Il fascismo e l’operazione austerità
Le politiche per l’austerità sono semplici strumenti per gestire l’economia e i loro insuccessi possono essere derubricati a semplici errori di policy, originati da teorie economiche sbagliate e dall’incapacità dei sistemi democratici di intervenire tempestivamente, oppure l’austerità è una costante del capitalismo moderno in ricorrente crisi?
Il libro di Clara E. Mattei Operazione austerità. Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo (Einaudi, 2022) prova a leggere le politiche per l’austerità non come una risposta alle crisi economiche congiunturali, alle recessioni o all’alta inflazione ma piuttosto come uno strumento utilizzato dagli economisti (in realtà non tutti) per fronteggiare le crisi sistemiche, da utilizzare ogni qualvolta che è lo stesso sistema capitalistico ad essere messo in discussione, ogni qualvolta si profili il rischio del crollo del capitalismo.
Quando si evocano i rischi del crollo del capitalismo è tuttavia difficile non ricordare il titolo di un bel libro di Giorgio Ruffolo, recentemente scomparso: Il capitalismo ha i secoli contati (Einaudi, 2014). Ed è pressoché inevitabile ricordare quanti economisti appassionati hanno speso, e spendono, gran parte della loro vita intellettuale e politica per “salvare il capitalismo da sé stesso”, per riformarlo o per “migliorare la vita della gente” (ancora Giorgio Ruffolo).
In questa prospettiva il libro di Clara E. Mattei si legge con interesse quando ripercorre le vie attraverso le quali l’austerità si afferma nel novecento, trovando la sua espressione più plastica nelle economie del primo dopoguerra in Italia e Gran Bretagna, dove le politiche per l’austerità si sono sviluppate grazie a mix differenti di coercizione, consenso e tecnocrazia.
A partire dal racconto del “biennio rosso” (1918-19) e delle Conferenze finanziarie internazionali di Bruxelles del 1919 e di Genova del 1922 la tesi del libro si alimenta di una serie di argomenti, in parte interessanti e condivisibili, in parte decisamente discutibili.
Le due Conferenze vengono individuate come il momento fondativo del “primo piano tecnocratico globale per l’austerità”. E le raccomandazioni emerse da entrambe le Conferenze trovano attuazione in due realtà estremamente diverse: una solida democrazia parlamentare di un impero economico che solo allora iniziava a vedersi messo in discussione dagli Stati Uniti – la Gran Bretagna – e un Paese economicamente arretrato, largamente dipendente da importazioni e capitali esteri, alle soglie del fascismo – l’Italia.
Clara E. Mattei tiene consapevolmente insieme queste due storie estremamente diverse al fine di dimostrare che, concentrandosi sul senso ultimo dell’austerità, anche realtà molto differenti – la culla del liberalismo, la prima, e l’origine del fascismo, l’altra – tenderebbero a confondersi. Cercando di dimostrare che, lungi dall’essere “solo” politiche economiche sbagliate, le politiche per l’austerità anche quando producono effetti economici e sociali fallimentari, in realtà raggiungerebbero comunque il loro vero obiettivo: la protezione del capitalismo così com’è (nelle parole dell’autrice, la conservazione dei “rapporti capitalistici di dominazione di classe”).
Nella Gran Bretagna di inizio secolo, di fronte all’avversione dell’opinione pubblica e ai rilevanti sacrifici sopportati da larga parte della popolazione, l’autrice mostra come la complementarietà tra consenso e “coercizione” si avvalga soprattutto del ruolo svolto dalle istituzioni tecnocratiche e, in particolare, della Banca Centrale (“libera di seguire il detto mai spiegare, mai scusarsi, mai rammaricarsi”) per isolare le politiche economiche da qualsiasi forma di scrutinio pubblico e imporre le misure necessarie al raggiungimento del “bene superiore” della stabilità, in nome dell’“interesse generale di lungo periodo”.
In Italia, invece, l’austerità ha potuto beneficiare della coercizione (senza le virgolette) facilitata dalla violenza del regime fascista oltre che dalla benevolente indifferenza di una parte della cultura liberale.
Anche nel nostro Paese l’austerità ha potuto contare sulla presunta neutralità dell’economia (la così detta “economia pura” di Umberto Ricci) ma quando nelle sue diverse forme – fiscale, monetaria, e industriale – l’austerità incontrava resistenze, poteva beneficiare del sostegno violento tipico di uno Stato autoritario.
Soprattutto, l’imposizione di quella che Clara E. Mattei definisce austerità industriale – ovvero l’abolizione dei sindacati (considerati dagli economisti governativi una minaccia monopolistica?!) – la definizione della Carta del Lavoro del 1927 e la riunificazione del pernicioso dualismo di capitale e lavoro nello Stato sovrano, ha potuto trovare nei metodi violenti del regime un utile alleato.
Peraltro, l’intreccio piuttosto stretto tra austerità e fascismo, a detta di Clara E. Mattei, consentirebbe di leggere in continuità due fasi del ventennio che, almeno sotto il profilo economico, non sembrano agevolmente assimilabili: il primo periodo liberista (1922-25) e il successivo periodo caratterizzato dall’economia corporativa tipica del fascismo, durante il quale l’intervento dello Stato mirerebbe più che altro a contrastare la crisi del capitalismo.
Se su alcuni argomenti dell’analisi di Clara E. Mattei è senz’altro possibile ritrovarsi, su altri, invece, appare più che lecito manifestare una qualche perplessità.
Sui danni, l’inefficacia e l’iniquità delle politiche dell’austerità è possibile registrare un consenso diffuso (anche da parte degli economisti meno sensibili alla “fuoriuscita” dal sistema capitalistico).
D’altro canto, alla luce delle esperienze più recenti, si potrebbe aggiungere che l’austerità, proteggendo – o cercando di proteggere – il sistema capitalistico a qualunque costo, genera un diffuso malcontento, favorendo la nascita di movimenti populistici che possono mettere a repentaglio la stessa democrazia (e forse lo stesso capitalismo).
Analogo consenso si può registrare in merito ai danni del neoliberismo. “Il neoliberismo ha reso la scienza economica qualcosa di estremamente pericoloso: un virus invisibile che può fare, anzi ha fatto, danni enormi al nostro organismo” (G. Ruffolo).
Così come non si può non concordare con l’autrice quando sottolinea l’ambiguità dei progetti tecnocratici, critica la loro presunta oggettività e denuncia la truffa della così detta depoliticizzazione dell’economia.
Ed è purtroppo un fatto incontestabile anche la debolezza nei confronti del fascismo di buona parte della cultura liberale, quella che privilegiando lo status quo e spaventata dalle rivendicazioni del mondo del lavoro, ha accettato (o preferito non vedere) i metodi violenti del regime.
Su un punto però il libro non appare convincente e mi trova in dissenso profondo.
Pur tralasciando la questione, non poco urticante per il nostro Paese, della dimensione del debito e dei limitati spazi di manovra che ne derivano (ma che comunque residuano), è soprattutto la disinvolta assimilazione delle politiche keynesiane alle ricette neoliberiste e all’austerità che lascia perplessi e che mette in discussione la stessa tesi di fondo del libro.
La voglia di dimostrare che l’austerità e gli economisti che l’hanno promossa o quelli che si sarebbero limitati a rimediare ai suoi insuccessi, proponendo politiche anticicliche e riforme sociali anche profonde (che fine ha fatto il Rapporto Beveridge?), avrebbero tutti contribuito all’avvento del fascismo appare senz’altro provocatoria ma, a dir poco, azzardata. Porta, ad esempio, a sottostimare una parentesi trentennale (i “gloriosi trenta” 1945-1973) di politiche espansive, di riduzione delle disuguaglianze, di importanti trasformazioni del sistema capitalistico. Finisce soprattutto per ignorare gli sforzi degli economisti riformisti che preferiscono “… il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del “sistema”…E che…più che essere colpit(i) dagli strali del retoricume neoliberista (sempre dello stesso stampo), … avvert(ono) con maggiore malinconia le reprimende di chi rimprovera (loro) l’incapacità di “fuoriuscire” dal sistema (F. Caffè,“La solitudine del Riformista” , Il Manifesto, 29 gennaio 1982 oppure Bollati Boringhieri, 1990) o, peggio di aver aperto le porte al fascismo.
Pur tralasciando le profonde differenze teoriche, politiche e anche valoriali tra diverse scuole di pensiero, letture quali quella sviluppata nel libro di Chiara E. Mattei non rendono un buon servizio alla (si auspica nutrita) schiera di quanti non sono soddisfatti del “sistema economico nel quale viviamo” (F. Caffè).