Daniele Tamagni, dandy d’Africa
Fotografie per giocare assieme, per conoscersi, per capirsi. Daniele Tamagni (1975-2017) – a cui ora viene finalmente dedicata l’importante retrospettiva Style is Life a Palazzo Morando (Milano, fino all’1 aprile 2024) – è stato un autore “anomalo” nel panorama della fotografia italiana. Tanto inusitato da fargli vincere sì un’infinità di premi, ma soprattutto all’estero: il Canon Young Photographer Award nel 2007; l’ICP Infinity Award nel 2010, per la categoria Moda; e il World Press Photo Award, nel 2011, con le sue foto delle cholitas boliviane che, con le loro ampie gonnellone svolazzanti, sfidano discriminazioni e divisioni di genere attraverso duri combattimenti di wrestling. Invece di fotografare paesaggi o realizzare reportage sui drammi e i dolori del mondo, come tanti autori preferivano fare, Daniele mescolava moda e reportage sociale per raccontare la cultura degli “altri”, e così girava per il mondo, soprattutto viaggiava in Africa, amata seconda patria. Già la sua prima ricerca, Gentlemen of Bacongo (pubblicata nel 2009 da Trolley Books, casa editrice fondata a Londra nel 2001 dal geniale Gigi Giannuzzi) lo impone talmente all’attenzione che lo stilista Paul Smith non solo gli firma la Prefazione del libro, ma trae anche spunto dalle sue foto per la collezione di abiti maschili della primavera-estate 2010. In controtendenza e in anticipo sui tempi, Daniele infatti racconta la vitalità e la creatività e l’eleganza stilistica dell’Africa, astenendosi dal fotografare il solito bambino nero, con la pancia gonfia e una mosca sull’occhio.
«Daniele ha intrapreso una missione per dimostrare quanto ricco sia il continente africano in termini di diversità e storie ancora non narrate. Si è deliberatamente concentrato su individui ai margini della società, su coloro che aprono la strada ai loro viaggi unici», racconta l’affascinante co-curatrice etiope della mostra, Aïda Muluneh, che, assieme a Chiara Bardelli Nonino, ha scovato nell’archivio di questo fotografo, purtroppo scomparso a soli 42 anni, anche molte fantastiche immagini inedite. Fotografie che, assieme a quelle più iconiche e già note, compongono ora una mostra ipercolorata, all’insegna della vitalità africana e del bisogno di esprimere una libertà faticosamente conquistata. Ci sono i metallari del Botswana, con le loro borchie esibite e il look aggressivo; i giovani di Johannesburg – born free, perché nati dopo l’apartheid – vestiti a metà via tra innovazione e tradizione; la Fashion Week di Dakar, osservata da dietro le quinte e nei suoi momenti più scenografici, con alcune magnifiche ragazze nere che poi diventeranno top model in Europa; e vediamo pure un magnifico ritratto della cantautrice e star americana Solange Knowles; e pure le prime fotografie di Daniele, scattate da lui a Cuba. Immagini, queste ultime, che faranno comprendere al padre, Giordano Tamagni, come il giovane Daniele avesse buone speranze nel mondo della foto. Perché questo suo figlio – certo colto (aveva un Master in Storia dell’Arte conseguito all’Università Cattolica di Milano), ma pure introverso e “complicato” – mostrava ai suoi occhi una vocazione che non andava soffocata. Da un certo punto di vista, infatti, poteva sembrare, a chi lo incontrava per la prima volta, come una sorta di “pulcino nero”, con molte difficoltà nei rapporti interpersonali. Ma bastava parlargli un po’ per accorgersi della sua grande umanità, tenacia, passione ed energia creativa. E soprattutto sapeva trasformarsi, con la macchina fotografica, in una persona capace di stabilire relazioni di complicità con chiunque, entrando nelle situazioni più disparate e imprevedibili, dedicando tutto se stesso a quel che vedeva e all’umanità che lo circondava.
Ma torniamo a quel suo primo lavoro, Gentlemen of Bacongo, che gli diede finalmente approvazioni e notorietà. Daniele ritrae, con maestria impareggiabile e coinvolgimento profondissimo, la moda di strada dei cosiddetti sapeurs: gentlemen congolesi capaci di reinventare la moda occidentale e le regole dell’eleganza nel nome del colore, personaggi straordinari, in grado di trasformare il loro lussuoso ed eccentrico modo di vestire in un codice di comportamento, in una filosofia che si fa anche gesto politico. In Congo l’eleganza s’identifica infatti con la Sape (Société des Ambienceurs et des Personnes Elégantes, “Società di persone eleganti che fanno ambiente”): un fenomeno sociale nato nel quartiere di Bacongo, a Brazzaville, ancora in epoca coloniale, e poi diffuso a Kinshasa come forma di opposizione politica e culturale alla dittatura del generale Mobutu, il quale, in nome di un obbligatorio ritorno “all’autenticità congolese”, aveva anche vietato di vestirsi all’occidentale. Per i sapeurs, essere super-eleganti, vestiti letteralmente dalla testa ai piedi con cappelli, abiti e scarpe con marchio ben in vista di noti stilisti francesi e italiani, diventa un gesto di libertà e un’arte di vivere che si esprime attraverso il corpo e lo stile. Ma è anche un modo per suscitare rispetto e ammirazione tra la gente del quartiere, che li invita a esibirsi, coi loro tipici passi danzanti e le loro pose studiate e fantasiose, in sfilate o in occasione di feste e matrimoni.
Come racconta Alain Mabanckou, «Il loro segreto è il portamento, grazie al quale qualsiasi abito indossato da un sapeur guadagna immediatamente un’altra dimensione. Non è l’abito che fa il sapeur, è più che altro una questione di tocco personale che si apprende durante una lunga osservazione. Osservazione che obbedisce anch’essa a certi rituali. Per questo il congolese si riferisce alla Sape come a una religione, la famosa religion ya kitendi (religione del tessuto)». Un culto estetico, dunque, ma con valenze anche comportamentali e spirituali, dove stupire gli altri è un “comandamento” di rigore, ma dove bisogna soprattutto conoscere la “trilogia dei colori” (che non devono mai essere più di tre in un completo), e pure rispettare regole precise. Come recita la “Preghiera del Sapeur”: “non sarai razzista, discriminatorio, né tribalista; non sarai violento né insolente”.
Daniele Tamagni racconta, senza mai giudicarlo, questo movimento ricco di contraddizioni e paradossi, dove persone semplici, che spendono fortune per abbigliarsi, vivono in quartieri poveri ma sono vestite in modo eccentrico e raffinato. In fondo sono uomini (e solo in parte donne) capaci di trasformare il loro eccentrico e talvolta lussuoso modo di vestire in un gesto di orgoglio e di gioia di vivere in un paese complesso e spesso difficile. «L’Africa quotidiana è fatta anche di speranza: le mie foto sono un inno alla vita» scrive lo stesso Daniele.
Le sue inquadrature sanno isolare dettagli: il sigaro o la pipa tra le labbra, il colore dei calzini, le scarpe iperlucidate prima di uscire tra le strade polverose del quartiere, il tocco raffinato del fazzolettino nel taschino della giacca in pendant con il colore della camicia o con quello della cravatta. Le sue immagini colgono l’importanza dei gesti e dei portamenti; sottolineano la relazione tra le persone e gli ambienti in cui vivono; e costruiscono così una narrazione che ha il ritmo intenso della rumba congolese.
Daniele dunque non racconta i sapeurs con lo sguardo freddo di un antropologo vecchio stampo, o di una persona esterna per quanto di fiducia, ma diventa un po’ un sapeur pure lui. Osserva, ma anche prende parte alla vita di Jean Claude Mouzieto, fedele alla religione di Grenard Matsoua, che lottò per la libertà dal potere coloniale e primo grande sapeur; di Lamame, detto il “parigino” per la sua passione della moda made in France; del cappellano militare Chalereux, fotografato nel suo salotto in tre versioni trasformiste: in divisa militare, in stile casual “all’americana” e naturalmente da sapeur con completo a righe bianche e rosa… All’opposto di Henri Cartier-Bresson – che fotografava à la sauvette, cioè rendendosi invisibile – gli scatti di Daniele Tamagni non sono “rubati”, non “colgono di sorpresa” nessuno, perché nascono da un gioco fatto insieme, privo di giudizi e pregiudizi. La sua non è una semplice osservazione partecipe, ma qualcosa di più: una partecipazione osservante. Intime e forti, le immagini di Tamagni scompaginano le carte di una logica fotografica basata sulla differenza tra osservatore e osservato, tra chi guarda e chi è visto. Nascono da un terreno d’esperienza basato sull’incontro reciproco, sorgono da un desiderio di conoscenza che è autentico co-sentire, capacità di mettersi in gioco e accogliere la voce degli altri, per amplificarla e tradurla in immagini. E magari, anche, ridere assieme con complicità.
Daniele Tamagni, Style is Life
a cura di Aïda Muluneh e Chiara Bardelli Nonino
Palazzo Morando/Costume Moda Immagine, via Sant’Andrea 6, Milano, fino all’1 aprile 2024
Catalogo Kehrer Verlag, pp. 256, € 58 Euro, testi in inglese e italiano.