Conversazione con Enzo Cucchi / Il primato del segno

4 Giugno 2017

La meraviglia provocata da un segno. Così potremmo definire il lavoro dell’artista Enzo Cucchi che nel segno trova la propria ragion d’essere nonché la fonte prima di emozione. Si tratta di un segno che sovente prende la forma di teschio o di fuoco fatuo; talvolta di animale o di creatura umana ingigantita, rimpiccolita, stilizzata, oppure ridotta a specifiche parti anatomiche; altresì di zona d’ombra o di paesaggio collinare privato delle tradizionali coordinate spazio-temporali e pertanto disorientante, onirico.

Tuttavia, pur sembrando alludere alla dimensione onirica, il segno di Cucchi non reifica né un sogno junghiano teso a rivelare le leggende collettive dell’umanità, né un sogno freudiano volto a visualizzare l’inconscio individuale di chi lo ha delineato sul foglio o sulla tela. Il segno non è un racconto, né un’illustrazione, né una descrizione: non è sogno, ma tautologicamente solo e soltanto segno.

“L’importante è segnare”; “nei segni deve depositarsi qualcosa che ha a che fare con la storia, la responsabilità, l’etica”, afferma l’artista: quel qualcosa è una disciplina (la disciplina dell’arte) che, attraverso le regole dell’armonia, della proporzione e della misura, permette al segno di non essere mai decorativo né descrittivo per divenire invece veicolo di ciò che da sempre dà l’anima alle cose: il mito.

Come evocato da Stéphane Mallarmé nell’ultima terzina del sonetto Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui, il segno – in francese “signe” – è termine allitterante con “cygne”, ossia con il nobile animale, sacro ad Apollo e alter ego simbolico dell’artista che, consapevole dell’inadeguatezza della ragione a concretizzare il proprio slancio ideale verso l’assoluto, sceglie di non far niente per guardare in disparte, da dietro, l’esistente. Forse per questa ragione Cucchi (di)segna “avendo la testa vuota”: non cerca di decifrare la realtà né di interpretare la natura, ma si limita a osservare ciò che già esiste e a provare un’emozione. L’arte è per lui qualcosa che è nell’aria e che nasce da una necessità: l’artista è colui il quale è in grado di catturarla e di renderla visibile attraverso un segno.

Nel lavoro di Cucchi il segno si manifesta attraverso molteplici materiali e tecniche differenti: tela, carta, bronzo, ferro, legno bruciato, ceramica, olio, carboncino, matita, terracotta, disegno, pittura, collage, scultura, installazione e numerosi libri d’artista. La forza del segno si unisce così alla seduzione della materia, l’assoluto al relativo, l’astratto al concreto, per dar vita a opere che se da un lato mirano all’impersonalità applicando le secolari regole dell’arte (proporzione, armonia, misura), dall’altro sembrano lasciar intravedere il loro autore: i paesaggi dipinti somigliano a quelli delle Marche dove l’artista è nato, così come il carattere della pittura risente necessariamente del suo retaggio culturale costituito da maestri quali Licini, Scipione, Bellini e soprattutto Piero della Francesca.

 

Enzo Cucchi, Senza titolo, 2017: grafite, carbone e ceramica su carta. Photo Credits: The National Exemplar Gallery, New York.

 

Tutto questo e altro ancora è intrinseco al lavoro di Enzo Cucchi, nato nel 1949 a Morro d’Alba (Ancona) e noto esponente di quel movimento artistico definito nel 1979 da Achille Bonito Oliva “Transavanguardia”. Dopo aver lavorato come restauratore di libri e quadri, Cucchi si è avvicinato da autodidatta all’arte e poi alla poesia pubblicando alcuni testi in versi quali Testa è estensione della mente (1973), Enzo Cucchi ex Enzo Cucchi (1974) e Il veleno è stato sollevato e trasportato (1976). L’esordio come artista risale al 1977 con l’esposizione del disegno Ritratto di casa, a Roma, presso gli Incontri Internazionali d’Arte. Fin dal 1980 le sue opere sono state ospitate nei più importanti musei, gallerie e rassegne internazionali: al 1980 risale la personale da Paul Maenz a Colonia; al 1981 le due personali rispettivamente a New York presso la Sperone Westwater Fischer, e a Zurigo presso la galleria di Bruno Bischofberger; mentre è del 1982 la mostra di disegni alla Kunsthaus di Zurigo. Nel 1988 la Biennale di Venezia ha dedicato a Cucchi un’intera sala personale e numerose sue opere sono state concepite per essere installate permanentemente in prestigiosi luoghi pubblici in Italia e all’estero (nel parco Brueglinger di Basilea, presso il Louisiana Museum di Copenaghen, all’esterno del Centro Luigi Pecci di Prato, presso la York University di Toronto). Numerose sono state anche le sue collaborazioni non solo con altri artisti, ma anche con architetti, designers, poeti e intellettuali. Con Sandro Chia, nel 1982 Cucchi ha realizzato l’opera Scultura andata, scultura storna e ancor prima Tre o quattro artisti secchi: una mostra tenutasi a Modena, presso la Galleria Mazzoli, composta da disegni e da un libretto a sei mani realizzato anche con Bonito Oliva. Al 1994 risale la collaborazione con Mario Botta per la Cappella sul Monte Tamaro in Svizzera; al 1990 risale l’ideazione con Mario Ceroli per le scene della Tosca al Teatro dell’Opera di Roma, mentre al 2001 risale la pubblicazione assieme a Ettore Sottsass del periodico “I disuguali” costituito da quattro tavolette di terracotta.

Ho incontrato Enzo Cucchi nel suo studio, a Roma, città dove si è trasferito dal 1984. La mia conversazione con lui, trascritta qui di seguito, non vuole tanto approfondire il suo percorso artistico, ma si propone piuttosto di restituire un’emozione: quella scaturita dall’incontro con un autore che, alla stregua delle sue opere, lascia un segno in chi prova a interrogarlo. Terminata la conversazione e lasciata alle spalle la porta del suo studio, ciò che resta “inciso” nella mente e nel cuore è infatti la forza delle sue dichiarazioni capaci di indurci a guardare l’arte e la storia dell’arte in modo diverso, da un’altra posizione.

 

Enzo Cucchi, Lo stile del cane, 2017: bronzo. Photo Credits: The National Exemplar Gallery, New York.

 

Cosa pensa della storia dell’arte intesa come la disciplina che indaga a posteriori le vicende e l’attività degli artisti?

Le vicende del passato di un artista non dovrebbero interessare nessuno perché esiste un tempo interno nelle cose, fatto di aspirazione e riflessione e di cui nessuno può parlare. L’arte è un qualcosa che c’è o non c’è; che tocca alcune persone e non tocca altre: la storia dell’arte che pretende di gestire e spiegare l’arte, credo che sia qualcosa di abbastanza aggressivo nei confronti dell’arte stessa; pertanto non serve. Prima di occuparsi d’arte bisognerebbe essere autori e a esserlo si paga col sangue: un brutto disegno viene selezionato da un altro disegno, un quadro viene selezionato da un altro quadro e quindi da un altro autore; gli altri non c’entrano. Se non c’è l’autore non può esserci niente. Ma cosa significa essere autore? Significa essere stato selezionato.

 

Esiste però qualcuno, a suo avviso, che ha saputo parlare del lavoro degli artisti?

Paul Verlaine è stato un grande autore ed è sempre stato dietro Cézanne. La posizione è molto importante! Verlaine scrive di Cézanne ma, innanzitutto, indica la posizione: sta dietro Cézanne; è da lì che lo guarda dipingere. Così facendo, si accorge delle indecisioni, i problemi, gli incubi dell’artista, e si rende conto che non tutti i suoi dipinti sono capolavori. Verlaine può esserne testimone grazie alla posizione prescelta: se si fosse posto davanti a Cézanne non avrebbe potuto vedere né comprendere niente e sarebbe riuscito a scriverne solo in astratto.

 

Enzo Cucchi e Ettore Sottsass, I Disuguali, 2001: rivista in ceramica e box in legno di pino.

 

Lei ha più volte dichiarato che “non c’è tecnica, non ci sono altre discipline, se prima non c’è il disegno”. Per disegno intende la tradizionale tecnica della matita o dell’inchiostro su carta, oppure, più in generale, il gesto del tracciare qualcosa su una superficie a prescindere dallo strumento con cui lo si fa (matita, inchiostro, colore ad olio…) e dal supporto su cui si agisce (carta, tela, legno…)?

Il disegno viene prima di tutto, anche prima della pittura: non lo dico io, ma lo dicono gli antichi. Per disegno intendo il carattere e l’autorità. È dal disegno che emerge il carattere di ogni creatura umana; è da come appoggia la matita sulla carta che si capisce se ha o non ha autorità. Basta confrontare i disegni di Picasso con quelli degli artisti della sua generazione: la differenza è evidente. Picasso è innanzitutto disegnatore perché fa tutto con il segno: prima di delineare un segno, pensa dove segnare, immagina dove e come è possibile ri-immaginare un’immagine. Questo significa segnare; questo significa disegnare. È sempre necessario fare un segno in quanto in esso c’è tutto ed è in base a esso che avviene la selezione: il segno è talmente semplice e necessario da non poter essere manipolato, ma, in quanto tale, corrisponde all’azione più difficile possibile. Gli artisti ne sono sempre stati consapevoli: infatti, fin dall’antichità, solo in pochissimi hanno affrontato il disegno come forma artistica autonoma, anziché come mezzo funzionale a illustrare qualcosa o a realizzare un quadro. Per praticare il disegno come forma autonoma è necessario avere molto carattere; solo in pochissimi sono riusciti a farlo: penso a Tiziano, a Piero della Francesca, a Paolo Uccello, al Pollaiolo, a Bellini...

 

Per quanto invece riguarda la pittura, Lei ha scritto che “la pittura è battaglia, sta di fronte alle cose”. Se è vero che ogni sua pittura appare come un campo di battaglia tra principi opposti, un corpo a corpo con la materia che sprigiona una forte energia vitale, mi sembra però che Lei utilizzi la pittura anche come strumento armonizzante, volto a tenere assieme molteplici forme, materiali, tecniche, elementi iconografici…

La pittura è disegnare; è disegnare col colore; è un mezzo per unire gli opposti attraverso la forma e l’armonia. Allo stesso tempo, è una battaglia fatta di proporzioni, di misure, di sguardi, di luce, di molteplici elementi e possibilità, che l’artista può affrontare solo conoscendo e rispettando alcune regole: quelle dell’arte.

 

Enzo Cucchi, Tarsia su cemento, 1992-1994, opera realizzata nella Cappella di Santa Maria degli Angeli progettata da Mario Botta, Monte Tamaro, Canton Ticino (Svizzera).

 

Lei spesso ha sottolineato che “se devo descrivere il mio lavoro posso farlo solo in relazione all’aspetto tecnico, ai materiali utilizzati dato che spesso prima di cominciare non ho idee chiare”. A ciascuno dei molteplici materiali che utilizza conferisce però uno specifico valore concettuale?

 

No, si tratta di materiali di necessità. La questione non è mai essere o non essere il primo a realizzare o utilizzare qualcosa, ma risiede piuttosto nel momento in cui si decide che quel qualcosa è necessario come traccia o dritta per la propria generazione. Io però non darei importanza a ciò che ho fatto – anche se è vero che negli anni Settanta il mio lavoro si è contrapposto al concettualismo allora diffuso – perché, in realtà, già esisteva, era nell’aria, era una necessità che io ho semplicemente raccolto. Nel mio lavoro ho fatto sempre e solo ciò che sentivo come urgente e necessario. Un’opera d’arte dovrebbe esistere solo quando è necessaria.

 

Le sue opere alludono spesso al dolore fisico e alla morte attraverso la rappresentazione di gocce di sangue, di fuochi fatui e soprattutto di teschi. Lei ha dichiarato che “si può parlare della vita solo attraverso la morte” e che “il quadro si fa per alzare il livello di civiltà che riguarda tutti noi”. L’arte, a suo avviso, ha quindi un valore taumaturgico, evocando il disfacimento corporeo come necessario alla nostra salvezza in quanto, solo attraverso esso, possiamo tornare a essere un tutt'uno col cosmo?

Sì, l’arte è un salvavita, ma io rappresento il teschio perché è una delle poche realtà che conosciamo. Ciascuno di noi parla solo di ciò che conosce, non di ciò che non conosce perché, se non lo conosce, significa che non gli interessa; quindi, se ne parlasse, si annoierebbe. Io invece cerco sempre di non perdere tempo e di non annoiarmi. Lavoro solo con immagini e cose che conosco e cerco di conferire loro armonia.

 

Enzo Cucchi, Senza titolo, 2015: bronzo. Photo Credits: The National Exemplar Gallery, New York.

 

Lei è forse l’unico artista che non ha mai realizzato un autoritratto. Questa scelta deriva forse dalla sua convinzione per cui l’opera deve solo meravigliare senza raccontare niente? Cioè: se l’opera non deve descrivere niente, allora non può descrivere nemmeno colui il quale è preposto a concepirla… È così?

Certamente! Ma non solo per questa ragione. L’autoritratto dell’artista è sempre esistito e spesso compare anche all’interno di dipinti con raffigurate molte altre figure. Tuttavia, a mio avviso, autoritrarsi è assurdo perché mi sembrerebbe di guardare solo una minima parte di un tutto maggiore.

 

Ma se è vero, come Lei afferma, che dal segno emerge sempre il carattere dell’artista che lo ha fatto, allora tutte le opere (anche le sue), pur non essendo autoritratti dal vero del loro autore, costituiscono comunque autoritratti “mascherati” o latenti di colui il quale le ha realizzate…

Sì, forse in quel senso le mie opere possono dirsi tutte miei autoritratti. È molto probabile che lo siano, poiché quanto più carattere c’è all’interno di un lavoro e quanto più carattere si dà a un segno, tanto più le opere si assomigliano tra loro. In realtà, l’artista continua a fare sempre la stessa opera e non c’è un autoritratto più autoritratto di quello!

 

Enzo Cucchi, logo della Fontana dei due soli, 2017.

 

Parlando invece della sua attività più recente, il 1 giugno 2017 inaugurerà al porto di Ancona la “Fontana dei due soli”…

Il nome “dei due soli” fa riferimento a una leggenda secondo cui da alcuni luoghi di Ancona si può vedere sia sorgere sia tramontare il sole a causa della disposizione geografica della città. Si tratta di una fontana ideale. Vuole essere un’accoglienza e dare sollievo: quando dal mare si arriva in un porto, la prima necessità è quella di riposarsi, sedersi e rinfrescarsi. Per questo la mia fontana ideale corrisponde a una panchina con una seduta di 15 m e può essere praticata anche avendo un handicap, in quanto, all’interno dello spazio centrale, una rotaia ne permette l’attraversamento con una carrozzella. La fontana diventa così accessibile a tutti, anche ai bambini. Ma in realtà io non ho fatto nulla: ho solo fatto un segno.

 

E invece come si configurerà la mostra che dal 10 giugno 2017 si terrà al Centro Culturale di Chiasso?

A Chiasso saranno esposti documenti e una cartella grafica mai vista che abbiamo deciso di ultimare e che è stata stampata da una casa editrice di Como. È una mostra molto particolare, essendo costituita solo da documenti: è una mostra “schiava” perché la sua esistenza dipende dall’esistenza di quegli specifici documenti.

 

Infine, rivolgendo uno guardo sull’arte delle ultime generazioni, cosa pensa dei giovani artisti emergenti?

Da parte mia c’è tolleranza, umanità, tenerezza nei confronti dei giovani artisti. Per loro ci sono sempre, intendendo l’esserci come una posizione: sto sempre dietro a ciò che è emozionale, senza descriverlo né giudicarlo. Anche se posso non condividerlo, mi interessa il loro lavoro per l’emozione che sta dietro. Bisogna inoltre capire che oggi la realtà è diversa da quella del dopoguerra; le posizioni sono diverse. Nel dopoguerra l’urgenza era ricostruire tutto e perciò l’aspirazione di ciascuno era molto forte. È dalle urgenze che nascono le necessità. Nel dopoguerra, ad esempio, i direttori dei musei erano innanzitutto appassionati d’arte: erano creature che avevano l’arte come vizio sano e avevano imparato il loro metodo direttamente negli studi dei loro amici artisti e trascorrendo molto tempo con loro. Col passare degli anni, la realtà è cambiata, le aspirazioni sono diventate diverse e sono arrivate altre generazioni molto differenti da quelle precedenti, con altre urgenze e necessità. Comunque, per quanto riguarda gli artisti, gli artisti ci sono quando sono necessari, si selezionano tra loro, non hanno bisogno di nessun altro per essere selezionati e la selezione deve essere di carattere formale. Cioè: se sono davanti a un disegno, non lo guardo come se fosse qualcosa che racconta una storia, ma lo guardo come un disegno, cercando di selezionare il segno e la sua qualità. È questo, a mio avviso, l’unico approccio all’arte possibile e necessario.

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