Martin Parr, fotografo della vita qualunque
Marc Augé ha fatto l’etnologo nel metrò e nei bistrot parigini. Con un approccio in qualche modo simile Martin Parr, fotografo-antropologo del tempo libero, si è mosso invece tra party e danze, spiagge e turisti che si fanno fotografare mentre “sorreggono” la torre di Pisa. Entrambi hanno rivolto la loro attenzione verso la vita dei loro simili, cioè sui nostri comportamenti collettivi, senza avere necessità di raggiungere popoli cosiddetti primitivi (come doveva fare un “vero” etnologo), né raggiungere paesi in guerra, e neppure fotografare drogati o migranti disperati (temi classici della fotografia impegnata). Certo Augé scriveva, mentre Parr fotografa, ma entrambi hanno infranto le regole prestabilite. «La gente ordinaria e i posti qualunque ispirano in me la stessa passione che porta altri fotografi a raccontare guerre, carestie ed epidemie: io, però, preferisco andare al supermarket della mia città», ha detto anni fa Martin Parr con il suo inglese sens of humor. E ora possiamo vedere un sunto ragionato delle opere di questo grande della fotografia nella mostra Short & Sweet (fino al 30 giugno) presso il Mudec di Milano: un’esposizione curata dall’autore stesso, in collaborazione con Magnum Photos, la celebre agenzia fotografica di cui Martin Parr fa parte dal 1994 grazie ai buoni uffici di Henri Cartier-Bresson. Nato a Epsom nel 1952, Parr ha realizzato una ventina di libri se non di più, ha curato festival e avuto mostre personali un po’ ovunque nel mondo. Già il titolo di questa mostra milanese ci fa capire come essa sia short: non costituisce infatti una vera e propria antologica, causa la mole strabordante dei lavori di un simile autore. Si tratta piuttosto di un’esposizione sintetica, ma senz’altro ragionata, di più, anche sweet, cioè allettante, capace di farci apprezzare il tocco umoristico e arguto del suo stile. In aggiunta ci propone pure qualche ricerca davvero poco nota, che ci riporta agli esordi di Parr, con inaspettate foto documentarie in bianco e nero, ma già pervase da quel sotterraneo tocco d’ironia, da quello spirito sottile che farà di lui un sociologo-fotografo curioso e ficcanaso, e che caratterizzerà poi i suoi più celebri lavori. Mostra peraltro che esplode in una sorta di apoteosi della dolcezza (sweet, appunto) con Common Sense (1995-1999): è questa una delle sue ricerche più famose, allestita qui al Mudec su pareti ricoperte d’immagini che a loro volta danno vita a un tripudio giocoso e iper colorato del kitsch in tutte le salse: dalle ciabattine con le margheritone alle unghie posticce con brillantini incapsulati, dalla signora che rosola al sole con plasticosi copri occhi blu, al barboncino tosato con ciuffetto alla moda, per poi gettarsi a capofitto (in senso vero e proprio dato che si tratta di foto ultra ravvicinate) su cibi di tutti i tipi, meglio se un po’ schifosetti o accattivanti. Così vediamo gelati squagliati a terra, vassoietti stile McDonald con avanzi di cibo smangiucchiati, ma anche dolcini con faccine sorridenti – ovviamente coloratissimi caso mai non attraessero a sufficienza – e pure una delizia di Catania: le cosiddette minnie di Sant’Agata, ovvero pasticcini bianchi glassati con in cima una bella ciliegina candita, in modo da ricordare, appunto, le tette tagliate che la martire Sant’Agata in molti quadri presenta su bei vassoi come se fossero prelibatezze da gustare (cosa che i catanesi hanno colto con destrezza e astuzia).
Ma andiamo per ordine d’apparizione e partiamo dal suo forse primissimo e serissimo lavoro, realizzato a soli ventitré anni (nel 1975) assieme alla futura moglie Susie Mitchell. Già il titolo è volutamente ambiguo e spiazzante: The Non-conformist. E chi mai saranno queste persone che escono dalle regole stringenti del conformismo dilagante? Ovvio – si fa per dire – le chiese “non-conformiste”. Cioè le Low Churches di metodisti e battisti, nate fra il Seicento (i battisti) e la fine del Settecento (i metodisti). Chiese “popolari” che, a differenza della “Chiesa Alta” anglicana, si rivolgevano alle persone in difficoltà appartenenti ai ceti proletari, cercando di contrastare il dilagare dell’alcolismo, del gioco d’azzardo, nonché il degrado sociale che affliggeva le masse inurbate, vittime della rivoluzione industriale. Ed ecco dunque Parr e Mitchell, i nostri due sociologi-fotografi, aggirarsi nell’ex zona industriale del West Yorkshire per mostrarci le cappelle severe e tristanzuole di queste chiese “non conformiste”, dove anziane signore, ben dotate di immancabili cappellini, recitano salmi e poi fra i banchi si bevono pure un tè scartocciando pasticcini portati da casa che trangugiano senza scomporsi. Un’immagine mi colpisce: in una saletta altrettanto severa, ma pure fumosa, si vede un raduno di uomini anziani, visti di schiena, che paiono intenti a discutere faccende assai serie. La didascalia riporta: “Lunedì di Pasqua: raduno annuale dell’Antico Ordine degli Henpecked Husbands, 1977”. Che significa? Tradotto letteralmente sarebbe “mariti beccati dalle galline”, cioè redarguiti e comandati a bacchetta dalle mogli. Nell’epoca gloriosa del femminismo trionfante costoro partecipano a un anomalo gruppo di “autocoscienza” maschile in cui c’è chi si lagna di essere stato sgridato dalla moglie perché non ha portato fuori la spazzatura, un altro che non ha potuto vedere la partita di cricket alla televisione dato che la “sua signora” si voleva godere una soap opera? Già inizio a ridere e a immaginarmi le innumerevoli lagnanze maschili, ma poi mi viene il serio dubbio che Martin Parr abbia un po’ truccato le carte. Presa da zelo giornalistico e dal motto “verificare sempre le notizie” scrivo a sua moglie Susie per avere lumi su questo stravagante “Antico Ordine”. Così scopro che quel briccone di Martin voleva prendere in giro la Massoneria e i suoi “antichi ordini” appioppandole un titolo assai poco illustre e giusto “un filino” ridicolo.
Sempre coerente con questo suo stile arguto, la seconda ricerca (1977–1982) nasce con l’intento di mettere il dito nella piaga dell’ossessione britannica per il tempo atmosferico e, al contempo dello stereotipo secondo il quale una buona fotografia va sempre fatta con una gran bella luce e in giornate di sole (come si può notare, nelle riviste di turismo mai vengono pubblicate foto che facciamo anche solo vagamente intuire che lì, in quel paradiso vacanziero da pubblicizzare, possa ogni tanto piovere). Dunque eccoci con Bad Weather tra un’Irlanda e un’Inghilterra sommerse dalla pioggia; ma non con una pioggetta da far esclamare as right as rain (ovvero: va tutto bene piove, quindi siamo in una situazione normale) e neppure a lovely day for ducks (piacevole giornata per le anatre). No qui l’esclamazione dovrebbe essere It’s raining cats and dogs (“piovono gatti e cani”, cioè piove a dirotto) tanto i diluvi d’acqua e nevischio inondano persone e cose. Ed eccoci alla festa di strada per il giubileo della Regina: nonostante i tanti bei piatti preparati e la tenacia tutta britannica nel far finta che non piova, diluvia talmente tanto che nessuno osa uscire di casa per raggiungere la desolante piazza infradiciata di Elland (West Yorkshire), dove spicca un’“allegra” ciminiera, tra altrettanto deprimenti abitazioni operaie. Pensiamoci: ci vuole al tempo stesso leggerezza e sicurezza di sé per pubblicare una foto del genere…
Che nei suoi primi lavori l’attenzione di Martin Parr si concentri soprattutto sulla working class inglese si capisce anche dalla prima ricerca che gli diede un’iniziale fama, dopo essere stato stroncata dalla critica britannica: The Last Resort, dedicata alla spiaggia di New Brighton che fronteggia Liverpool, frequentata solo ed esclusivamente dalle famiglie a basso reddito della città (una commistione impropria fra le classi è qualcosa che in Inghilterra viene tradizionalmente evitatata con cura…). Qui però si nota nelle foto un cambio di rotta: influenzato e attratto dalle opere di autori americani come Joel Meyerowitz, William Eggleston e Stephen Shore, con questo lavoro Parr abbandona il bianco e nero, per passare al colore. E che colori! Se con questa ricerca ancora si trattiene un po’, poi le foto presenteranno colori sempre più vivaci e ipersaturi, oltretutto privi di zone d’ombra grazie a ben gestiti colpi di flash, come se il nostro autore volesse fare a gara con le più pacchiane immagini pubblicitarie. Il tutto con inquadrature in apparenza non ben studiate rispetto ai canoni della fotografia classica, ma in realtà perfette per rendere il caos delle situazioni che incontra: bagnanti stesi sul cemento tra bambini urlanti, scarpe abbandonate e sacchetti di plastica; famigliole che mangiano indifferenti proprio davanti a un rigurgitante cassonetto che pare lanciare spazzatura ovunque.
Il successo sopraggiunge invece, senza più riserve, con Small World (1989–2012,) dedicato al turismo di massa cui nessuno prima di lui sembrava aver fatto caso. Un turismo basato sul principio fondamentale di andare tutti a vedere gli stessi luoghi “cinque stelle” sparsi per il mondo e abbondantemente pubblicizzati come tali; poi comprare valanghe di souvenir che li rappresentino su strofinacci e magliette; e soprattutto fare un’orgia di fotografie che immortalino parenti, amici e se stessi davanti ai più celebri monumenti. A piazza San Marco una signora impavida inquadra chissà cosa con la sua fotocamera mentre è letteralmente assalita da ben quattro piccioni che sembrano apprezzare soprattutto la sua testa. Riuscirà mai nel miracolo di vedere qualcosa al di là delle zampe di questi sfacciati volatili? Al Parco Güell di Barcellona una folla si accalca e si autofotografa mentre tocca un mosaico come se fosse un portafortuna; ma di guardare con un minimo di attenzione l’opera grandiosa del povero Antoni Gaudí non se ne parla neppure. Per disgrazia ho avuto anch’io l’occasione di visitare il Parco Güell intruppata in un gruppo di turisti. Stavo iniziando a osservarlo con ammirazione ed ecco partire un bel colpo di fischietto e via, tutti subito sul pullman soddisfatti, tranne me semplicemente furibonda.
Tra un divertimento di massa e l’altro, Martin Parr osserva folle danzanti in ogni angolo del mondo e soprattutto indaga la vita nelle spiagge, come un impenitente sociologo del tempo libero dotato di humor, ma privo di arroganza e supponenza. Fotografa gente che passeggia sulla battigia, si fa la doccia, si rosola al sole sfogliando riviste nelle pose più assurde e ridicole. Perché? Non per una banale irrisione, ma perché si tratta di pose a loro modo tipiche e significative, che lui coglie con un tocco di divertita e amichevole compartecipazione. Naturalmente in questo mondo di “bagnanti” quasi nessuno nuota, dato che in spiaggia ci si va per prendere il sole, bere un calice di bianco o giocare con pallone, e poi immergersi appena appena, giusto per darsi una rinfrescatina, meglio se con cappello e occhiali, e poi riemergere subito esclamando: “Ah, che nuotata!”. Già che la mostra è a Milano, città della moda, non poteva mancare la sezione Fashion, ovviamente con fotografie dissacranti ma apprezzate dall’onnivoro sistema moda, sempre alla ricerca di qualcosa di spiazzante e stravagante. Se poi le immagini rendono ridicolo ogni abito o accessorio, ancora meglio: così fa ridere e l’acquirente si sente pure spiritoso nel comprarlo. Insomma le ricerche di Martin Parr nascono dalla sua capacità al tempo stesso impietosa, giocosa, acuta e partecipe di indagare dentro le pieghe di una società contemporanea sempre più prigioniera di consumi e comportamenti massificati dove, per fare gli “originali”, tutti fanno su per giù le stesse cose: vanno negli stessi posti, nelle stesse spiagge, mangiano valangate di junk food e si vestono con gli stessi marchi dalle scarpe agli zainetti. Una società “vetrinizzata” – come l’ha definita il sociologo Vanni Codeluppi –, basata sulle apparenze, condizionata prima dai mass media e ora da social e influencer, dove è di regola apparire sempre allegri e trendy. Il tutto con immagini segnate dall’inconfondibile tocco di Parr, magistralmente in equilibrio tra il grottesco, il simpatico e il sorprendente: le sue si rivelano così immagini capaci di far vedere il mondo in modo nuovo, costringendo le menti infiacchite a uscire dai soliti stereotipi conformisti. L’umorismo, come ben sapeva il filosofo Gregory Bateson, scompagina infatti le cornici in cui costringiamo la conoscenza, spinge sullo sfondo la logica normale e mostra il mondo sotto una nuova luce. Ogni immagine di Parr è come se dicesse: “così va il mondo, cari miei: meglio non prenderlo troppo sul serio”. Certo la mostra al Mudec è un ben riuscito spaccato della produzione fotografica di Martin Parr, ma pure io – che come lui sono fanaticamente attratta dal kitsch – sono però rimasta un po’ delusa dalla mancanza di almeno qualche oggetto (questa volta non fotografico) della sua ampia collezione rigorosamente smile e soprattutto dall’assenza del vero salottino british che avevo visto in un’altra sua mostra. Che delizia del tipo Home sweet home, quelle accoglienti tappezzerie a fiori punteggiate di quadretti, per non dire del fantastico caminetto con finto carbone che pare bruciare grazie a ben studiate lampadine… Parr infatti sa giocare anche con ricostruzioni dal vivo, come se volesse dirci: “Guardate che questo piccolo mondo assurdo è proprio reale e ci si può anche accomodare dentro con delizioso conformismo”. Ricordiamocelo: Parr non è solo un fotografo, ma un sublime studioso e ricostruttore dell’incredibile “teatro” in cui si svolge la nostra vita quotidiana. Che sia un teatro noi magari non ce ne accorgiamo nemmeno, perché ci siamo immersi dentro. Ma il bravissimo Parr ce lo fa notare, ci insegna a sorriderne e pure a comprenderlo meglio.
Martin Parr, Short & Sweet
MUDEC, via Tortona 56, Milano, fino al 30 giugno 2024
Catalogo con un’intervista a Martin Parr di Roberta Valtorta, 24 Ore Cultura, pp. 127, € 26,90
In copertina, Martin Parr, Autoportrait, Mudec, © Carlotta Coppo.