Imm'

26 Maggio 2015

Imm’ è una collana che intende occuparsi di cultura dell’immagine perché si basa sull’assunto di partenza che l’immagine non è solo un oggetto di studio, ma influisce sugli strumenti e i modi con cui si fa cultura. Quando Lazslo Moholy-Nagy lanciò, ormai novant’anni fa, il famoso monito secondo cui l’analfabeta di domani – per noi dunque di oggi – non sarà chi non sa leggere la scrittura ma chi non sa decifrare le immagini, profetizzava la società dell’immagine, come oggi la chiamiamo abitualmente, ma anche la necessità di un’altra “lettura”. Da qualche parte la chiamano “svolta iconica”, da altre parti “cultura visuale”, secondo approcci e intenti diversi. Per noi è un modo di guardare, di vedere e di pensare.

 

L’immagine è infatti un fenomeno complesso, viene trattata come un documento, come se questo fosse un fatto scontato, ma al tempo stesso l’immagine non rappresenta, non sta al posto di altro, non testimonia, ma indica, lascia intravedere, deforma, porta al limite, introduce pensiero, svela lo sguardo, si stacca dal reale come un profumo, uno spettro, un desiderio, come un enigma. Richiede così un supplemento di attenzione alle sue opacità, ripetizioni, raggiri.

 

Partiamo da questo tipo e idea di immagine, erede del travaglio intellettuale e artistico del XX secolo, not straigh appunto, in un senso tutto da indagare, naturalmente. Chiediamoci che cosa è cambiato – anche il cambiamento è e ha un’immagine – e che concezione dell’immagine risponde meglio all’oggi. “Storia dell’arte”, “cultura visuale”, “filosofia dell’immagine”, “dopo l’immagine”: che cosa significano? Il “campo allargato” dell’immagine, per parafrasare la fortunata espressione coniata da Rosalind Krauss, non comporta un diverso approccio, un diverso osservatore, un diverso creatore? Sono molte questioni, apparentemente troppe e troppo vaste, ma in realtà legate le une alle altre. Questioni di fondo, ma anche di superficie, se ci si permette il gioco di parole. Chi non è interessato a tutto questo oggi, oltre che a una sua parte? Chi ha ancora paura della “contemporaneità”? Chi ha paura di non essere “a fuoco”? Not straight significa allora qui non puro, non diretto, non tutto a fuoco, non evidente, perché allo straight non si contrappone lo sfocato, il contorto, l’incerto, ma l’attenzione alla differenza, allo scarto, alla faglia tra ciò che lo sguardo intende e ciò che dall’immagine ci guarda.

 

Luca Pancrazzi, Fuori registro (serie pittorica), 2008

 

Il volume raccoglie riflessioni e interventi diversi, che affrontano le questioni sotto diversi punti di vista e modalità. Si noterà subito che ai testi si alternano anche interventi di artisti visivi, con o senza testi di accompagnamento, nella loro autonomia, sullo stesso piano “teorico” dei saggi, che a loro volta integrano immagini non a titolo di pura illustrazione ma in una dialettica che si propone più costruttiva. Tra gli uni e gli altri, inoltre, altri fili si ritrovano e si intrecciano, come si vedrà.

 

La fotografia è al centro dei primi testi. Iniziamo con il testo di Giorgio Franck che pare programmaticamente riprendere, per così dire, quello che appare a molti come un inizio, ovvero La camera chiara di Roland Barthes, come punto di partenza per riconsiderare la “trasformazione dello sguardo” attraverso lo stupore, che solo “è in grado di dare forza e rilievo al mero fatto [della registrazione], di risvegliarlo dalla sua inerzia, di farlo avvenire, di sottrarlo alla sua fissità”, che rende lo sguardo “selvaggio”, unico, scrive Franck, in grado di far fronte all’“intrattabile realtà” e all’inesorabilità della morte “asimbolica”. Le immagini che accompagnano il testo di Franck, non direttamente illustrative, se non della “presenza che guarda colui che la guarda”, evocano sguardi che bucano, che fanno fronte, forse addirittura sfidano la pretesa della documentazione.

 

Cristophe Bailly va ancora più in là, non esitando a indicare nell’enigma di certi segni “fluttuanti” la vera lingua attraverso la quale, “senza che sappiamo subito quello che ci dicono, noi intuiamo che il reale parli o almeno quella che ci rivolge personalmente”. Dentro il documento stesso quale la fotografia inevitabilmente è, mediante indizi sparsi e secondo i movimenti della memoria, Bailly intraprende un percorso che assomiglia in tutto a quello che le stesse immagini che ha scelto rappresentano – da un anonimo paesaggio urbano di Waldemar Deonna ad altri ancor più indecidibili di Bernard Plossu, Jean-Marc Bustamante e Jeff Wall –, non verso una meta stabilita e nota, ma, dentro il “gigantesco romanzo finzionale” che la vita è, verso una zona, buia o lucente, che è il mondo “esattamente come è quando non abbiamo nulla da fargli dire, da fargli confessare”, verso “l’enigma del visibile” che “mette in vibrazione il senso”.

 

Se per Bailly l’immagine reinventa il reale per dargli tutta “la risonanza di finzione di cui è portatore”, per Riccardo Panattoni l’immagine, la fotografia stessa, è “già impressa nella realtà, basta vederla in sovrapposizione con il proprio sguardo”, ma per farlo occorre avere gli occhi di un artista, cioè di uno che vede che tale sovrapposizione, “restituendoci l’accidentalità sorprendente dell’incontro” tra le due. Questi occhi fotografici che, ricostruisce Panattoni, partono da un errore che non è neanch’esso uno qualsiasi ma è primario, intrinseco nell’atto creativo stesso, quello che Antonin Artaud ha esposto nelle sue famose lettere a Jacques Rivière come mancanza essenziale di sé alla propria opera, diventano “errore perfetto” con il ready-made duchampiano e la sua versione warholiana, che l’hanno ricondotto alla coincidenza proprio nell’esperienza visiva. Per questi occhi una fotografia è sempre già fotografia di una fotografia, ma non senza passare attraverso un lampo che irrompe e al tempo stesso rivela la sfasature tra le due immagini e le lega insieme “una per sempre sovrapposta all’altra”.

Questo stesso lampo è il soggetto stesso delle Foto dal parabrezza di Luca Pancrazzi, quello che solitamente ce le fa scartare e diventa invece in lui quell’“errore perfetto” che dà vita a un’immagine altra. Anche questa rivela e lega insieme, in particolare le due lenti, quella della macchina fotografica e quella del finestrino, ma anche l’interno e l’esterno, il movimento e la stasi, il lontano e il vicino... Ma soprattutto: cosa vediamo ora “nell’immagine”?

 

Jeff Wall, Untangling, 1994

 

Leeanne Minter ci fa ritrovare tutto questo in un film che più straight non si potrebbe, tanto che contiene il termine nel suo titolo originale The straight story (tradotto in italiano, quasi un lapsus, con Una storia vera) di David Lynch. Di nuovo, come l’enigma nello stile documentario in Bailly e la coincidenza nell’errore in Panattoni, il not straight nello straight. È di nuovo la realtà stessa a mostrarsi come mistero nell’immagine. Ancora una volta c’è un incidente, ci sono incontri, ci sono rovesciamenti, ma la chiave è proprio nel mostrare, “mostrare più che narrare”, ovvero nel mostrare, come fa qui Lynch, “l’evento senza mostrare l’accaduto”, “ecco il mistero dell’immagine”, afferma Minter. Perché l’immagine chiara di Lynch qui non è documento ma “immagine ottica pura”, secondo la dizione di Gilles Deleuze, così come l’evento non è l’accadimento, ma il mistero appunto, che è la “storia vera”. Quale mistero? Una “storia d’amore”, cioè del “tempo che resta, su tutto ciò che sopravanza il tempo lineare”, “tutto ciò che resta di quello che viviamo: la verità dei nostri vissuti”.

 

Il vissuto, la singolarità biografica, l’emozione, la piega affettiva sono altri caratteri che tornano nei testi di questo volume, ne parlerà Barbara Grespi in termini di empatia e “sentire fusionale”, mentre Michelangelo Frammartino titolerà il suo intervento al “sentimento oceanico”. Fabien Danesi, da parte sua, la definisce senza mezzi termini – ovvero con termini oggi pretesi da molti come desueti – “bellezza esplosiva degli affetti”. Al centro del testo è la videoinstallazione di Ange Leccia Logical Song e al centro c’è la domanda, espressa appunto dal ritornello della canzone della band Supertramp da cui è preso il titolo, “Per favore dimmi chi sono”, dimmelo tu, cioè, che io non posso saperlo da me stesso. È questa la “logica” della “canzone”. La videoinstallazione di Leccia è un “montaggio” a più schermi, quindi spaziale oltre che temporale, di suoi video vari con cui rielabora – riconfigura dice Danesi – una sua ricerca biografica di identità insieme artistica e personale. Immagini liquide, dice Danesi, come “materia vivente mossa da molteplici forze contrastanti, [...] violenza esplosiva e dolcezza sensuale”. Ne risulta una vera e propria “estetica affettiva”, che non solo ha negli affetti il principio regolativo, oggi si dice il medium, ma che “mostra un dominio dell’universo simbolico nella sua capacità di eludere le aspettative di contenuto proprie delle interpretazioni”.

 

Sono ipotesi teorico-estetiche che cercano in tutti i modi le peculiarità del visivo, che è il fulcro della ricerca di Imm’: cultura dell’immagine, ribadiamo, non solo perché ha l’immagine in tute le sue manifestazioni come oggetto, ma perché pensiamo che avere l’immagine come oggetto comporti un cambiamento di approccio, di strumentazione, di scrittura, di pensiero. Per questo, dicevamo, non solo le immagini nel volume costruiscono altri fili e rimandi tra di loro, come i testi e intrecciandosi tra i testi, ma gli interventi degli artisti sono messi sullo stesso piano degli interventi scritti, come veri e propri saggi visivi. Così la sintesi per immagini, per frame e disegni originali, della cineinstallazione Alberi di Michelangelo Frammartino anticipa il testo di Barbara Grespi che ne riprende il nucleo tematico per farlo proprio, farne cioè un’idea, oltre che un tema, del cinema. La nozione di mimetismo cioè sostituisce quella di mimesi per “un cinema che si installa nel mondo”, invece che rappresentarlo. Così la facoltà mimetica, il pensiero animista, il sentire fusionale diventano le molle di una “liberazione dello sguardo” che “lo straight in sé non permette”.

 

Di mimetismo parla anche Elio Grazioli nel suo testo incentrato su un’opera in corso di Joan Fontcuberta, che ha rifotografato immagini mangiucchiate da lumache nella sua cassetta della posta. Dopo la sua fauna inventata, in cui vero e falso convivono in storie inventate ad arte e dove la nostra fiducia nella fotografia come documento probante è sottoposta alla prova del fantastico, questo artista è passato ad animali veri che intervengono direttamente sulle immagini. Le immagini dunque sono “nutrienti”? Mentre rifotografare significa per Fontcuberta aprire una discussione sull’autorialità – le nuove immagini sono opera sua o delle lumache? – al tempo stesso noi ci chiediamo se queste ultime hanno magari un senso estetico, e d’altro canto se siano animali scelti a caso o, qui potremmo dire, “sorprendentemente incontrati” per destino dell’arte.

 

Se il mimetismo, ma un po’ tutti concetti chiave di questi testi, invita all’attenzione alle differenze sottili, Emanuela De Cecco da parte sua individua una “linea sottile” dell’arte recente, composta da artisti che hanno svuotato il più possibile le opere di presenza concreta, materiale. A partire naturalmente dal famoso Silenzio di John Cage, fino alle performance più svuotate di azione, De Cecco non decanta l’assenza o la rinuncia all’immagine, per non dire addirittura l’iconoclastia, ma al contrario richiama a “forme di partecipazione altre” rispetto al non casuale richiamo a essere sempre collegati della società attuale. Allora la quasi invisibilità o quasi inattività diventano occasioni di “visualità espansa” e di sottolineatura della “centralità dell’esperienza”.

 

Michelangelo Frammartino, Alberi (still da video), 2013

 

Memoria e mimetismo sono al centro dell’intervento di Christelle Lheureux, artista che da anni lavora sul rapporto tra immagine e testo e tra immagine e altre immagini. Qui anzi, come indicato dal titolo Non ricordo il titolo (Il mattino dello stesso giorno), è l’oblio a fare da rivelatore di questa differenza – di questa “piega”, come dice il nostro sottotitolo – interna a un “mattino dello stesso giorno”. Qui a sovrapporsi sono Stromboli di Roberto Rossellini, ma anche L’avventura di Michelangelo Antonioni e L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, e poi Ingrid Bergman e Marcello Mastroianni e le immagini di Lheureux e lui e lei e forse altro ancora, il tutto in un fumo che mescola tutto in un’atmosfera di sogno.

 

Chiude il volume il saggio di Federico Leoni che, su una contrapposizione euristica del bricoleur all’ingegnere mediata da Claude Lévi-Strauss, giunge alle conclusioni più radicali: “ogni immagine è, in quanto immagine, not straight” e not straight finisce con l’essere niente meno che il nome sostitutivo attuale del “dio” di Aristotele. A tali conclusioni si giunge per valorizzazione di una “linea indiretta, tortuosa, misteriosa” che sa mettere insieme materiali eterocliti e adattarsi alla strumentazione altrettanto occasionale di cui si trova a disporre – la strategia del bricoleur appunto – e che descrive un sapere magari “ibrido e bastardo”, un progetto “spurio e intermedio”, ma creativa e rispondente alla realtà, una realtà, conclude anche Leoni, in cui “tutto è già secondo e solo secondo”.

 

 

 

Il primo libro della collana Imm’: Not straight. Documento, piega, inganno, a cura di Elio Grazioli e Riccardo Panattoni, Moretti & Vitali editore, Bergamo 2015.

 

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