Fontcuberta: il doppio bacio di Giuda
«Contrariamente a quanto la storia ci ha inculcato, la fotografia appartiene all’ambito della finzione molto più che a quello delle evidenze (…) Ciò che conta, però, non è quell’inevitabile menzogna. Ciò che conta è il modo con cui se ne serve il fotografo, con che proposito la usa (…). Il buon fotografo è quello che mente bene la verità» – scrive l’artista, curatore e saggista catalano Joan Fontcuberta, nel suo libro Il bacio di Giuda. Fotografia e verità (Presentazione di Michele Smargiassi, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 178, € 16) proteso a dimostrare quanto la convenzione della fotografia come messaggio evidente e veritiero sia fallace. Ciò che conta davvero, egli sostiene, «è il controllo esercitato dal fotografo per dare una direzione etica» a un medium che non è affatto una traccia fedele e oggettiva della realtà.
Di recente pubblicato finalmente in italiano, ma risalente al 1996, questo libro raccoglieva le sue riflessioni attorno al tema “Réels, fictions, virtuel”. Era questo infatti il titolo che egli scelse per l’edizione del celebre festival di Arles Les Rencontres de la Photographie, di cui fu direttore quell’anno. Il libro uscì in francese in occasione del festival col titolo Le basier de Judas, poi venne pubblicato in spagnolo con due capitoli in più (come nell’attuale edizione italiana). Edizione più che mai benvenuta dato che questo libro è considerato, ormai da anni, un classico della teoria della fotografia. Anche se uscito quando l’universo della fotografia digitale era quasi ai suoi esordi e ben cinque anni prima che il cellulare si trasformasse anche in una fotocamera e in un videoregistratore, è infatti ancora denso di riflessioni non solo attuali ma anche stimolanti. Fontcuberta, oltretutto, ha il dono di una scrittura avvincente e godibile, cosa decisamente non scontata.
Certo molto è cambiato nell’ambito della fotografia, ma – come spiega lo stesso Fontcuberta in un altro suo libro del 2018, La furia delle immagini. Note sulla postfotografia (Einaudi) – il cambiamento si è manifestato soprattutto nell’ambito della sua diffusione e crescita esponenziale, più che nelle sue possibilità di manipolazione, già ampiamente utilizzate fin quasi dai suoi esordi. Già nel 1871, ad esempio, Oscar G. Rejlander aveva creato, ovviamente senza photoshop, un’immagine in cui lo si vedeva contemporaneamente nelle vesti dell’artista e in quelle del soldato (O.G.R l’artista presenta O.G.R. il soldato volontario); mentre, fin dai primi anni del ‘900, circolavano libretti con istruzioni per creare foto con fantasmi, spiritelli e altri inganni visivi…
Quanto a Fontcuberta, già nel 1996, e dunque in anticipo sui tempi, prefigurava come l’uso sempre più massiccio del digitale ci avrebbe portato a non «credere ciecamente nelle nuove immagini elettroniche (…) Le immagini riveleranno il proprio spazio, uno spazio neutro, ambiguo, tanto illusorio, quanto attuale: il vrai-faux, la terra di nessuno tra l’incertezza e l’invenzione». Il che, in verità, non sempre si è rivelato un gran bene. Ormai in parte consapevoli che le immagini siano manipolabili e non più “la matita della natura” (titolo dello storico libro di William Fox Talbot) non è che alla credulità si sia spesso sostituito quel sano, lucido e critico scetticismo propugnato dal nostro autore che – come scrive Michele Smargiassi nella prefazione – ci invita a non «perderci ancora in teorizzazioni sull’essenza del fotografico» per invitarci alla «sfida della gestione politica delle immagini». Una sfida davvero difficile perché in un tempo di continue fake news – e questo mi pare un atteggiamento tipico degli anni recenti – accade spesso che, immersi in un magma ambiguo di vrai-faux, vengano considerate “vere” le immagini che tornano utili a confermare lo spettatore su quello che crede o che gli piace credere, e “fasulle” quelle che vanno contro le sue convinzioni, speranze o aspettative. Una deriva resa ancora più efficace dai meccanismi dei programmi interni ai cellulari che propongono immagini e notizie come in una sorta di supermercato che si adatta e si aggiorna sulla base dei gusti del fruitore captati a seconda dei suoi click.
Mi è sembrato molto significativo in tal senso il clamoroso caso delle uccisioni compiute recentemente in una strada di Bucha, in Ucraina, dall’esercito russo in ritirata. Tali morti sono stati fotografati da vicino e da lontano, da destra a sinistra, di fronte e di retro. Sono stati realizzati video in cui, seguendo la strada, se ne vedevano i corpi inerti, uno dopo l’altro. Ma niente sembrava bastare a convincere gli “scettici”, per i quali quelli erano i corpi viventi di figuranti messi lì apposta; qualcuno li aveva addirittura visti mentre si muovevano… per giunta il sindaco nell’annunciare la liberazione della città non ne aveva subito parlato, quindi erano una bufala. A quelle fotografie tanti non credevano e basta.
Così è stato più volte intervistato il sindaco della città affinché spiegasse come mai lui, nei primi giorni della liberazione di Bucha, non poteva ancora sapere dire nulla di quei morti, perché non ne era ancora stato informato, né poteva averli visti, trovandosi queste povere salme in periferia. Poi sono state diffuse immagini scattate dai droni con tanto di orario esatto della ripresa e corpi morti evidenziati con circoletti. Sono pure state proposte riprese in cui avrebbe dovuto risultare evidente che il tal ciclista era stato colpito dal tal carrarmato. Insomma ci si è messi d’impegno per convincere della veridicità di tali fotografie, di tali informazioni. Con tutta questa mole di documentazione qualche scettico si sarà convinto che quelli non erano attori fasulli di parte ucraina, bensì cittadini inermi ammazzati per rappresaglia dai russi in ritirata?
Avrei qualche perplessità. Il problema è che quegli “scettici”, consapevoli che la fotografia, come dice Fontcuberta, è «come il bacio di Giuda: un amore fasullo venduto per trenta denari», possono benissimo dimostrarsi al tempo stesso dei creduloni rispetto ad altre notizie che si presentano sotto vesti più “astute” e soprattutto più congeniali alla loro ideologia. Per attivare una reale posizione critica, capace di coniugare scetticismo, razionalità e disponibilità a rivedere le proprie posizioni, occorre infatti avere anche profonda passione e viva curiosità per gli argomenti trattati. Passione, curiosità e competenza per la politica e per la storia, fino al punto di rimettere eventualmente in discussione le proprie stesse convinzioni, anche grazie a una buona dose di immaginazione ed empatia. Tutte doti – diciamolo pure – non facili e non proprio alla portata di chiunque, soprattutto in un contesto sociale dove ogni forma di dubbio e non narcisistica affermatività viene visto come un segno di debolezza.
Ma torniamo al libro di Fontcuberta: tutto il suo lavoro artistico e il suo impegno teorico si basa su un preciso programma ideologico ed etico che, di fatto, vede nell’ambiguità, nel non credere ciecamente a ciò che viene mostrato, una possibilità di autonomia riflessiva, di messa in dubbio critica in nome della complessità della verità e del reale. Cosa francamente piuttosto utopica per i più ma che lui, con le sue opere – alcune delle quali raccontate nel libro – riesce a fare emergere egregiamente e sempre con un tocco spiazzante e giocoso. Nel capitolo “La tribù che non è mai esistita” ci racconta di come addirittura il “National Geographic”, nel 1972, prese per buona la notizia fasulla, ma assai ben orchestrata, della scoperta di un gruppo di uomini della foresta – i Tasaday – che nel cuore dell’isola di Mindanao vivevano ancora all’età della pietra e miracolosamente non erano mai entrati in contatto con altri popoli. Ispirato da tale episodio e desideroso di ironizzare sulle non sempre corrette metodologie impiegate dall’antropologia, Fontcuberta decide di impegnarsi in quella che lui definisce «una strategia artistica di controinformazione». Ovvero s’ingegna a immaginare e poi “documentare” con zelo scientifico in una mostra lo sfortunato popolo dei retseh-cor che, stanziato sulle sponde del lago Ontario, sarebbe stato massacrato nelle guerre contro le tribù vicine e gli eserciti coloniali.
L’esposizione di Fontcuberta per funzionare a dovere includeva fotografie degli scavi archeologici, reperti di vario tipo, disegni realizzati su pelli e cortecce d’albero, una bella targa con tutti gli enti e le persone che avevano collaborato all’approfondito progetto e pure un opuscolo perfettamente simile a quelli distribuiti dai musei vicini. Ovviamente il tutto era frutto di una finzione ben congegnata messa in atto dall’autore (il cui nome naturalmente non appariva). L’obbiettivo era quello di far sì che lo spettatore di fronte a tale “impeccabile” ricerca antropologica proiettasse i suoi pregiudizi e i suoi automatismi interpretativi sui popoli “selvaggi”, per poi – scoperto l’inganno – sentirsi spiazzato dal proprio stesso livello di credulità e in fondo di razzismo: dietro l’interesse per i popoli “primitivi” si annida facilmente il piacere di poter affermare la superiorità della nostra invidiabile civiltà occidentale. In quello stesso capitolo, dove pure spiega come le combinazioni manipolatorie della fotografia possano essere quasi infinite, deve però anche ammettere che i fotomontaggi non sempre sono delle vere e proprie falsità. In Galizia, terra di forte emigrazione, per realizzare gli autentici ritratti di famiglia da appendere in bella vista nelle case, il fotografo faceva infatti il ritratto dei membri della famiglia presenti mentre gli assenti mandavano il loro per posta. Con un buon fotomontaggio venivano poi integrati nella composizione del gruppo. «La situazione era falsa ma poteva imporsi senza sforzo perché era vera nella sostanza: autentici erano i protagonisti, autentica era la famiglia, autentici i legami tra i suoi membri; di quella famiglia erano false soltanto le circostanze» – ammette il nostro autore.
Tutto il libro è d’altra parte ricco di riflessioni e notizie su come la fotografia possa ambiguamente oscillare tra verità e menzogna. Come, ad esempio, possa mentire per dire la verità, e l’autore fa l’esempio della celebre serie [Untitled] Fillm Stills di Cindy Sherman: fotografie messe in scena di autoritratti che rifanno il verso a come le donne venivano raccontate e viste nei film. In pratica tutto è costruito come in un set, niente è vero, eppure la sua opera ci dice la verità sul cumulo di cliché con cui veniva rappresentata l’identità femminile alla fine degli anni Settanta. Ma – continua Fontcuberta – si può anche partire da fotografie nate per offrire informazioni oltremodo chiare per poi rovesciarle in qualcosa di ambiguo: è il caso dell’opera Evidence (1977) di Mike Mandel e Larry Sultan che, montando in modo spiazzante e fuori contesto immagini prese da vari laboratori di ricerca, evidenziano solo la propria intrinseca enigmaticità.
O ancora, se prive di informazioni adeguate, possano apparire di significato simile fotografie dotate invece di un senso totalmente diverso: in Messico Graziela Iturbide ritrae una donna con un vistoso copricapo creato con una corona di iguane imbalsamate, e da lei indossato per motivi religiosi legati alla tradizione. Peccato che la sua fotografia sembri erroneamente simile a quelle della serie Peluquerías (ovvero “parrucchiere”) in cui Ouka Leele, negli anni della movida madrilena, aveva ironicamente adornato il capo dei suoi amici con i più diversi animali e oggetti (il tutto dipingendo poi a mano, con colori accesi, le sue giocose e assurde fotografie). A confondere le acque può anche essere inoltre il tempo stesso usato dal fotografo per realizzare le sue immagini: Martí Llorens, tra il 1987 e il 1992 – come racconta Fontcuberta – si impegnò a documentare con precisione la demolizione di una vasta area edilizia, simbolo della rivoluzione industriale ottocentesca di Barcellona, prima che venisse convertita nella sede del Villaggio olimpico. Per fare le sue riprese non solo usò un apparecchio con foro stenopeico, che richiedeva lunghissimi tempi di posa, ma decise anche di ottenere le sue immagini usando come negativo un calotipo di carta, cioè il procedimento in uso tra il 1840 e il 1860, ovvero all’epoca della costruzione di tali complessi di edifici industriali e abitazioni. Il risultato erano immagini sospese in un tempo inafferrabile, dove i muri erano lì, ma semitrasparenti e spettrali, simili a fantasmi al contempo presenti e già crollati. Barcellona perdeva un pezzo della sua storia, si “smaterializzava” e Llorens, rifiutando il modello di precisione visiva all’epoca dominante, riusciva a rendere con le sue immagini imperfette la perfetta testimonianza di una presenza e di una irrevocabile progressiva scomparsa.
Alla base di questo libro c’è il bisogno encomiabile di Fontcuberta di ergersi come «difensore del dubbio», di smascherare i trucchi della menzogna, per insegnarci «a diffidare dei discorsi autoritari, tra i quali trovano un posto privilegiato quelli di certe derive del realismo fotografico». Nato nel 1955 a Barcellona, non bisogna infatti trascurare che egli visse fino ai vent’anni sotto il regime franchista dove le fotografie venivano usate a scopo di propaganda. E, a proposito di autoritarismo, non andrebbe inoltre dimenticato il chiaro discorso in onore della “fotografia veritiera” fatto da Josef Goebbels all’apertura della mostra Die Kamera (Berlino, 1933): «Noi crediamo all’oggettività dell’apparecchio fotografico e siamo scettici rispetto a tutto quello che ci viene comunicato oralmente o tramite la scrittura (…)
Ognuno vuole vedere direttamente e ne ha il diritto grazie all’alto livello dell’arte fotografica e della stampa illustrata. (…) Il nostro moderno occhio artificiale, l’apparecchio fotografico, è il testimone di questa nuova era.» (Olivier Lugon, La photographie en Allemagne. Anthologie de textes (1919-1939), Ed. Jacqueline Chambon, 1997). In opposizione a una Repubblica di Weimar, che sarebbe stata dominata da media scritti e radiofonici, dichiarati fortemente menzogneri e mistificanti, il ministro della propaganda del III Reich, sosteneva la veridicità e la trasparenza del medium fotografico e nel frattempo pubblicizzava la diffusione di apparecchi fotografici di due aziende tedesche leader nel settore: la Zeiss e la Leica (peraltro di fotocamera Leica erano dotati i fotografi dell’esercito nazista). Peccato che lo zelo nazista nel documentare l’impegno a eseguire bene gli ordini impartiti non avesse ben calcolato che la fotografia, nella sua “insana ambiguità” ha anche il pregio o il difetto di produrre esperienze di significato che possono dimostrarsi radicalmente differenti a seconda di chi e di quando le si guarda.
Così una fotografia fatta da una SS nel 1943, s’impegnava a dimostrare come i rastrellamenti nel ghetto di Varsavia venissero eseguiti alla perfezione senza creare rivolte, ma catturando sistematicamente tutti, proprio tutti gli ebrei del ghetto, bambini compresi. Ebbene, questa stessa fotografia scattata in origine per dimostrare ed esaltare la scientifica, scrupolosa efficienza delle SS, ha in seguito finito paradossalmente col raccontare e sottolineare, senza ombra di dubbio, tutto l’orrore nazista. Il bambino indifeso di quella fotografia, con le mani alzate e l’aria spaventata, è infatti divenuto il simbolo inconfutabile del terrore hitleriano con la sua totale assenza di pietà e umanità. Se non vogliamo ignorare le modalità con cui la fotografia agisce – tema che attraversa tutto il libro di Fontcuberta – dovremmo forse aggiungere che non solo il «buon fotografo è quello che mente bene la verità», ma che la verità stessa può cambiare di segno, può rovesciarsi e assumere altri significati a seconda del contesto e di chi guarda. Il “bacio di Giuda” della fotografia può insomma risultare a propria volta un doppio bacio traditore.
Leggi anche
Elio Grazioli, Fontcuberta. La furia delle immagini