Il vuoto attorno allo sport
Di recente ho ascoltato un podcast che mi ha profondamente coinvolto, Storia dell'omicidio di un marciatore, realizzato da Vincenzo Frenda e prodotto da RaiPlaySound.
All'apertura di ogni episodio viene ricordato con tono puntuale il senso stesso delle registrazioni, delle indagini e delle interviste, il motivo che sorregge l'intero ciclo di puntate: "Questa non è una storia di sport; non è solo il racconto di un processo per frode sportiva; non è uno spaccato sul doping, né sull'atletica mondiale; non è nemmeno una storia di redenzione o di riscatto. In questa storia non c'è un lieto fine. Questa è la storia dell'omicidio di un marciatore: la storia di Alex Schwazer."
Mi pare che negli episodi di questa serie radiofonica, tra i molti spunti e spaccati storici irrisolti, si metta in luce in realtà una problematica ben più grande della biografia controversa di un marciatore. Si mette in luce un abisso. Un abisso umano su cui qualunque atleta potrebbe affacciarsi. Un abisso, che è innanzitutto un vuoto, che dovrebbe interpellare tutti, ma viene abilmente nascosto dalla nostra sensibile morale, innescando il meccanismo dello stigma, del colpevole, dei buoni e cattivi, dei deboli e dei forti.
Non ho ricordi di cosa avevo pensato al momento dei fatti, da sportivo ventenne, di questo caso specifico. Eppure, oggi, quell'eco abissale mi sollecita a una riflessione più ampia. Per quale motivo, mi domando mentre la registrazione procede, mi sento così vicino ed emotivamente coinvolto dalle vicende di Alex Schwazer? E subito cado nel tranello della banalità di giudicare, e assolvermi, senza aver provato a capire: "Io non sono come lui, non posso sentirmi come lui. Perché io non ho giocato sporco".
Ma non è su questo che ci si deve soffermare: l'abisso di cui si parla, quello in cui il marciatore cade travolto, non è l'abisso del doping; il doping infatti ne è l'ultima, estrema e distruttiva conseguenza, è la risposta sbagliata a un sintomo.
Poiché viviamo in un sistema paradossale. "Il sé tardomoderno è sempre più esausto. Corre per produrre prestazione. Produce per realizzare i propri sogni. Ma al contempo è sempre più lontano da sé. Tanto che non sa cosa vuole, non sa ascoltarsi. Non conosce nemmeno più i propri sogni. Corre dunque ingannato e senza ragione" (Hartmut Rosa, Accelerazione e alienazione, Torino, Einaudi, 2015).
Schwazer, nel secondo episodio, asserisce: "Io per esempio avevo ventitré anni e ho vinto le Olimpiadi. Ho raggiunto il mio obiettivo, anzi il mio sogno, perché non era neanche un obiettivo. E lì dovevo fermarmi un attimo. Perché per un momento mi sono sentito arrivato e però è entrata in gioco la pressione da fuori. Come fai a dire a ventitré anni, in uno sport in cui a ventitré anni puoi solo crescere anche se hai vinto, come fai a dire – no per un anno non faccio gare –, come fai? Un ragazzo a ventitré anni non lo può sapere." E poi subito dopo: "In quegli anni la cosa che ho sottovalutato molto è che io mi sono sempre visto come le possibilità che ha il mio fisico. Ma per fare una prestazione sportiva ci vuole la mente e il fisico. Quando la mente s'incomincia a stancare anche il fisico rende meno."
"In quanto società dell'azione, la società della prestazione si evolve lentamente in una società del doping" scrive Byung Chul Han nel suo La società della stanchezza (Nottetempo, 2012). E aggiunge: "L'aver semplicemente proibito l'utilizzo di tali sostanze, tuttavia, non impedisce l'evoluzione che trasforma non solo il corpo, ma l'essere umano nel suo complesso in una macchina da prestazione che deve funzionare indisturbata e massimizzare la prestazione. Il doping è soltanto una conseguenza di una evoluzione, nella quale l'essere in vita – che costituisce un fenomeno estremamente più complesso – viene ridotto alle funzioni e prestazioni vitali. Come suo rovescio, la società dell'azione e della prestazione genera stanchezza eccessiva ed esaurimento. [...] L'eccessivo aumento delle prestazioni porta all'infarto dell'anima."
Mentre ascolto la voce dell'alto-atesino, comincia a sovrapporsi alla sua storia, alla sua biografia di marciatore, anche la cronaca sportiva più recente.
Come prima cosa penso al caso calcio scommesse e ludopatie. La puntata di "Tutta la città ne parla" del giorno 19/10/23 analizza il tema a partire dagli interventi di alcuni ospiti con competenze differenti fra loro; tra questi Santo Rullo, psichiatra, ideatore del progetto Nazionale Crazy Football, solleva un aspetto cruciale: "[C'è nell'ambiente sportivo] poca consapevolezza, e purtroppo le problematiche di natura psicologica e psichiatrica si trascinano ancora culturalmente un pregiudizio e uno stigma che non permette ad un ambiente relativamente chiuso come quello del calcio di affrontare il fenomeno con più serenità; per cui c'è la paura di essere stigmatizzati di essere identificati come persone fragili e non solo; noi con il nostro progetto mettiamo a disposizione dei ragazzi che hanno problematiche psichiatriche i valori dello sport, e i valori dello sport sono i valori della socializzazione." Strumenti che però non vengono utilizzati se non in rari casi, non solo per vergogna, ma soprattutto per mancata percezione del problema in coloro spesso che lo subiscono.
Senza parlare della difficoltà delle scelte che ne conseguirebbero. Non tutti sono capaci di prendere decisioni come quella dello sciatore norvegese ventitreenne, Lukas Pinheiro Braathen campione del mondo in carica nello slalom, che ha annunciato da poco il suo ritiro. "Per poter continuare a sciare all'interno di questo sistema, ho dovuto non solo mettere da parte i miei sogni, ma anche la mia gioia di vivere. Non sono più disposto a farlo."
Si tratta di difficoltà che possono colpire tutti. Anche nei casi più apparentemente felici. Per esempio, la stessa ascesa di Sinner, considerato già predestinato, già numero uno mentre è ancora ai primi passi della sua peraltro già vertiginosa carriera, paradossalmente lo espone al medesimo rischio sistemico, ovvero alla ricerca di un'intensità più intensa, che non potrà che avvicinarlo a trasformarsi in un prodotto già consumato, già accelerato nella sua prestazione ventura.
Mi sembra di scorgere, pur riconoscendo la grande diversità delle biografie e i fatti diametralmente lontani, il medesimo abisso accanto, lo stesso vuoto possibile che può minacciare un percorso innanzitutto esistenziale, prima che sportivo.
Cosa potrebbe sollevare – dare sollievo – a questo trampolino proteso sul vuoto iper-performante e iper-alienante che è divenuto (o è sempre stato) lo sport?
A ripensarlo a ritroso, la sensazione rarefatta e intermittente è come quella di un galleggiamento: ben oltre la fase di decollo, dentro una stratosfera ambigua difficilmente raccontabile se non da chi ne ha già vissuto le onde, i picchi e le contraddizioni; galleggiare quasi inebriati dalla potenza, abitando un corpo nuovo, una sagoma ricalcata dall'ambiente attorno, un ambiente condiscendente, seducente, distaccato e deformato.
È necessario rompere la bolla. Spaccarla. Che significa farsi pari, poggiare sul piano piedi e pensieri. Riempire il vuoto abissale di un pieno scelto, tornando ad essere innanzitutto cittadini. Non diminuendo – anzi – in nessun momento il proprio sé, la propria cittadinanza, la propria appartenenza al mondo.
Nel cercare alcuni testi per completare queste righe mi sono imbattuto a Parma, al Centro Studi Movimenti, in un vecchio inserto della rivista MicroMega dedicato alle contestazioni nei confronti del CIO per aver scelto di organizzare le Olimpiadi a Pechino nel 2008 senza aver considerato la tutela dei diritti umani. Tra gli articoli, a pagina dieci, c'è uno scritto di Pietro Mennea dal titolo "C'è del marcio dentro il CIO", di cui riporto la conclusione: "Dico tutto questo come cittadino e come olimpionico. Credo che l'atleta, in virtù dell'enorme coinvolgimento emotivo da cui le sue gesta sportive sono accompagnate, possa e debba avere un ruolo che impone anche una certa responsabilità civile. Quando un atleta partecipa da tesserato della propria federazione a questi eventi internazionali, si esprime attraverso l'attività agonistica, ma non può cessare di esistere come uomo ed evitare che il suo cervello continui a ragionare e a porsi delle domande. L'atleta è in primo luogo una persona e un cittadino e deve essere libero di poter esprimere tranquillamente le proprie opinioni."
Recentemente Maurizio Crosetti, intervistato ai microfoni di Radio3, ha sollevato un dubbio, a tanti anni di distanza dallo scritto di Mennea: "È calata la consapevolezza degli sportivi d'oggi. I ragazzi [sportivi] del 1966 erano dentro le cose, dentro le vicende del mondo, le contraddizioni della politica. Oggi non so quanto esista la stessa trasmissione di realtà. E qualche volta si ha la sensazione che lo show business dello sport contemporaneo, soprattutto a certi livelli, anestetizzi un po' le coscienze; non è una colpa che imputo ma forse è una conseguenza inevitabile. È come se questo mondo alieno proteggesse ma anche allontanasse il campione dalla realtà. [Eppure] lo sport è un grande veicolo anche di trasmissione di realtà e di illustrazione di quello che accade nel mondo e talvolta anche una cassa di risonanza per battersi per alcune cause che possono essere più o meno giuste."
Forse è proprio il motto – sportivo, sociale, politico, sistemico – a dover essere sovvertito. Alex Langer rammentava: "Voi sapete il motto che il barone De Coubertin ha riattivato per le moderne Olimpiadi, prendendolo dall'antichità: il motto del citius, più veloce, altius, più alto, fortius, più forte, più possente. Citius altius e fortius era un motto giocoso di per sé, era un motto appunto per le Olimpiadi che erano certo competitive, ma erano in qualche modo un gioco. Oggi queste tre parole potrebbero essere assunte bene come quintessenza della nostra civiltà e della competizione della nostra civiltà: sforzatevi di essere più veloci, di arrivare più in alto e di essere più forti. Questo è un po' il messaggio cardine che oggi ci viene dato.
Io vi propongo il contrario, io vi propongo il lentius, profundius e soavius, cioè di capovolgere ognuno di questi termini, più lenti invece che più veloci, più in profondità, invece che più in alto e più dolcemente o più soavemente invece che più forte, con più energia, con più muscoli, insomma più roboanti. Con questo motto non si vince nessuna battaglia frontale, però forse si ha il fiato più lungo."
La questione non deve più essere vincere l'altro. Ma vincere il sé che dinnanzi al vuoto si lascia sconfiggere. Cercare dunque quella forza intima e vitale in cui crescere e da cui – con umanità e scopo – farsi vincere.
«Chi da quest’angelo fu sopraffatto / che così spesso rinunzia alla lotta, / è lui che esce a testa alta e grande / da quella dura mano che, come per plasmarlo, / al suo corpo aderiva. / E le vittorie non lo tentano. / Crescere è per lui: esser fino in fondo / da una forza sempre più grande vinto» (Rainer Maria Rilke, Poesie I, 1895-1908, a cura di G. Baioni, Torino, Einaudi 1994; traduzione di G. Cacciapaglia).
Luca Vettori, classe 1991, è un ex giocatore della nazionale di pallavolo.
In copertina, Luigi Ghirri, Pescara, 1972 © Eredi Luigi Ghirri.