Un atleta sono le sue vittorie

5 Marzo 2024

"Un Athlète n’est que ce que sont ses victoires", scriveva Georges Perec in W, o il  ricordo d’infanzia (Einaudi, 2018), narrando di un enigmatico e tremendamente allegorico villaggio Olimpico situato su un’isola sperduta della Terra del Fuoco, W, in cui vige una società organizzata intorno all’imperativo della vittoria, e dove gli Atleti W, fin da bambini, sono ridotti unicamente a medaglie e palmarès. Spersonalizzati, de-umanizzati, divengono mera statistica: ogni aspetto della loro esistenza dipende esclusivamente dalle esigenze di un’esasperante competizione sportiva. "L'atleta W ha poco controllo sulla sua vita. Non ha nulla da aspettarsi dal passare del tempo. Né l'alternanza dei giorni e delle notti, né il ritmo delle stagioni gli saranno di alcun aiuto. Sopporterà con uguale rigore la nebbia della notte invernale, le piogge gelide della primavera, il caldo torrido dei pomeriggi estivi. Senza dubbio può aspettarsi che la Vittoria migliori la sua sorte: ma la Vittoria è così rara, e così spesso ridicola!"

Ho cominciato a scrivere di sport all'interno di questo spazio online evocando un abisso. Un abisso possibile, un abisso sistemico, scavato nel mezzo di carriere sportive. Ora, forse, si tratta di seguire l’invito di René Char – “sprofonda nell’ignoto che scava, costringiti a roteare” (Fogli d'Ipnos, Einaudi, 1968) – e cominciare questo roteare, volgendo lo sguardo indietro, tra le pareti ripide di quel vuoto, tentando di ripercorrerlo a ritroso.

Il villaggio Olimpico a Rio de Janeiro 2016 era ubicato lontano dalla città. Per raggiungere i luoghi adibiti alle competizioni e agli allenamenti occorrevano ore di traffico intenso e imprevedibile. Le corsie che i pullman seguivano erano inusuali: l'organizzazione tentava di tenere l'occhio ospite lontano dalle zone più povere e marginali della metropoli. Tutto doveva sembrare funzionante e decoroso.

Fu la mia prima partecipazione alle Olimpiadi con la squadra Nazionale di Pallavolo. Avvertivo adrenalina, tensione, un senso di eccezionalità sospesa.

Dopo un lungo e difficile torneo, ottenemmo la medaglia d’argento, sconfitti in finale da un indomabile Brasile. Ho una memoria confusa di quel torneo, viziata senza dubbio da quella medaglia cui ogni atleta ambisce. 

Nella realtà, tuttavia, ricordo di aver vissuto emozioni di aperto conflitto con me stesso, che oscillavano tra la consapevolezza dell'evento eccezionale che stavo vivendo e un malessere, una disaffezione a quel momento, un'assenza di palpabile gioia che mi lasciava interdetto.

Il villaggio Olimpico a Tokyo 2021, chiuso all'esterno per via dell'emergenza pandemica, si trovava invece su una baia accanto al mare costruita appositamente per l'Olimpiade, in una zona piuttosto centrale della metropoli. Chi gareggiava risiedeva all'interno del distretto ed era confinato in un lockdown pressoché totale. Nessuno entrava, nessuno usciva, se non per le gare.

Quel torneo, per noi della Nazionale di pallavolo, dal punto di vista agonistico, non fu un successo. Ci fu un gran clamore perché fummo sconfitti dalla Nazionale Argentina al quarto di finale. Le aspettative, dopo aver ottenuto la medaglia d'argento all'edizione olimpica del 2016 a Rio de Janeiro, erano molto alte. "Debacle senza precedenti", ricordarono alcuni giornali in conclusione della manifestazione.

Eppure, in questo rivolgermi indietro ripensando a quel periodo, compaiono sorprendentemente altre luci ed altre geometrie. Dei dettagli in apparenza piccoli, aneddoti irrilevanti che tuttavia hanno avuto la forza, o meglio l'onestà, di non farsi scolorire dall'assioma imperante della vittoria e della sconfitta – della retorica per cui qualcosa merita di essere ricordato e altro dimenticato. 

Il villaggio olimpico, come dicevo, sembrava galleggiare su diversi corsi d'acqua marina. Si poteva passeggiare costeggiando il mare che riusciva a infilarsi liberamente, agente esterno innocuo, tra le vie, a tratti affollate e a tratti solitarie, del quartiere. Ricordo diverse sere in cui, passeggiando per questi sentieri bianchi accanto al mare, io e Matteo Piano, amico e compagno di squadra, sceglievamo una panchina, ci sedevamo tranquilli nonostante il fragore delle giornate, gli sforzi fisici, le riunioni e le tensioni, per guardare la luna che piano piano sorgeva. L'esercizio, forse come una meditazione, un satori – una riappropriazione non violenta del tempo presente, era disegnare la luna. Ho conservato su un taccuino queste vedute di luna disegnate a pastello. Riguardarle oggi mi emoziona, mi fa sentire quieto. 

Al giorno d'oggi la voce narrante dell'epoca sportiva, nonché epoca dello spettacolo, che celebra il successo, l'immagine reificata e il corpo scintillante di supereroi patinati, non ha coincidenza alcuna con ciò che accade nel tempo intimo. La gioia è innanzitutto vittoria, la tristezza è innanzitutto sconfitta. Nessuna chance di mescolamento o sovrapposizione dei piani. La possibilità di allenare una narrazione personale – salvifica – della propria biografia sportiva non è nemmeno considerata.

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Javier Marias, in un'interessante intervista letta ai microfoni di Pagina3 il 12 ottobre 2022, asseriva: "Si potrebbe affermare che siamo incapaci di conoscere alcunché, anche ciò che viviamo o abbiamo vissuto. Ci sembra, infatti, di sapere, ma non è così. [...] Crediamo di sapere, ma ciò che possediamo si riduce a una visione personale, di noi, della nostra storia, delle persone con cui interagiamo e del contesto, dell’ambiente in cui ci muoviamo”. Secondo Marias tutto si riduce al nostro punto di vista: anche la storia, la registrazione dei fatti, non può sfuggire dalla soggettività, per quanto inconsapevole e involontaria. "Forse una delle ragioni per cui raccontiamo è che abbiamo bisogno di certezze e allora capiamo che solo la finzione, nella sua irrealtà, più reale della realtà, può offrirci qualcosa di vero, di certo, perché frutto di un atto creativo che non vuole essere mimetico, descrittivo, ma quasi demiurgico, pura creazione; e la creazione riesce a emanciparsi ed emanciparci dalla riproduzione di una realtà necessariamente destinata a rimanere sfuggente e inclassificabile. L’unica cosa che non può essere rettificata è la finzione, che fotografa una realtà fittizia la quale è di per sé completa e irrefutabile”.

Ebbene mi pare che ciascun atleta acceda a un tempo extra-ordinario, a una realtà obliqua che lo determina, a un presente denso, intenso, emozionante, che senza dubbio incorona un percorso e gli permette di incamerare una particolare energia per il continuo della sua carriera e anche, in qualche modo, della sua singola vita. Tuttavia, seguendo la provocazione di Marias, credo che per un giocatore in un tale momento di euforia emotiva, di gratificazione atletica, di audience sportiva, ciò che conti davvero, aldilà delle glorificazioni, dei premi, delle congratulazioni, ciò che possa fare la differenza, sia saper creare il proprio racconto di sé. Ovvero affinare quella capacità di autobiografia che consente di ricostruire le proprie esperienze, il proprio intimo, elaborando la realtà che accade con lucidità, fantasia e gioco. Una "finzione amica", che, nel suo paradosso, permette di restare agganciati alla realtà e al presente storico.

Attraverso questo espediente poetico e terapeutico, si ha la possibilità di rendere vivo il proprio racconto, il quale, peraltro, è cominciato ben prima dello sport, ha già macinato parole e immagini e segni vivi. Occorre modellare il corso del racconto che si è già abitato, che potrà avere una forma precisa in un dato momento, e che magari ne assumerà un'altra diversa in differenti occasioni.

Non s'intende invitare alla mistificazione della propria biografia auto-celebrandosi con supponenza o arguzia, ma al contrario a rendersela compagna, in un'oscillazione costante tra verosimiglianza e stupore.

In questo senso per uno sportivo (e non solo) l'autobiografia s'impone come un esercizio quanto più utile. Roteando lo sguardo indietro, mi sembra che questo "allenamento" abbia favorito in me due posture antitetiche. Da una parte la necessità di proteggermi, in quanto avvertivo il bisogno di consegnare una misura personale a ciascun successo o insuccesso, disinnescando le spiegazioni retoriche o moralistiche che caratterizzano la narrazione sportiva. Una corazza che, peraltro, mi consentiva di proteggere me stesso, il mio atletismo affettivo (la grammatica del respiro, direbbe Artaud) preservando la mia aura (rendendomi altro, oltre a merce). Dall'altra parte la necessità di mantenere viva quell'appartenenza civica e cittadina che accompagna, auspicabilmente dall'adolescenza all'età adulta, ciascun soggetto.

Il racconto autobiografico, dunque, è l'osservazione che un giocatore opera quando consapevole di ciò che sente, è la percezione pronunciata di ciò che ha avuto importanza, di ciò che è stato essenziale e di ciò che invece non lo era affatto. E non solo. Il racconto autobiografico diventa anche il nodo e lo stimolo in grado di tener stretto il legame tra se stessi e il tempo presente, il tempo della collettività, vertiginosamente più cruciale e rilevante di una singola carriera sportiva. Lo sport, nel suo patto implicito, come sosteneva Perec in esergo, induce atleti e operatori a ovattare il contesto lavorativo in cui opera, colpevolizza distrazioni creative e politiche, favorisce – in ottica performativa – esistenze a-critiche e dunque desoggettivate.

Ho scoperto il pensiero di Bruna Peyrot nel ciclo di puntate dal titolo La Cura, condotte da Marino Sinibaldi su Radio3. 

Peyrot parla del "diritto all’autobiografia" come base di costruzione di cittadinanza. 

"Saper riconoscere, capire e narrare la propria biografia, le fasi che definiscono la traiettoria esistenziale di ognuno, è diventato un’emergenza sociale, necessaria e drammaticamente difficile. Esiste oggi, infatti, un diritto-bisogno di autobiografia e un diritto-dovere civico alla sua educazione. Saper narrare la propria storia di vita non è più un gesto spontaneo. La contemporaneità risucchia le storie oltre che la Storia. Capire ed elaborare il passato, rendersi capaci di raccontarlo e lasciarsene ispirare per approfondire il presente come suo possibile risultato è considerato superfluo e inutile."

Il valore dell’autobiografia – ovvero la capacità di saper tradurre le proprie esperienze e ricostruire il proprio intimo – è dunque un posizionamento oltre che una forma di cura: la memoria biografica insieme alla capacità di trasformarsi in archivio vivente del proprio vissuto scavano la traccia di ciò che si è, in senso personale e in senso politico.

Luca Vettori, classe 1991, è un ex giocatore della nazionale di pallavolo.

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