Gabriele Basilico: dalla città verso l’infinito

1 Novembre 2023

Gabriele Basilico amava la fotografia, amava riflettere, parlare e dialogare sulla fotografia, confrontarsi e imparare da altri autori viventi o storici: primo fra tutti Walker Evans, che considerava il suo maestro segreto. Da lui apprende l’importanza di creare immagini etiche ed estetiche al contempo, che rivelano comprensione e restituiscono dignità ai soggetti ripresi. Un atteggiamento visivo, questo, che lo guiderà sempre come una lezione basilare. E poi Basilico amava le città, prima fra tutte Milano, la sua città natale, a cui ha dedicato tantissimi lavori: dai primi reportage sociali alla celebre serie Milano Ritratti di Fabbriche dei fine anni ’70; da La città interrotta (1995-96) alla documentazione dei lavori che cambieranno il volto dell’area “ex Varesine” per trasformarla in un insieme di grattacieli e giardini, “verticali” e non. E ora Milano, a dieci anni dalla sua scomparsa, risponde con generosità al suo affetto e al suo impegno intitolandogli un giardino vicino all'Archivio che già porta il suo nome e proponendo una doppia grande mostra dal titolo Le mie città, in due sedi di grande importanza: la Triennale (fino al 7 gennaio 2024) e Palazzo Reale (fino all’11 febbraio), nonché un pregevole catalogo (Electa, pp. 416).

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Gabriele Basilico, Milano 1978-80, Foto di Gabriele Basilico/Archivio Gabriele Basilico.

La prima mostra, a cura di Giovanna Calvenzi e Matteo Balduzzi, si concentra sul tessuto edilizio, i monumenti e le trasformazioni di Milano e della sua area metropolitana. Qui, disposte in un ordine rigoroso, ci sono tutte le sue ricerche più importanti, ma anche alcune meno note, come quella dedicata alle acciaierie e ferriere della Falk di Sesto San Giovanni (1999), fotografate quando le fabbriche erano ormai state dismesse ma non ancora distrutte. La seconda mostra, sempre curata da Calvenzi, questa volta assieme a Filippo Maggia, nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, propone invece 100 fotografie di oltre quaranta città del mondo, in questo caso molto spesso a colori e non nel classico bianco e nero che ha caratterizzato tanti dei suoi lavori. Qui la scelta dei curatori è stata quella di comporre “una foresta di visioni”, dove s’intrecciano viste dall’alto che sembrano planare sulle città, poi diagonali prospettiche, quindi avvicinamenti, il tutto accostando liberamente scatti realizzati da Shanghai a Mosca, da Istanbul ad Amman, da Montecarlo a Beirut, in un flusso narrativo che va oltre i criteri cronologici o geografici. Una scelta, quella fatta dai curatori, che, se rivela la progressiva libertà espressiva di Basilico e si presenta con un forte impatto visivo, dall’altra fatica a creare un flusso narrativo coerente, o a evidenziare quel bisogno di ritrovare corrispondenze, analogie e confronti tra le città, cioè proprio quei reciproci rimandi che invece emergevano dal suo libro Nelle altre città (Art&, 1997). «L’idea del luogo globale non porta alla sparizione delle singole identità ma, al contrario, spinge verso un radicamento della conoscenza e a un maggior affinamento della percezione» – scriveva lui stesso nella presentazione di questo volume. Il confronto e l’incontro con le città del mondo gli permetteva infatti di arricchire, per analogia o per diversità, il suo sguardo, di vedere meglio, diversamente, e anche come se fosse la prima volta, la sua stessa città. Uno sguardo contemplativo, il suo, basato su una lentezza riflessiva dove era fondamentale la scelta del punto di vista e quella che lui chiamava «la giusta distanza» rispetto al soggetto. “Giusta”, non per ottenere una bella immagine, ma per cercare di capire senza giudicare. «Penso che nella mia fotografia non ci sia un giudizio sulla qualità dell’architettura. Alla fine non è troppo importante se una città è bella o brutta, se l’architettura è di qualità o mediocre, m’interessa la convivenza, lo scenario esistenziale degli esseri umani» – raccontava Basilico in un’intervista raccolta da Roberta Valtorta (curatrice e storica della fotografia che ha da sempre seguito il suo lavoro) e poi riportata in: Gabriele Basilico. Scritti e conversazioni sulla fotografia 1970-2012, a cura di Roberta Valtorta (Dario Cimorelli Editore, Milano, 2023, pp.440), un libro appena uscito, in felice coincidenza con la doppia mostra di cui stiamo parlando. 

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Gabriele Basilico, Milano 1980, Foto di Gabriele Basilico/Archivio Gabriele Basilico.

Dunque, per arrivare finalmente a uno scatto, rigorosamente fatto con il banco ottico, per lui era fondamentale individuare prima un preciso punto di vista e una distanza/vicinanza da scegliere con la massima cura, dopo lunghe perlustrazioni a piedi. Era, la sua, un’esigenza nata a propria volta dal bisogno di sentire e comprendere «l’anima» e la memoria di ogni città per mostrarla «come un organismo che respira, come un grande corpo in trasformazione». Un organismo vivo, dotato di arterie, spazi vuoti, punti di giuntura tra vecchi quartieri e nuovi sviluppi urbani, angoli segreti, dove lui prendeva le misure quasi fosse un sarto architettonico – se così si può dire – o oppure un medico urbano attento al suo paziente.

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photo Delfino Sisto Legnani- dsl studio.

Basilico, oltre a cogliere le trasformazioni in atto delle diverse città, riusciva sempre a valorizzare anche le tracce del passato, della storia, magari osservando, quasi con affetto, una casa d’epoca schiacciata tra i condomini, come se volesse salvarla da un esercito d’invasori, oppure ridando valore agli edifici e alla struttura urbana di una Beirut devastata dalla guerra (città dove egli ritornerà più volte come testimonia il libro: Gabriele Basilico, Ritorni a Beirut – Back to Beirut, Contrasto, 2023) anziché sottolinearne le tragiche distruzioni dovute alla guerra civile. Nelle sue immagini anche i luoghi più mediocri – i condomini e le aree commerciali, i capannoni e gli svincoli stradali – uscivano dall’indistinto e dal caos per mostrarsi come presenze mute che ci riguardano e ci chiedono di essere interpretate. «Io cerco d’instaurare un dialogo con la città, di raccogliere i suoi messaggi» – ha spesso sostenuto Gabriele Basilico che, dopo più di trent’anni di esplorazioni nelle metropoli del mondo, è stato giustamente riconosciuto come uno dei maggiori fotografi internazionali del paesaggio antropizzato. Certo, a qualcuno le sue immagini apparivano fredde perché spesso prive di persone, basate su un approccio controllatissimo, rigoroso, alla Sironi – se vogliamo – e un po’ metafisico. Come se intendesse rappresentare i luoghi in un momento di sospensione del tempo, così da immergerle nel vuoto del silenzio, Basilico aspettava infatti con pazienza che la folla e il traffico fossero spariti, mentre accettava nell’inquadratura le stratificazioni dei suoi segni urbani: la segnaletica stradale, i fili della luce, la spettacolarità dell’invadenza pubblicitaria. 

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Gabriele Basilico, Milano 1989, Foto di Gabriele Basilico/Archivio Gabriele Basilico.

Con umiltà confessava :«Mi piace pensare di aver imparato, in quanto fotografo, a mettermi da parte, rinunciando a una rappresentazione troppo soggettiva e spesso artificiosa in favore di una riproduzione apparentemente oggettiva della realtà e caratterizzata da un grande rispetto verso le cose». Il suo era un mettersi da parte anti-narcisistico, per dare maggiore voce ai luoghi che aveva di fronte: abbassava la propria voce in modo da comprendere meglio la storia di un dato tessuto urbano, fino a coglierne il segreto genius loci. Un approccio, questo, che però non implicava un’assenza di coinvolgimento, anzi. Nel 1994, quando lo intervistai per l’Unità, mi raccontò che dopo l’importante esperienza della Mission Photographique de la Datar (per la quale aveva documentato le coste del nord della Francia su incarico del governo) «mi sono sentito sempre più avvolto dai luoghi, nutrito da essi, come dilatato fisicamente, tanto che la fotografia si è trasformata in un esercizio spirituale, dove riscoprire l’importanza della contemplazione e della lentezza dello sguardo». Nel caso di quella particolare ricerca (poi confluita nel libro Bord de Mer) il suo sguardo faceva in effetti emergere un nuovo «bisogno di scorrevolezza verso l’infinito (…) è come se fossi passato da un meccanismo prospettico rinascimentale al vedutismo fiammingo, dove il paesaggio è dilatato, naturalistico». 

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Gabriele Basilico, Milano 1996, Foto di Gabriele Basilico/Archivio Gabriele Basilico.

Torniamo allora a questo suo bisogno di «cogliere i messaggi della città» e cerchiamo di leggere una sua celebre immagine di Milano, appartenente alla serie La città interrotta, per comprendere meglio come Gabriele Basilico riuscisse in una singola fotografia a condensare magicamente la storia di un luogo, attraverso un approccio essenziale, asciutto, che offriva precise tracce interpretative. Si tratta di una fotografia di piazza Missori, vista frontalmente, guardando verso via Albricci: un ampio stradone che si riduce dopo poco in due stretti vicoli contornanti il rudere smangiato di quella che un tempo era stata la grande chiesa romanica di San Giovanni in Conca. Ai due lati degli umili e tristi resti di questa storica chiesa (di cui ora sopravvivono solo la cripta e parti dell’abside) si ergono in posizione eminente due imponenti edifici della fine degli anni ’40, simili a due giganteschi generali saldamente ancorati al terreno, ma protesi verso un’avanzata che… non riescono a compiere e in effetti non compiranno mai. Con un tocco da maestro, infatti, tutto il primo piano di questa fotografia risulta genialmente occupato da un leggero sbarramento a transenna che indica l’impossibilità di ulteriori conquiste: qualcosa come un’esile ringhiera che avrebbe potuta essere spazzata via quasi in un soffio. Se non fosse che tutto però si è davvero interrotto lì, lungo la linea invalicabile di tale sottile transenna. 

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photo Delfino Sisto Legnani- dsl studio.

Ma che storia mai ci vuole raccontare questa icastica immagine? Un piano regolatore di Milano (ultimato nel 1953, ma in parte concepito già in epoca fascista) prevedeva la creazione della cosiddetta “Racchetta”: una strada a scorrimento veloce a quattro corsie che avrebbe sventrato in modo irreparabile tutto il centro cittadino, da piazza San Babila fino a via Vincenzo Monti, per aberranti “esigenze imprescindibili di viabilità”. La costruzione del primo tratto di tale ampia strada, avvenuta dopo l’ultima guerra, oltre a causare ampi danni al patrimonio monumentale e al tessuto cittadino, segnò il destino di questa povera chiesa, che dal 1881 era divenuta proprietà della comunità valdese di Milano. Già sconsacrata a fine Settecento e tristemente utilizzata come deposito, la chiesa era stata infatti venduta ai valdesi dal Comune di Milano, ma quando l’edificio (subito dopo l’Unità d’Italia) era ormai stato demolito di un terzo e con la facciata ricostruita di sghembo; il tutto per l’ennesima esigenza di viabilità. La chiesa antica infatti occupava uno spazio enorme, che giungeva fin quasi a metà dell’attuale piazza Missori e avrebbe “ostruito” lo sbocco della futura via Mazzini. Da qui la necessità di un arretramento dell’edificio con sua parziale demolizione, e conseguente vendita della parte rimasta ai valdesi, che la riutilizzarono per il loro culto. E così le cose rimasero fino all’immediato dopoguerra, quando si diede il via alla realizzazione della famigerata Racchetta. Poi però il miracolo: sfrattati i valdesi, tra il 1948 e il 1952 i lavori avanzavano di furia, la chiesa era stata quasi del tutto abbattuta, la Racchetta era già pronta a distruggere altri antichi edifici, quand’ecco che il benemerito sovraintendente Luigi Crema bloccò l’avanzamento ulteriore della micidiale Racchetta. Antonio Cederna in due articoli su “Il Mondo” (nel 1954) giustamente attaccò quella che sarebbe stata la dissennata cancellazione quasi totale del centro storico di Milano; a lui subito dopo si unirono le voci autorevoli degli architetti Belgiojoso, Caccia Dominioni, Gazzola e Bagatti Valsecchi, invitati a una revisione del piano regolatore (1958). E tutto si fermò, proprio lungo la frontiera di quella transenna che con lucida consapevolezza Basilico aveva voluto evidenziare, ponendola in primo piano nella sua fotografia.

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Gabriele Basilico, Autoritratto/Self portrait, 2011, Foto di Gabriele Basilico/Archivio Gabriele Basilico.

Piccola nota a margine: allontanati da piazza Missori, i valdesi ottennero come risarcimento dal Comune un terreno in via Francesco Sforza, dove erigere il loro nuovo tempio. L’antica facciata della chiesa di San Giovanni in Conca venne allora smontata pezzo dopo pezzo, recuperata e ricostruita così com’era prima, ma nella nuova sede. E infatti la si può ammirare ancora adesso, come ingresso principale del tempio valdese di via Sforza, inaugurato nel 1952. Mentre il resto dell’abside e la splendida cripta romanica sono ancora in piazza Missori. All’insegna di “miracoli a Milano” abbiamo da allora una chiesa sdoppiata, con una cripta da una parte e una facciata dall’altra! 

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photo Delfino Sisto Legnani- dsl studio.

Ecco dunque come si può procedere a una rivelatoria lettura storica del tessuto urbano, a partire anche da una singola immagine di questo straordinario fotografo-urbanista-architetto. E non si tratta ovviamente solo del caso di piazza Missori. Ogni sua immagine infatti nasceva da una precisa esigenza interpretativa, da una conoscenza profonda della storia delle tante città che lui fotografava. Come un abile agopuntore (la similitudine era proprio sua) Basilico sapeva infilare il suo ago-sguardo nei giusti meridiani del paziente-città. Ma si sa che per guarire un paziente non bastano poche sedute di agopuntura. Compito nostro allora sarebbe quello di interpretare in profondità le sue immagini, comprendere e accogliere la loro lezione e soprattutto proseguirla con quella tenacia di cui lui era capace. Il grande architetto portoghese Álvaro Siza scrisse del suo lavoro: «Tutto ciò che i nostri occhi percepivano come caos riemerge trasfigurato, trasformato davanti a noi in un progetto (…) Basilico è un architetto della visione che va oltre il pessimismo». Un insegnamento “oltre il pessimismo” che, grazie alla sua generosità di maestro e pensatore della fotografia, egli ha trasmesso a molti suoi assistenti o autori a lui vicini, come Giovanni Hänninen, Marco Introini, Riccardo Bucci, Maurizio Montagna e tanti altri. Certo, come scrive con intensità e affetto Stefano Boeri nell’introduzione del catalogo della mostra: «Gabriele mi manca, ci manca tantissimo. Avrei voluto vederlo guardare, oggi, questa nostra Milano». Ma rimane la sua grande lezione come un lascito meraviglioso che non ci abbandona. 

In copertina, Gabriele Basilico, Milano 2011, Foto di Gabriele Basilico/Archivio Gabriele Basilico.

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Fotografia

Basilico ritorna a Beirut

Carola Allemandi

19 Luglio 2023

Nel 1991 Gabriele Basilico si trova a Beirut insieme ad altri fotografi di fama internazionale per documentare lo stato di devastazione della capitale del Libano dopo quindici anni di guerra civile. Negli scatti di questa prima spedizione del fotografo milanese – ne seguiranno altre tre, nel 2003, 2008 e 2011 – siamo di fronte al fatto evidente della distruzione dell’architettura e, con lei, del significato stesso che assume la vita circoscritta in un certo luogo. È uno guardo in qualche modo inedito per Basilico, abituato a trovare tracce di perfezione anche tra le facciate delle fabbriche di Milano e le strade deserte della Normandia.

Alla storia del particolare amore che Basilico nutrì per Beirut viene reso omaggio ad Alessandria nelle Sale D’Arte con la mostra – che arriva per la prima volta in Italia – “Ritorni a Beirut / Back to Beirut” curata da Giovanna Calvenzi e Christian Caujolle. Attrazione, la sua, che lo portò a sondare le fasi di completa trasformazione della città negli anni, con immagini che dal 1991 ne documentano la ricostruzione in una danza di abbandoni e ritorni durata vent’anni. 

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© Gabriele Basilico | Beirut 1991.

Lo spazio, ogni spazio – parola cardine nel concepire ogni struttura edificata – ha in sé il proprio codice per poter essere letto e interpretato, composto dal complesso alfabeto dell’estetica della costruzione edilizia, delle distanze e del posizionamento delle principali mete del cammino umano quotidiano: scuole, ospedali, municipi, chiese, portici, ponti, stazioni, costituiscono nel loro insieme il modo e il senso della vita di un popolo, la storia a cui appartiene, l’insieme eterogeneo di cosa ogni giorno vede, dove si muove, cosa cerca. Gabriele Basilico è noto soprattutto per le sue fotografie di paesaggio urbano e architettura in cui categoricamente l’uomo non compare: lasciati soli, gli edifici parlano in un soliloquio estraneo al nostro modo di percepirli come entità nate per dialogare con una comunità – il loro messaggio parrebbe compiersi unicamente in virtù dello scambio che ad essa offre – mentre, solitari, acquisiscono quella dignità monumentale che ne fa prima di tutto volume, forma, superficie esposta alla luce del sole, come la Cattedrale di Rouen di Monet. Per questo motivo assume un senso specifico, nel tributo del fotografo milanese a Beirut distrutta, la sopravvivenza nelle immagini dei pochi uomini che ancora la abitavano dopo gli scontri, visti come sfuggenti presenze di un dramma assai più vasto inserite nel mosaico frantumato del tessuto urbano. Solo così Basilico ci può far capire che, anche se distrutta, l’architettura non perde mai di significato: distrutta, l’architettura racconta ancora qualcosa di chi prima l’aveva abitata e, soprattutto, voluta. Documentare la fatiscenza moribonda della città segnata dai colpi, resa irriconoscibile talvolta anche nei luoghi un tempo conservati con maggior cura – perché storici – e con devozione – perché sacri – significa per Basilico non tanto cercare tra i resti ciò che suggerisce ancora la verità originaria e passata di quel luogo, bensì trovarla nello stato presente, seppur sfigurato. Blaise Pascal diceva che l’uomo, se si ascoltano bene i suoi pensieri, non lo si troverà vivere mai nel presente, ma sempre nel passato o nel futuro. In questo senso la fotografia aiuta l’uomo a riappropriarsi di ciò che pare sfuggirgli sotto agli occhi costantemente, recuperando brandelli di tempo necessari alla costruzione della trama specifica della memoria, cercando di evitare che anche lei, come Beirut stessa, venga rasa al suolo. 

La distruzione porta via con sé parti numerose di ciò che prima era stato intero: provoca, in altri termini, l’eliminazione da un paesaggio originario di quelle porzioni necessarie per completarlo, conducendolo a una sintesi bestiale della propria anatomia. A metà del XIX secolo, John Ruskin – pittore e scrittore britannico, nonché grande studioso di architettura – rappresentava la selezione naturale operata dalle rovine degli edifici storici in carte dipinte con tecniche miste facendo celare dal bianco stesso della carta tutto il resto del paesaggio che rovina non era – il mare, la terra, tutti gli altri edifici che le circondavano; a Beirut, dove tutto è rovina di fronte agli occhi di Basilico, niente va cancellato più di quanto il conflitto abbia fatto, e va fatto emergere tutto ciò che fin lì è riuscito a sopravvivere: questa la scelta, pare, di fronte al compito di rappresentarla.

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© Gabriele Basilico | Beirut 1991.

Niente, infatti, viene sacrificato da Basilico nelle sue vedute, riuscendo a comprimere in esposizioni perfette ogni dettaglio celato apparentemente dall’ombra più scura, e salvando al contempo le nuvole dei cieli più bianchi: in questo senso il metodo, apparentemente frutto solamente di profonda conoscenza tecnica e perfezionismo da fotografo sapiente di architettura, nasconde una propria intima poetica strettamente correlata al soggetto che si propone di rappresentare. Così nei pozzi d’ombra dei vuoti delle porte e delle finestre troviamo gli immaginabili lasciti dentro le abitazioni abbandonate, lo strato sottopelle leso quanto la superficie. Salvare tutto di ciò che già è stato deturpato suggerisce una presa di coscienza completa di fronte al disastro, e carica le immagini del fotografo di una precisa missione di recupero e salvaguardia: salvare tutto (“salvare” è un termine che appartiene anche al gergo fotografico, quando appunto non si brucia niente nell’immagine esponendo correttamente) significa non forzare la sintesi a cui il paesaggio già per altri fattori è stato ridotto, rendendogli dignità di completezza nonostante gli evidenti buchi visivi al suo interno, al suo panorama mutilato. 

Nel raccontare il lavoro svolto in Normandia Basilico diceva che in quei paesaggi aveva fatto finalmente esperienza dell’infinito, ovvero, secondo la sua visione, di un orizzonte lontano visibile e toccabile con mano, in contrapposizione alla chiusura che a Milano le architetture esercitano alla fuga dello sguardo: si potrebbe dire che a Beirut Basilico faccia esperienza di un secondo tipo di infinito o, meglio, che si trovi nella condizione di vederlo – molte vedute dall’alto ci spingono fino ai moli affacciati sul mare, o tra gli scorci urbani in cui una lontananza pure s’intravede – ma non cercarlo più, attento più che mai alla documentazione dello stato lacerato d’insieme, alla condizione presente da cui si trova circondato. Dalle strade di Beirut l’occhio non fugge, né deve farlo, ma rimane a constatare da vicino i dettagli dell’evidenza. 

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© Gabriele Basilico | Beirut 1991.

Il secondo atto, quello della ricostruzione e della inevitabile sostituzione del nuovo sul vecchio – inteso come ricordo traumatico da cui allontanarsi per costruire una narrazione urbana da zero, si veda l’evoluzione di Milano dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, fase che Basilico, seppur giovane, aveva probabilmente vissuto – è ciò che Basilico racconta in tre fasi e anni distinti in un passaggio che lo vede approdare infine anche al colore, come completamento di un processo e uscita definitiva dall’incubo. 

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© Gabriele Basilico | Beirut 2011.

Così le vedute del fotografo si ripopolano della levigatezza dei palazzi finiti, moderni, dedicati a un avvenire di rinnovata stabilità in cui di nuovo si può guardare a una vita normale, volta magari al consumo, al benessere materiale. Le varie fasi di recupero, come ricorda anche Rita Capezzuto all’interno del catalogo che accompagna la mostra, edito da Contrasto, hanno indubbiamente modificato irreversibilmente – quasi quanto ha fatto la guerra, per paradosso – l’aspetto della città, ma allo stesso tempo, dice “le faglie archeologiche, il tessuto storico e le sopravvivenze edilizie erano troppo importanti per procedere a un’avvilente tabula rasa”; per questo le operazioni di recupero si dividono tra quelle più filologiche e quelle di completo rinnovo. L’attrazione di Basilico verso la città ricostruita – documentata a partire dalle stesse prospettive con cui aveva iniziato a fotografarla nel 1991 – è soggetta a quell’effetto straniante del passaggio apparentemente repentino a una condizione opposta rispetto alla precedente. Ecco, dunque, una città nuova: Beirut ha di nuovo strade, parcheggi, abitazioni, incastonati tra i segni ancora evidenti dello scontro sui palazzi non ancora restaurati o ricostruiti. Senza mai drammatizzare ostentatamente, attraverso le immagini di Beirut Basilico restituisce un pezzo di storia dell’uomo riflessa sui muri, delegando alle cose immobili il compito di narrare lo stravolgimento che hanno visto e subito negli anni. Tra il 2003, il 2008 e il 2011, Beirut rinasce a un nuovo presente in mezzo ai cantieri, trasformando radicalmente la propria percezione visiva. Il passato viene cancellato e ridefinito dalle nuove lastricature in favore, come dice Pascal, di un presente passeggero che guarda però già al futuro, di un presente che accade per permettere una nuova costruzione, e che pare avere in bocca – il presente può allora essere anche un cippo con un’epigrafe incisa a monito di chi lo attraverserà – le parole del poeta italiano Attilio Lolini: “La rivoluzione non era / dietro l’angolo / vanno distrutte anche le rovine.” 

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© Gabriele Basilico | Beirut 2003.

Da sabato 17 giugno la mostra aperta fino al 1° Ottobre 2023, sarà visitabile dalle ore 15 alle ore 19 dal giovedì alla domenica.

Indirizzo: Sale d’Arte via Machiavelli 13 – Alessandria 

Il 13 luglio sarà inaugurata la "quinta" sezione della mostra, intitolata “Gabriele Basilico – Alessandria , 2006” e relativo catalogo.

In copertina, © Gabriele Basilico | Beirut 2008.

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