Vedere. Uno sguardo infinito
Luigi Ghirri ha fatto scuola, non c’è niente da dire. Le sue immagini, proprio per la loro forza convincente, sono diventate “icone” – come stigmatizza la sezione più importante della mostra partita dal Maxxi di Roma e che torna come uno dei grandi eventi di questa nona edizione di “Fotografia Europea” – e hanno ispirato fotografi che ne hanno sviluppato gli spunti in molteplici direzioni; il suo sguardo, il suo processo di lavoro, le sue “carezze fatte al mondo” – come dicevano lui e Gianni Celati delle fotografie di Walker Evans –, la sua “metafisica” italiana, le sue tematiche ricorrenti sono diventati delle cifre riconoscibili che hanno aperto vie che altri hanno voluto seguire; il suo progetto di “nuovo paesaggio italiano” e la sua stessa posizione di lateralità – Italia ai lati è uno dei suoi titoli più famosi –, di equilibrio tra le agitazioni delle avanguardie e la passione degli amatori, la sua sicurezza anche, che molti suoi scatti presuppongono, hanno inciso nel modo di voler essere di molti fotografi. Ghirri ha rappresentato, personificato, in senso forte, tutto questo e molto altro. Ma perché ribadirlo oggi? Perché è realmente molto sentito di nuovo oggi?
Perché oltre a tutti gli aspetti che abbiamo elencato di lui e della sua opera, tutti tornati attuali, a noi interessa in modo particolare il fatto che oggi si possa forse interpretare il suo “pensare per immagini” – la sintesi più nota del suo percorso e il titolo della mostra a lui dedicata – come qualcosa che si avvicina a quello che potremmo indicare come un “puramente visivo”, un annuncio di una versione del “pictorial turn”, della “svolta iconica”, per noi nel solco e con qualità di sintesi di quanto “Fotografia Europea” ha cercato di rintracciare e delineare in tutte le sue edizioni.
Pensare per immagini significa allora che anche il pensare non è più lo stesso, perché non possiamo limitarci alla ricerca e alla codifica di una grammatica della visione, ma siamo chiamati ad aprirci a un visivo, dove le immagini non si limitano a provocare pensieri, ma li evidenziano nella loro autonomia, li svolgono e li organizzano in modo diverso dalle parole. Significa soprattutto che tra pensare e vedere non vi è un legame scontato, un diretto passaggio dall’uno all’altro, quanto piuttosto uno scarto, una sospensione, una diacronia, che declina in tutta la loro peculiarità quelle che chiamiamo “immagini”. Le fotografie ci fanno vedere cose mai viste, ce le fanno vedere diversamente, ci fanno vedere ciò che gli altri di solito non notano o in un modo che abitualmente non immaginano, ma soprattutto ci fanno vedere nel senso di un invito a guardare, a disporsi allo sguardo, a lasciare che lo sguardo guardi per noi, che colga ciò che l’immagine ha di peculiare, di intraducibile, di incolmabile e di come venga a far parte della nostra mente, della nostra memoria, come del mondo che viviamo.
È proprio la nascita della fotografia ad averci insegnato tutto questo, a farci vedere il mondo come il punto sorgente delle immagini e a guardarlo con cura, a trovare il risvolto etico dello sguardo. La fotografia non si limita infatti a immobilizzare lo sguardo, ma lo trattiene restituendogli un movimento, un controtempo che lo assorbe in se stesso e lo restituisce all’incanto della sua visione. Immagini che rivelano l’infinità del mondo e l’infinità interna dello sguardo. Il tutto riflesso, per un attimo senza fine, nei nostri occhi, che si fanno specchio del mondo.
Per chiarire e articolare questo percorso abbiamo diviso gli interventi in sezioni all’insegna di alcune delle tematiche chiave e abbiamo intercalato tali sezioni con una sequenza di testi, in parte “storici”, per così dire, cioè non recenti e di autori di riferimento per la riflessione sulla fotografia e sul visivo, e in parte, come per ogni edizione, commissionati per l’occasione, costruendo un crescendo – una sorta di “narrazione” saggistica – che ci accompagna al tema principale facendocene immergere. Così siamo partiti da Ghirri anche richiamando un suo testo, uno degli ultimi, che fa un po’ da punto di partenza, accostato all’omaggio del tutto particolare – d’artista, e composto di testo e immagini – di Claudio Parmiggiani. John Berger e Claude Lemagny sono due punti di riferimento per chiunque voglia entrare nella questione, concreto e determinato il primo, estremo e metafisico il secondo. Ad essi abbiamo voluto far seguire, avvalendoci di un testo di Patrick Talbot, una riflessione sulla contemplazione, cioè, comunque la si voglia intendere, per noi sulla concentrazione nella visione indispensabile per dare all’immagine la sua peculiarità. Joan Fontcuberta e Riccardo Panattoni entrano decisamente in argomento da due punti di vista del tutto diversi, uno di un artista che ha sempre accompagnato il suo percorso con una fitta serie di riflessioni teoriche, l’altro di un filosofo che ha messo l’immagine al centro del suo pensiero, o meglio “questo incontro fatale tra sguardo e immagine che mette in atto un nodo di anacronismi”, come lo definisce. Riprende in chiusura un poeta, Francesco Scarabicchi, secondo una visione ancora diversa. “Come ci parla un’immagine? Attraverso quale ‘voce’ si rivolge al nostro ascolto ottico, oltre che nel silenzio che si fa eloquenza senza bisogno alcuno d’essere detta?”, chiede quest’ultimo. E ancora: “Ogni immagine ha un confine che la definisce e la limita, ogni immagine ha una regola. Quale la sua grammatica, quale la sua sintassi? In quel “fissarla” c’è un oltre?”
Le sezioni sono scandite da una serie di verbi che costruiscono il percorso. Il primo è “Sfogliare” e si riferisce alla ripresa del libro come forma di espressione, ancorché come puro contenitore, in ambito fotografico. Diventato ormai duttile ed economico come le tecnologie che gli hanno fatto concorrenza, il libro offre però una forma più conclusa, una materialità più gratificante, una chiarezza più consapevole di quanto offra la Rete, a cui torna a fare concorrenza in senso estetico. Elio Grazioli ha curato un’ampia scelta di pubblicazione recenti in cui questi caratteri del libro come “forma” sono impiegati in modo da mettere in evidenza i caratteri peculiari di un modo di raccogliere le immagini che è tutto visivo.
“Collezionare”, secondo verbo, è un paradigma di tale modo di tenere insieme le immagini, così come le cose, non per riempire programmi prestabiliti ma facendo crescere su se stessa la raccolta, facendole prendere senso nuovo da ogni nuovo apporto, diramandosi a rete e creando rimandi, collegamenti, contrasti, salti tra le sue parti. Partiamo con una collezione davvero particolare che ci viene dalla Finlandia, di cartoline fotografiche dal sapore del tutto surreale, presentata da Harri Kalha, e proseguiamo con una selezione dalla collezione Fotografis Bank Austria curata da Walter Guadagnini, per chiudere con un doveroso accostamento alla nostra collezione, cioè di “Fotografia Europea”, presentata da Laura Gasparini. È infatti questa l’occasione, visto il tema, per ribadire che tutto il nostro modo di procedere negli anni e nelle edizioni precedenti è stato guidato così da quello che qui cerchiamo di indicare come “pensiero visivo”, sia dall’idea che tutte le partecipazioni, anche se non tutte hanno lasciato traccia concreta nella collezione, noi le vediamo come un grande insieme pieno di rimandi e ricco di percorsi, un cielo in cui si disegnano costellazioni varie, disomogeneo secondo alcuni criteri ma tutto collegato secondo altri che ci siamo sforzati di indicare di mano in mano.
Il terzo verbo è “Trasfigurare” e indica il modo in cui il visivo agisce sull’oggettività presunta della rappresentazione fotografica. La fotografia che pensa visivamente trasfigura il reale, mira cioè a mostrarcelo diversamente come puramente appare, secondo modalità diverse, naturalmente. Così Sarah Moon ha fotografato i reperti dei Musei Civici di Reggio Emilia secondo “una visione poetica, un modo di guardare il mondo con infinito stupore”, come scrive Laura Serani; o Silvia Camporesi – che si è recata sull’isola di Pianosa su committenza di “Fotografia Europea” –, di cui Marinella Paderni scrive: “Vedere è un movimento che dice molto sulla coscienza di sé e del proprio fare quando è aiutato da un dispositivo come la fotografia che cattura, intercetta, rivela i gesti, i pensieri e le credenze. Nella rappresentazione fotografica di un paesaggio avviene sempre un rispecchiamento continuo, un gioco di sguardi tra il fare e il vedere quello che si fa, il guardare l’agire e il ri-vedere i segni che l’agire produce”. Del progetto Wild Window di Andrea Ferrari, da parte sua, Walter Guadagnini mette in evidenza: “se vi è un elemento che caratterizza questa serie, al di là delle sue specifiche evidenze iconografiche, è proprio questo suo rimandare a una condizione originaria di rapporto col mondo, quella condizione di predisposizione alla sorpresa, all'essere parte di un meccanismo di incanti non spiegabile razionalmente”.
La quarta sezione è all’insegna del verbo “Narrare”. C’è infatti un modo di narrare verbale e uno visivo diverso. Le immagini ferme, fotografiche, stanno insieme diversamente dalle parole e dalle immagini in movimento, sono ognuna staccata dalle altre, si dispongono diversamente sulla superficie, si connettono diversamente tra loro, contengono una narrazione anche interna. I tre esempi scelti costituiscono un crescendo da questo punto di vista, dalla narrazione più propriamente visiva, fatta di rimandi, accenni, salti, spostamenti di Massimiliano Tommaso Rezza – “The Narrow Door è un progetto sulla natura incerta, ambigua e prolifica delle immagini e sul loro potenziale sviluppo a partire da un lavoro tematico ipertrofico che viene nascosto, chiuso in una busta sottovuoto”, scrivono le curatrici Chiara Capodici e Fiorenza Pinna – all’ambiziosa stratificazione di testo, nientemeno che la Bibbia, immagini e cancellazioni di Adam Broomberg e Oliver Chanarin, fino all’apparente completa negazione delle immagini nere di Simone Bergantini, immagini in realtà dello schermo spento dell’Ipad che però rende allora visibili le impronte delle dita che prima hanno “narrato”.
Infine si chiude con la sezione “Ritrovare”. Nella fotografia è insita la dimensione del ritrovamento, della memoria e del recupero, che rimediano a quella di perdita, di nostalgia, di melanconia, come l’ha chiamata Susan Sontag. La fotografia diventa allora un modo “di riflettere e raccontare la perdita”, come scrivono i curatori del progetto Speciale Diciottoventicinque. “Perdere qualcosa per ritrovare altro. Ritrovare per ripartire. Riciclare, fotograficamente parlando, le cose e gli autori che il mondo perde, dimentica o getta”. È il percorso che abbiamo ricostruito: dal recupero della classicità, dell’armonia, della bellezza, aggiungiamo “trasfigurate”, in Herbert List – un altro “omaggio” a un maestro storico di questa edizione di “Fotografia Europea” – alle cose diversamente ritrovate da Paolo Simonazzi da un lato – “Le sue fotografie sono ambientate nei luoghi imprevedibili in cui le cose appaiono inaspettatamente, cariche di significati che si pensavano perduti, mentre i sogni e le illusioni diventano storie da raccontare”, scrive Denis Curtis – e da Speciale Diciottoventicinque dall’altro, per chiudere con un esercizio di rievocazione visiva messo in atto da Marco Belpoliti sulla figura di Annarella, soubrette della band CCCP Fedeli alla Linea.
Una costellazione dunque di verbi, a rivelare in fondo come lo steso sguardo non sia altro che un’azione, un movimento e come le immagini siano la sua interruzione, un intervallo capace di reintrodurre una temporalità virtuale nel tempo cronologico della storia. Una virtualità colma però di effetti reali, di ritorni fantasmatici che ci tolgono l’illusione di sentirci “a casa propria” in ciò che riteniamo di conoscere e ci restituiscono una certa familiarità in ciò che pensiamo di vedere per la prima volta. È l’esperienza di un puro spazio del visivo dove lo sguardo, restituito a se stesso, permane nella staticità infinita del proprio godimento.
Estratto dal catalogo di Fotografia europea 2014 dal 2 maggio a Reggio Emilia