Le piante ci osservano
«Su queste terre viveva un tempo il popolo dei bamiléké…». Chi ci racconta questa storia del lontano Camerun? Nessun essere umano, bensì due alberi di chinino che si scambiano silenziosamente i loro ricordi di migrazione dal Perù per venire trapiantati dai colonizzatori in Africa, poi sfruttati e usati come farmaco per la malaria, oltre che come componenti di tonici e aperitivi. Tale rilettura della storia dal punto di vista di due piante (una sfida all’antropocentrismo dominante nella rappresentazione della vita vegetale) la troviamo nel video del giovane artista Samir Laghouati-Rashwan, che ha dato vita a questo dialogo impossibile scavando negli archivi di botanica ma anche ascoltando la storia del nonno di un suo amico, coltivatore di chinino in Camerun. Dunque la vicenda che le due piante si raccontano è vera, o quantomeno verosimile; ma non basta, perché nel video tali piante parlanti sono state a loro volta riprodotte in 3D, a partire da immagini che l’autore ha reperito su internet e album illustrati… Scienza o finzione, o entrambe? Da tale interrogativo nasce il titolo della mostra Science/Fiction — A Non-History of Plants (MEP – Maison Européenne de la Photographie, Parigi, fino al 19.01.2025, catalogo Spector Books, Leipzig, 2024) curata da Clothilde Morette e Victoria Aresheva, rispettivamente direttrice artistica e curatrice della MEP. Le storie proposte, non centrate sull'idea di progresso e modernità, si spingono oltre una visione antropocentrica del mondo, per dare alle piante un posto e una voce; in altri termini, si liberano da categorie fisse così da catturare la complessità della vita vegetale e le nostre relazioni con le piante. Mettendo in discussione le proiezioni e le consuete rappresentazioni con cui ci raffiguriamo il “regno vegetale”, questa mostra integra narrazioni scientifiche, finzione e fantascienza come via per creare nuove immaginazioni e conoscenze attraverso opere fotografiche e video, installazioni ma anche collage e arti multimediali, grazie al contributo di quaranta artisti di epoche e nazionalità diverse.
Che cosa sappiamo davvero sulle piante, si sono chieste le curatrici? Nella nostra miopia antropocentrica dell’ecosistema in cui viviamo, sappiamo già poco degli animali, ma ancora meno, davvero molto meno, delle piante che pure ne sono parte integrante. In pratica, lanciamo alti proclami sul dramma del cambiamento climatico, ma poi rimaniamo indifferenti di fronte alla vita o alla morte delle piante che subiscono o determinano questo disastro epocale. Non solo non le percepiamo come soggetti di una loro storia spesso straordinaria, a volte addirittura avventurosa, ma quel poco che conosciamo è spesso tristemente sbagliato. Come scrive Stefano Mancuso: «Siamo convinti che le piante non siano in grado di percepire l’ambiente che le circonda mentre la realtà è che, al contrario, sono più sensibili degli animali. Siamo sicuri che si tratti di un mondo silenzioso, privo della capacità di comunicare e, invece, le piante sono grandi comunicatrici. Siamo certi che non intrattengano nessun tipo di relazione sociale e, viceversa, sono organismi prettamente sociali. Siamo, soprattutto, certissimi che le piante siano immobili», mentre hanno la straordinaria capacità «di spostarsi» (L’incredibile viaggio delle piante, ed. Laterza, 2018).
Di fronte a questa ignoranza e cecità botanica, la mostra della MEP s’interroga sul nostro rapporto con le piante senza pretendere di raccontarci la loro storia, ma con la consapevolezza che, per affrontare i cambiamenti ecologici, è necessario conoscerle più intimamente. Ma come ascoltare questo loro mondo, solo in apparenza “muto”? La via scelta dalle curatrici è stata quella di valorizzare il potere politico dell’immaginazione, per accendere le nostre speranze ed esplorare le nostre paure più intime, fino a scrivere – forse – insieme alle piante stesse, un futuro comune. Il titolo della mostra, Una non-storia delle Piante, sottolinea in modo spiazzante e sottilmente ironico che un simile compito, nelle condizioni attuali, è pressoché inattuabile: un’impossibilità nata dall’assenza di studi adeguati, di attenzione al linguaggio delle piante, alla loro storia plurisecolare. Proviamo a proporre alcuni piccoli esempi significativi: chi mai sa che buona parte delle azalee e delle camelie, lieto ornamento dei nostri giardini con le loro strepitose fioriture, giunsero fino a noi grazie all’inglese Robert Fortune, un cacciatore di piante che le “rapì” in Cina a metà Ottocento? Chi è a conoscenza del fatto che, per il desiderio di avere frutti comodamente belli grossi e senza semi, il 99% delle banane prodotte nel mondo provengono da un’unica varietà, la cultivar Cavendish, cosa che le rende fragili e con il bisogno di essere inondate da anticrittogamici? Senza avere ovviamente la pretesa di raccontarci la storia pressoché sterminata delle piante, la mostra della MEP ci si propone invece come una porta dischiusa su significativi aspetti del mondo vegetale e sull’ambiguo, problematico, inadeguato rapporto che noi umani intratteniamo con esso. L’impostazione della mostra ci permette così di percepire l’“intelligenza delle piante” (come sostenuto dallo studioso Anthony Trewavas), i loro comportamenti sensibili e intenzionali, il loro intreccio con la nostra vita, le emozioni e le paure nascoste che esse ci suscitano, e infine il degrado dell’ecosistema che condividiamo con loro. Concepita in sei “capitoli”, la mostra mutua la sua costruzione dai romanzi di fantascienza: si parte dall'idea rassicurante e fallace di un mondo scientificamente documentabile, stabile e identificabile, e poi ci s’immerge gradualmente in paesaggi incerti, contaminati e inaspettati, addirittura inquietanti e fantascientifici. Andando oltre le divisioni normative tra finzione e realtà, tra scienza e arte, gli artisti presenti si liberano da categorie fisse per catturare la complessità della vita delle piante e le nostre non facili relazioni con gli esseri vegetali.
Ed eccoci così nella prima sala della mostra: Capitolo I “Forme e colori”: qui sono riunite, nella prima parte, opere di autori degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Si era conclusa da poco l’epoca in cui erano i disegnatori a documentare in modo più o meno preciso le piante più belle o curiose disseminate nel mondo (basti pensare agli strepitosi dipinti ottocenteschi dell’avventurosa Marianne North, che riempiono interamente le pareti dell’omonima galleria presso i Royal Botanic Gardens di Kew). Ora invece è la fotografia a essere utilizzata come lo strumento più preciso per indagare le forme vegetali. Così Albert Renger-Patzsch fotografa le piante con la massima precisione ed evidenza (non a caso faceva parte del movimento della Nuova Oggettività) e Laure Albin-Guillot le analizza al microscopio creando immagini al contempo scientifiche e fascinosamente astratte (in origine le presenta in un album dal significativo titolo Micrographie décorative, 1931). Mentre il fotografo Karl Blossfeldt, con la sua ampia e rigorosa ricerca Urformen der Kunst (“Forme originarie dell’arte”, 1928) mostra le gemme delle felci in modo certamente oggettivo; solo che, grazie ai notevoli ingrandimento utilizzati, queste finiscono con l’apparire simili ad affascinanti bastoni pastorali, l’immagine di un cardo rievoca una crociera gotica, e gli equiseti sembrano far germinare antiche colonne. Secondo Walter Benjamin, che considerava Blossfeldt «un uomo in gamba», «queste fotografie schiudono nell’esistenza vegetale un tesoro del tutto inaspettato di analogie e forme. Soltanto la fotografia può farlo. Occorre infatti un forte ingrandimento perché queste forme si tolgano il velo che la nostra pigrizia ha gettato su di esse (…) Da ogni calice e da ogni foglia ci balzano incontro interne necessità iconiche, che hanno sempre l’ultima parola in tutte le fasi e attraverso tutte le metamorfosi del generato» (Novità sui fiori, in Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi, 2012).
Nella seconda parte di questo stesso capitolo I, a scuotere la nostra pigrizia visiva fino a stupirci, ci pensa il breve film Das Blumenwunder (“Il miracolo dei fiori”, 1926) del regista Max Reichmann: una delizia per gli occhi, tra piante che rapidamente germinano e fioriscono come per incanto, e la danza con veli di Loïe Fuller: lei qui pare proprio un’apparizione magica, un po’ farfalla, un po’ fiore sbocciante tra giochi di luci serpeggianti e fascinosi come instabili pennellate di colore. Ancora più ipnotico e incalzante è il filmato Il Giardino delle Delizie (1981) di Stan Brakhage, una delle figure più influenti del cinema americano sperimentale del dopo guerra. Utilizzando solo la pellicola, la luce e svariate materie vegetali sovrapposte, il suo filmato – un pulsante caleidoscopio di rami, foglie e fiori dal tono inquietante e ossessivo – si presenta volutamente come un omaggio al celebre e omonimo trittico di Hieronymus Bosch. Quasi all’opposto, nel capitolo III, l’artista Timur Si-Qin, in una sala in penombra, espone alcuni video dall’effetto meditativo. Simili a quadri in movimento, dove l’ombra delle foglie oscilla dolcemente come ad accarezzare il fogliame retrostante, tali immagini creano infatti una sensazione di pace, un’atmosfera ovattata e rassicurante. Si tratta di opere, create con tecniche avanzatissime e super tecnologiche, che fanno riemergere la sacralità del mondo naturale, superando le opposizioni binarie tra organico e sintetico, sacro e tecnologia, verità e finzione, natura e cultura. Certamente si situano “Al di là del reale” (come indica il titolo del capitolo III, in cui sono esposti video di Timur Si-Qin), ma il fatto di essere opere di finzione paradossalmente non le pone in contraddizione con la natura: piuttosto ne evidenziano l’aspetto magico, ci danno la possibilità di attivare il nostro sguardo e le nostre emozioni rispetto alle piante. Lo stesso ci accade di fronte alle stupefacenti immagini di Miljhon Ruperto & Ulrik Heltolf ispirate dal misterioso manoscritto Voynich rinvenuto a Frascati nel 1912. Ricco d’iscrizioni mai interpretate e di disegni di vegetali ugualmente non riconducibili a nessuna pianta, tale manoscritto ha dato l’occasione ai due autori di creare – ovviamente con l’aiuto di photoshop – piante a loro volta fantasmagoriche e immaginarie che catturano l’attenzione e stimolano la fantasia.
Passando “oltre il reale”, ci si immerge in una realtà contaminata (capitolo II, “Simbiosi e contaminazione”) con la serie di affascinanti e inquietanti immagini di Alice Pallot: fotografie tanto belle da sembrare finte, invece no, le sue “alghe maledette” (Algues maudites, a sea of tears, 2022), fotografate e anche filmate nella costa della Bretagna, sono la conseguenza dei rifiuti agro-industriali finiti in mare. Ricchi di nitrati e fosfati questi rifiuti nutrono le alghe in abbondanza e le fanno proliferare felicemente a discapito dell’ecosistema acquatico e della biodiversità. Una simile biodiversità, decisamente “poco naturale”, è anche quella fotografata da Rebekka Deubner nei dintorni di Fukushima, dopo il disastro della centrale nucleare. Per non parlare delle piantine fosforescenti e radioattive del Tchernobyl Herbarium di Anaïs Tondeur (sue immagini le troviamo anche nell’interessante e documentata mostra L’Âge atomique. Les artistes à l’épreuve de l’histoire, Musée d’Arte Moderne de la Ville de Paris, fino al 9.02.2025). In questo “erbario” ci troviamo di fronte alle inquietanti trasformazioni subite dalle piante che hanno assorbito materiale radioattivo. E vale qui la pena ricordare, se ce lo fossimo dimenticato, che gli isotopi radioattivi rilasciati dalla centrale atomica di Chernobyl fecero anche virare il colore delle foreste circostanti dal verde al rosso... Certamente le piante possono rimuovere dall’ambiente circostante il materiale radioattivo, concentrandolo al loro interno. Ma che cosa accadrebbe se un incendio divampasse tra questi vegetali contaminati rilasciando nell’atmosfera il loro terribile contenuto?
A dare un tocco più “positivo” alla mostra ci pensa la sezione “Le piante come finzione politica” (capitolo V). Qui vediamo le immagini della straniante e politica operazione di land art ecologista, creata dall’artista femminista Ágnes Dénes, che nel 1982 diede vita a un’ampia piantagione di grano proprio davanti ai grattacieli di Manhattan, comprese le due Torri Gemelle poi distrutte. Mentre il fieno, una volta raccolto, fu offerto alla polizia a cavallo della città, il raccolto e i semi vennero distribuiti e piantati in diciotto città, tra Europa, Asia, Africa e Americhe, dove trovò sede la mostra Esposizione internazionale per la Fine della Carestia. Con questo lavoro, Ágnes Dénes intendeva riportare l’attenzione del pubblico su alcuni valori sempre più trascurati dalla società globalizzata: la condivisione del cibo e dell’energia, la salvaguardia dell’ambiente, la crescita sociale ed economica nel rispetto degli individui e delle comunità. Valori ai quali, sulla base dei cambiamenti avvenuti dagli anni ’80 a oggi, potremmo aggiungere anche una critica alle ormai dilaganti monoculture agroalimentari, che non solo rendono i Paesi globalmente dipendenti l’uno dall’altro, ma provocano anche una gravissima perdita di biodiversità. Mancherebbero ad esempio un’infinità di cibi sulle nostre tavole, se dal Sud-est asiatico non ci arrivasse l’olio di palma. Ma la monocultura dell’olio di palma, con le sue cupe, enormi piantagioni, è stata a propria volta resa possibile in seguito alla sistematica distruzione di buona parte delle grandiose e magnifiche foreste pluviali dell’Indonesia, del Borneo, della Malesia, con conseguente gravissima perdita di biodiversità. Insomma, è proprio il nostro modello di sviluppo agroalimentare quello che ci sta portando rapidamente verso una crisi insostenibile… E, a proposito di biodiversità, eccoci (sempre nel Capitolo V della mostra) al video Sicuro (2015) di Ali Kazma: un’opera che, proprio per la sua assoluta oggettività, ci appare degna di un romanzo distopico di fantascienza. Certo saranno al “sicuro” i semi di tutte le diverse specie vegetali del mondo conservati in un bunker sommerso nella neve e tra i ghiacci delle isole Svarbard; ma sono anche la testimonianza indiscutibile di quante diversità genetiche vegetali, per non rischiare l’estinzione totale, debbano essere conservate in questa specie di solitaria arca di Noè di cemento armato.
Inaspettato, ma decisamente “centrato”, è pure il Capitolo IV, “Le piante vi guardano”: una sezione che nel suo insieme vuole essere un omaggio al romanzo Il giorno dei trifidi e, conseguentemente, a “altre piante assassine”. Si vuole qui mettere in evidenza come, tra gli anni Cinquanta e Ottanta, molti film e opere di narrativa avessero per protagonisti inquietanti esseri vegetali (spesso extraterrestri) capaci di sostituirsi agli umani e di metterne in crisi l’esistenza stessa. Neglette, sfruttate, relegate ai margini della nostra civiltà, le piante si ripresentavano sotto le vesti di enormi baccelli, di spaventosi vegetali mangia-uomini, di piante dai tentacoli strangolatori o talmente carnivore da divorarci (addirittura nel 1920 un settimanale americano riportava come vera la notizia di una ragazza mangiata da una pianta carnivora in Madagascar). In mostra abbiamo locandine di film, come appunto Il giorno dei trifidi di Steve Sekely, tratto dall’omonimo romanzo di John Wyndham, e apparso in Italia con il titolo L’invasione dei mostri verdi. Poi incontriamo copertine di libri di fantascienza sul medesimo tema; e vediamo pure alcune sequenze del film Terrore dallo spazio profondo (1978) di Philip Kaufmann, dove spore aliene si sviluppano assumendo il piacevole e rassicurante aspetto di bei fiorellini rosa, per poi trasmutarsi in grandi baccelli capaci di assumere l’aspetto degli umani, così da invaderli subdolamente.
Per suggerire la paura di specie aliene, l’artista Kalev Erickson propone, in questa stessa sezione, un’installazione dove campeggiano alcune piante, fotografate sull’isola di Socotra, che sembrano volerci suscitare proprio un senso surreale di paura. Vediamo grandi Alberi del Drago (dracaena cinnabari ) che protendono le loro radici tentacolari, nonché piante dai tronchi anomali e rigonfi con piccole foglioline che sbucano fuori dalla cima. Immagino che su numerosi spettatori tale installazione sortisca l’effetto voluto, mentre a me ha suscitato un voluttuoso senso di gioia: ho infatti una sfrenata passione per l’Albero del Drago (per l’esattezza il parente di quello dell’isola di Socotra, cioè la dracaena draco, presente nelle isole Canarie), tanto che spesso ho fatto faticose escursioni pur di ammirarne un esemplare centenario. E che dire dell’altra piantina di Socotra, un po’ mostruosa e pure velenosa (ovvero l’adenium obesus)? In questo caso davvero la “pianta mi osserva” ed io la osservo a mia volta perché si trova, in vaso, proprio di fianco al mio computer. Certo a causa della scarsa insolazione milanese somiglia poco a quelle fotografate da Erickson, ogni tanto va in crisi e ne temo il decesso, ma al momento resiste e ci “guardiamo” vicendevolmente con grande simpatia.
In copertina, Alice Pallot, from the series 'Algues maudites, a sea of tears' (Cursed algae, a sea of tears), anoxic aquarium at the CNRS with Lymnaea and watermilfoil plants), 2022, Pigment print laminated on Dibond 190.5 × 75 cm © Alice Pallot, Courtesy Hangar, Brussels.