Lo sguardo del pubblico

16 Aprile 2024

Da quando ho concluso la mia carriera sportiva di giocatore di pallavolo, alcuni mesi fa, non sono più entrato in un palazzetto dello sport. Taglio netto, si dice.

Qualche giorno fa è successo. Era un match piuttosto importante, il quarto di finale di playoff del campionato italiano tra la squadra di Milano e quella di Piacenza.

Mi sono trovato però, naturalmente, dall'altra parte. Sugli spalti e non più dentro al campo, non dentro al rettangolo poetico del ring dove la scena compare, si svela. Ero pubblico. Quel corpo unico che osserva e sospira e trattiene e scalpita. Un corpo che vive, che è vita.

Ciò che è accaduto a me, a noi, su quei seggiolini blu elettrico mi sembra possa assomigliare a una trasformazione catartica, fisica, una condizione di entusiasmo spontaneo che occorre preservare.

Lo sguardo osservatore del pubblico, infatti, possiede una rilevanza molteplice, una preziosità cruciale, che pare divenire contesa e strattonata in diverse direzioni.

Tutti vogliono lo sguardo del pubblico, tutti bramano la sua attenzione.

Lo sguardo del pubblico su un atleta, dentro agli schermi piatti dei dispositivi, negli stadi gremiti, rischia di non essere più una pratica viva, una contemplazione accorata ed entusiasta di un gesto tecnico, di un gesto magico. 

Vi sarà senza dubbio chi, senza distinzioni tra club, media, federazioni, agenzie, atleti, nutre un interesse esclusivamente economico nel rendere monetizzabile l'immagine dello spettacolo, trasformando il profilo mediatico dello sportivo sagomato, la sua capacità d'attenzione in capitale da sfruttare in termini di guadagno economico e politico. Lo sguardo del pubblico, in questo caso, è abilmente attirato da un canto che lo seduce a guardare un prodotto attenzionale che lo rende innanzitutto cliente (oltre che lavoratore non retribuito), trasformando di conseguenza l'osservazione dello spettacolo sportivo in fidelizzazione mercificata.

Guy Debord, già nel 1967, in La società dello spettacolo, appurava: “L'alienazione dello spettatore a beneficio dell'oggetto contemplato (che è il risultato della sua stessa attività incosciente) si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua propria esistenza e il suo proprio desiderio”. 

Con l'avvento della digitalizzazione totale della pratica sportiva, cui consegue la possibilità di scommettere su qualunque cosa, dal fallo laterale, al cartellino giallo, al servizio sbagliato, o anche con i ricorrenti episodi discriminatori (razzisti, omofobi, vessatori) del pubblico nei confronti degli atleti, sembra esservi in atto un cambio silenzioso, sinistro, volto alla gentrificazione dell'iride del pubblico sportivo: scompare il gioco, il divertimento, viene meno il rituale connesso allo sport, cessa il suo invito all'educazione motoria, alla salute psico-fisica, alla cura; sulla scorza vitrea della pupilla rimangono immagini, immagini perlopiù virtuali, non smettono di ballare con luce bianca, fin dentro al sonno, fin dentro al desiderio di ripetizione, di assuefazione, di riposo intorpidito.

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Il nodo critico sta proprio nell'accettazione assuefatta a cui fa riferimento Debord. Un pubblico necessita costantemente di educarsi ad essere pubblico, attraverso la comprensione del proprio desiderio, del proprio bisogno, attraverso il motivo reale per cui è avvenuto quell'incontro, quel rituale collettivo. Come suggeriva Roland Barthes nel suo intervento commissionatogli da Hubert Auquin, per la realizzazione del documentario del 1961 Lo sport e gli uomini, lo sport può avere in sé la potenza e la responsabilità di comunicare: "Perché amare lo sport? Bisogna innanzitutto ricordare che tutto ciò che accade al giocatore accade anche allo spettatore. [...] In questo caso guardare non è soltanto vivere, soffrire, sperare, comprendere, ma anche e soprattutto esprimere i propri sentimenti con la voce, il gesto, il volto, significa prendere a testimone il mondo intero, in una parola, comunicare."

Vi sarà, in questo senso, chi tenta di portare lo sguardo del pubblico non dentro il consumo "dominante" – occupando l'immagine centrale, ovvero il perimetro spettacolarizzato delle celebrate gesta, quanto piuttosto nel tentativo della sua stessa dissoluzione, della sua metamorfosi: lo sguardo contaminato che squarcia la tela della retorica sportiva, soffia con ostinazione proprio fuori dal ruolo e dal personaggio confezionato e prefissato. 

Vi sono numerosi esempi di manifestazioni, giornate di sport, tornei antifascisti e antirazzisti in tutta Italia, che associano alla pratica sportiva una partecipazione popolare, festosa e politica. Così come esistono, ormai, molti casi di protest club calcistici auto-organizzati (Salisburgo, Manchester e Liverpool) che si dissociano dai propri club di appartenenza iscritti alle Leghe maggiori per formare dei campionati dissidenti, sviluppando politiche "affordable" (abbordabili), attaverso raccolte fondi e forme di azionariato sociale, fornendo una loro risposta all’industrializzazione del calcio. 

In altre situazioni, poi, un atleta o un attore sportivo direttamente coinvolto, grazie all’attenzione mediatica di cui beneficia, "può rovesciare la sua identità spettacolarizzata scavando una breccia dentro allo spettacolo stesso, può mostrarsi onestamente, può scegliere di farsi fallibile e veicolare lo sguardo su di sé producendo oggetti attenzionali fuori dalla cornice della sua immagine mediale, tentando di trasformare quindi, con gli stessi strumenti che lo spettacolo gli fornisce, un’azione che consuma in un’azione che cura". In questo senso, Matteo Piano, atleta olimpionco e scrittore, e Michele Dalai, scrittore e presidente delle Zebre Rugby Parma, mi sembrano degli ottimi esempi.

C'è l'incipit di un racconto di Franz Kafka, di cui ricorrono quest'anno i cento anni dalla morte, che mi sembra presupporre un auspicio, indicare una via di fuga per scampare al furto dello sguardo del pubblico.

"Se una qualunque cavallerizza, gracile, malata di tisi, fosse spinta sopra un malfermo cavallo in giro nella pista ininterrottamente, per mesi, davanti a un pubblico insaziabile, dalla frusta squassata da un superiore senza pietà, piroettando sul cavallo, gettando baci, molleggiandosi sui fianchi, e se questo spettacolo sotto il persistente frastuono dell'orchestra e dei ventilatori si prolungasse nella grigia incessante prospettiva del futuro, accompagnato dal decrescere e poi dal riaccendersi di scrosci di mani plaudenti, che sono in realtà magli a vapore forse allora un giovane spettatore di galleria si precipiterebbe già per la lunga scala e, attraversate tutte le file di posti, piomberebbe nella pista e darebbe a gran voce l'alt, fra lo strombettio dell'orchestra che sempre si adegua alle situazioni."

Se ambientassimo questa scena in un palazzetto sportivo, in uno stadio, dove, malauguratamente, non si trovasse più divertimento o spontanea vertigine del cuore, ma solo contemplazione assorta di un giro alienante, solo insulti e odio sbiascicato – noi, il giovane del pubblico – con la medesima postura onirica e archetipica, noi dovremmo scendere quella lunga scala con fare situazionista per fermare il frastuono dello spettacolo, dovremmo gridare quell’alt nel mezzo del palco, per interrompere la grigia incessante prospettiva di futuro: restituiremmo, al futuro, la vita.

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