze appaganti ma anche calcandola sotto il livello dell’acqua, giusto quel tanto per asfissiarmi e quel poco per poter tirare fuori il naso e respirare, il minimo per non credere di essere morta. La mia “dolce attesa” non era ancora iniziata, visto che il termine per la consegna della soffertissima tesi era la fine di ottobre, eppure già stavo esorcizzando il potere di quella parola, che è appunto “attesa” e di quell’altra che non ho mai capito, ovvero “dolce”, dando inizio alla mia esperienza di rilevatrice.
L’attesa non è mai dolce, piuttosto è amara, carica di dubbi e incertezze che si materializzano davanti a te: che succederà? Sarò in grado? Non è forse troppo per me? Per poi proseguire con le domande esistenziali di rito, quelle di un curriculum immaginario dove tu stessa sei il datore di lavoro e la candidata da assumere in chissà quale paradiso di beatitudine lavorativa e quindi via col quiz: chi sono? Perché esisto? Qual è il mio posto nell’universo? E così sino a regredire verso i quindici anni di età, per concludere in un trionfo di pessimismo cosmico che Leopardi aveva ragione su tutto, e che Arthur Rimbaud aveva fatto bene a smettere di scrivere e scappare chissà dove.
A parte questo, il censimento della popolazione è stata un’esperienza negativa, ma almeno è servita come talismano pagano ed efficacissimo santino con preghiera, contro la mia personale “dolce attesa”, che poi alla fine non è mai esistita, perché di fatto non ho smesso di lavorare. Dunque il mio appetito di gente è stato saziato a tal punto, che in un eccesso bulimico mi è pure venuto il vomito a causa di tutta quella gente, ingozzata come una gigantesca torta alla panna, spinta con un’ansia malata in fondo alla gola, con la stessa foga di un allevatore di oche da pâté. Ma comunque Welcome to the Jungle!, dicevo fra me, avanti con questo lavoro, piuttosto la foresta amazzonica, tarantole e serpenti, che l’attesa vuota di un futuro tutto proiettato al passato.
Ebbene il censimento consiste, come dice la parola stessa, nel censire la popolazione, stimarne il numero, il grado di istruzione e implicitamente la ricchezza di un paese. Fin qui tutto giusto. Un semplice questionario da compilare in un ufficio messo a disposizione dal comune dove le persone o, meglio, l’intero mondo passa per raccontare i propri affari personali e le proprie disgrazie a un inconsapevole rilevatore, che dietro una scrivania ascolta come in un confessionale ogni piccolo peccato.
Ho conosciuto ingegneri croati che lavorano come camerieri, laureati in lingue albanesi occupati in fabbrica, badanti estoni che vivono in una stanza di venti metri quadrati, una diplomata in canto che lavora al bar. Viene in mente il Tom Joad di Springsteen: Waitin’ for when the last shall be first and the first shall be last…
Il resto non è affatto meglio. Molti fra i cittadini di questo paese sono ostili nei confronti dello Stato, refrattari a qualsiasi banale quesito che possa scoprire la furberia commessa tanto il minuto prima, quanto in epoche antidiluviane. Così, spesso, è imbarazzante chiedere quante stanze ha la casa, quante macchine o quanti cellulari si possiedono in famiglia, oppure il titolo di studio. In altri casi invece risulta addirittura impossibile ottenere che il questionario venga compilato. La maggior parte di loro sono anziani. Ma non quelli che raccontano storie di favolosi antenati a cui ci hanno abituato tanti romanzi, eh no! A parte rare eccezioni, figure eroiche in un panorama desolato, quelli incontrati sul territorio sono diffidenti e possessivi, persino del suolo, che nell’insolito ruolo di rappresentante dello Stato, ero talvolta costretta a calpestare, con l’intento di porre le domande previste dall’Istat.
Per loro l’attesa non esiste.
E alla fine?
Penso che questo censimento abbia colmato il vuoto della mia personale “dolce attesa” e mi abbia restituito quelle più o meno vane di tutti coloro che ho incontrato. Come sempre, aveva ragione Cesare Pavese, lavorare stanca, ma aspettare, credo proprio che in fondo, dopo tutto, sì, credo proprio che uccida.