Speciale

In Africa l’open culture è di casa, a Kër Thiossane

20 Febbraio 2015

Perché l’Africa? Da parecchi anni lettera27 si dedica all’esplorazione di temi legati al continente africano e con questa nuova rubrica vogliamo aprire un dialogo con i protagonisti culturali che si occupano dell’Africa. Qui potranno esprimere opinioni, raccontare storie, stimolare il dibattito critico e suggerire idee per ribaltare i tanti stereotipi che circondano questo immenso continente. Ci piacerebbe aprire con questa rubrica nuove prospettive: geografiche, culturali, sociologiche. Creare stimoli per imparare, per essere ispirati, ripensare e condividere conoscenze.


Elena Korzhenevich,

lettera27

 

Qui l'articolo introduttivo della serie: Why Africa? 

 

 

English Version

 

 

Kër Thiossane in Wolof vuol dire ʻcasa della cultura tradizionale’. È il nome scelto da Momar François Sylla e Marion Louisgrand per il centro dedicato all’arte e alla cultura digitale da loro fondato nel 2002 a Dakar, con il sostegno della Fondation Langois di Montreal. Kër Thiossane opera per la democratizzazione dei mezzi multimediali e digitali in genere, in particolare nella loro dimensione creativa, e attraverso software liberi, in un contesto diverso da quello dei musei o di una mostra.

 

Da più di dieci anni indirizza le sue attività nell’ambito delle ricerche sull’arte, le nuove tecnologie e ciò che implicano nella nostra società, attraverso residenze, corsi di formazione, incontri e workshop. Dal 2008, ha organizzato quattro edizioni Afropixel, un festival che è parte del programma OFF della biennale Dak’Art e che propone uno sguardo critico sulla società attraverso l’arte e le nuove tecnologie cosiddette libere o open. Dal 2010 al 2012 ha portato avanti, con il sostegno di un fondo ACP (Africa-Caraibi-Pacifico), il progetto di spin-off e gemellaggio “Rose des Vents Numérique”, a favore delle conoscenze tecniche, culturali e artistiche tra il Senegal, il Mali, il Sud Africa e i Caraibi. Dal Forum Sociale Mondiale a Dakar del 2011, Kër Thiossane è coinvolta in progetti di definizione e valorizzazione dei “beni comuni”, sia sul piano locale che internazionale, soprattutto attraverso il progetto Remix The Commons. Nel 2014, ha proseguito la riflessione attorno al concetto di “bene comune” con l’apertura della Ecole des Communs a favore del quartiere di Sicap Liberté: una scuola nella quale la messa in comune si esperimenta nel quotidiano, nello spazio di un giardino condiviso e di un Fablab chiamato “Defko Ak Niep” (Fallo assieme agli altri), nello spazio pubblico. lettera27 è partner di Kër Thiossane dal 2008. Insieme a Moleskine, ha sostenuto le quattro edizioni di Afropixel fin dalla sua nascita e co-creato alcuni appuntamenti nel programma del festival: nel 2008 con WikiAfrica Arte, nel 2010 con Mobile A2K (nell’ambito di Rose de Vents Numeriques), nel 2012 con il primo capitolo di AtWork, nel 2014 con iniziative di capacity building e shared value networking.

 

Workshop Textil Motif Remix, 2014, CC BY-NC, Courtesy of Kër Thiossane

 

‘Casa della cultura tradizionale’. Una scelta originale quella di associare il concetto di ‘tradizione’ al multimediale per un centro che nasce in Africa ma che si colloca nella geografia internazionale di centri e festival legati alla sperimentazione con le tecnologie. Un’anomalia, se si pensa che nel digitale si fa sempre un gran parlare di nuovo, non sempre a ragione, per definire ciò che innesca un cambiamento, che proietta e trasporta verso il futuro. Perché allora parlare di tradizione per un progetto culturale che con tenacia quasi militante parte dalle tecnologie per agire nel territorio, nella città, nel quartiere, e da lì dialoga con alcuni tra gli eventi più all’avanguardia per la sperimentazione nel campo del DIY? Perché parlare di tradizione per un progetto che vuole, inoltre, decostruire i cliché più comuni sull’Africa a suon di innovazione tecnologica e sociale?

 

Quello che rende Kër Thiossane e il lavoro di Momar François Sylla e Marion Louisgrand un caso dal quale c’è molto da imparare in termini di dialogo tra locale e globale è stata la capacità di far uscire la cultura legata al digitale dalla nicchia nella quale molti progetti in area occidentale continuano a relegarla e di creare un impatto reale e potente sulla società. Hanno saputo, infatti, formulare proposte e attività sempre di altissimo livello, anche teorico, coinvolgendo artisti, intellettuali, studiosi e artigiani del digitale da tutto il mondo, ma allo stesso tempo sono stati in grado, cosa spesso rara, di metterli insieme alle persone di Dakar per creare una trasformazione nel quotidiano degli abitanti. E non solo nelle vite dei giovani creativi, fabbers o altre categorie di specialisti delle tecnologie, ma anche di gente comune, abitanti del quartiere, anziani, giovani imprenditori sociali in erba, bambini e vecchi artigiani. Un processo del genere si può innescare solo se si punta al futuro avendo ben presente la propria storia, essendo consapevoli dell’identità comune di un territorio e coltivando radici ben salde nei luoghi dai quali far partire il cambiamento.

 

Kër Thiossane è quindi la ‘casa della cultura tradizionale’ perché non ha ceduto alla moda del “tutto nuovo”, ma ha ricollocato espressioni legate alla sperimentazione culturale e tecnologica di oggi come DIY o open culture o ʻcondivisione’ in una cultura, quella senegalese, che attribuisce grande valore al ‘fare insieme’ e al ‘bene comune’. Qualche anno fa una delle edizioni del festival Afropixel ha ospitato una tappa di AtWork, una delle iniziative di lettera27. Durante il workshop, i partecipanti hanno creato sui taccuini Moleskine le loro opere e hanno poi deciso di realizzare alcune stampe serigrafiche su t-shirt, a partire dalle idee emerse. Una di esse riporta la frase ʻNIOO KO BOKK’, un’espressione tradizionale senegalese che corrisponde grossomodo a ‘Grazie per aver condiviso con me’. Una frase che ci ha confermato ancora una volta quanto ci sia da imparare dall’Africa in tema di condivisione delle conoscenze e open culture. Una ricchezza immateriale che Kër Thiossane sta coltivando da più di dieci anni e disseminando dall’Africa nel resto del mondo.

 

Workshop 'Jerry Cane construction D'Ordinateur', Afropixel #4, 2014, CC BY-NC, Courtesy of Kër Thiossane

 

Lettera27: Cosa c’è dietro a Kër Thiossane? Cosa vi spinge a svegliarvi ogni mattina per andare al lavoro? Che genere di cambiamento vorreste produrre con tutte le iniziative di Kër Thiossane?

Marion Louisgrand: Vogliamo che lo spazio sia una specie di laboratorio che attraverso l’arte e la cultura interroga la società e tenta di utilizzare l’arte come mezzo di trasformazione sociale. Secondo noi, quale che sia il contesto, l’arte non deve essere disconnessa dalla realtà quotidiana, la cultura deve essere accessibile a tutti. L’arte è un potere creativo sopito in ciascuno di noi che è importante risvegliare o incoraggiare, soprattutto nelle giovani generazioni. È un mezzo eccellente per risvegliare le coscienze, per far riflettere e invitare le persone ad agire su ambiente, società, attualità. Crediamo sinceramente che l’arte possa cambiare il nostro modo di pensare e concepire il mondo. Gli artisti permettono la scoperta di altre possibilità nella vita.

Quello che più mi motiva ogni mattina è soprattutto la sensazione di libertà che ho lavorando su un progetto che amo, al quale credo e che mi sembra talvolta utopico ma decisamente utile. Ho la sensazione che, malgrado la cultura non sia riconosciuta o sostenuta per il suo giusto valore in Senegal, le nostre azioni portate avanti da più di dieci anni con Kër Thiossane contribuiscano a far partire dall’Africa una riflessione mondiale sui cambiamenti della società, sull’evoluzione del mondo, in relazione alle nuove correnti di pensiero. È importante far sentire la voce degli artisti africani altrove nel mondo, portare un altro sguardo sull’Africa che rompe i clichés e gli stereotipi dell’Africa tradizionale, malata, in ritardo… l’Africa e i suoi artisti devono, attraverso progetti innovativi, contribuire ai grandi dibattiti della società, come quello sul bene comune.

 

L27: Puoi dirci come è nato il Festival Afropixel? Quale è stata l’idea di fondo?

ML: Afropixel si ispira a Pixelache un festival creato a Helsinki, in Finlandia, nel 2002. In un contesto come quello finlandese, nel quale l’ambito digitale è molto avanzato, un gruppo di artisti e geeks ha lanciato il festival scegliendo un titolo che in inglese evoca una patologia benigna come reazione alla esagerata escalation tecnologica e alle sue possibili insidie. Fin dalla sua nascita il festival Pixelache non ha cessato di esplorare la diffusione delle nuove tecnologie nelle loro diverse declinazioni. Gli organizzatori sono stati capaci di adattare lo spirito del festival al contesto e al pubblico in tutti i vari paesi in cui è stato esportato, in Europa ma anche nei Paesi emergenti (Pikselvärk a Stockholm, Pixelache a Helsinki, Piksel a Bergen, Mal aux Pixels a Paris, Pixelazo in Colombie...). Afropixel è dunque associato a questa rete di festival indipendenti. Lo spirito di Pixelache è una visione disinibita e lungimirante delle pratiche sociali e artistiche legate ai media elettronici e del potenziale delle tecnologie open source e del fabbing in tutte le loro forme.

 

Jet d'Eau, Afropixel #4, 2014, Courtesy of Kër Thiossane

 

L27: Uno degli aspetti principali del concept di Afropixel4 è stato l’invito a “fare il più possibile con il meno possibile” (Gilles Clément), che diventa uno dei principi fondamentali delle pratiche di resistenza contro il capitalismo postfordista e le sue conseguenze, dal punto di vista economico e ambientale. Ci parleresti di come il pensiero di Clément ha ispirato azioni e iniziative nel contesto specifico di Dakar e del festival?

ML: L’insieme delle attività proposte nella programmazione di questa ultima edizione del festival era basata su questo concetto difeso da Gilles Clément che intende preservare il bene comune e la sobrietà. Ad esempio quella dell’atelier di Jerry Cane, che consisteva nell’invitare dei giovani a costruire dei computer dentro una scatola a partire da vecchi computer destinati allo smaltimento, prendeva in contropiede l’obsolescenza programmata del materiale elettronico che oggi inquina il continente africano su grande scala. Allo stesso modo altre attività del festival rimandavano o invitavano alla resistenza, come ad esempio la realizzazione del giardino Jet d’Eau nello spazio abbandonato di un vecchio quartiere borghese della capitale. L’atto stesso di piantare e creare un giardino in una capitale come Dakar deve essere associato alla resistenza. Al giorno d’oggi, dato che le logiche di mercato riducono in maniera inquietante ciò che la natura ci dona (acqua, aria, terra, sementi, api…), coltivare il proprio giardino nel mondo è un atto politico. Secondo Gilles Clément nel suo saggio Rêve en sept points pour une généralisation des jardins de résistance, bisogna concepire come giardino di resistenza l’insieme degli spazi pubblici e privati nei quali l’arte del giardiniere si sviluppa secondo dei criteri di equilibrio tra la natura e l’uomo, senza asservimento alla tirannia del mercato ma con la preoccupazione di preservare tutti i meccanismi vitali, tutte le diversità – biologiche o culturali – nel più grande rispetto dei supporti alla vita (acqua, suolo, aria) e con l'intento di preservare il bene comune e l’umanità che ne beneficia.

 

L27: Puoi dirci qualcosa su Jet d’Eau: cosa è stato fatto esattamente, come ha trasformato quest’area della città e perché avete scelto di lavorare in questo spazio pubblico?

ML: Sicap e la rotonda Point Jet d’Eau rappresentano uno dei primi quartieri borghesi di Dakar all’inizio dell’indipendenza negli anni ’60. Tutti i senegalesi che all’epoca hanno conosciuto questo quartiere ne parlano come di un quartiere chic, pulito con degli spazi verdi, una fontana (Jet d’Eau), i primi palazzi…Tutti deplorano le condizioni del quartiere oggi, quarant’anni dopo, abbandonato al degrado, insalubre, insicuro, in balia dell’anarchia e dell’individualismo, con un tasso elevato di giovani inattivi e senza lavoro. Noi abbiamo scelto di far sorgere la scuola “des communs” su questo terreno ai piedi dell’edificio Jet d’Eau perché è situato a 100 metri da Kër Thiossane e perché, nonostante si tratti in realtà di uno spazio in comproprietà, con il tempo è diventato un terreno attraversato tutti i giorni da centinaia di residenti. Ciascuno lo utilizza a sua discrezione: toilette pubblica, scarico, atelier di lavoro, campo da gioco, luogo di passaggio... Noi stessi lo abbiamo utilizzato durante le precedenti edizioni del festival per installazioni o proiezioni pubbliche. Questo spazio pubblico ci è sembrato un vero ‘bene comune’ il cui degrado era un dispiacere per tutti. Era il momento di unirsi per agire. L’arte sembrava un buon mezzo. Al di là della struttura, ora diventerà un luogo di sperimentazione, un laboratorio a cielo aperto, dove il pubblico sarà allo stesso tempo attore e spettatore. Attraverso una nuova configurazione del giardino, si aprirà un altro dialogo con i vicini, invitati a partecipare all’opera e alle attività che vi si svolgeranno. Riorganizzando per tappe successive lo spazio pubblico, quest’opera, attraverso l’incrocio di campi d’espressione diversi – design, arte contemporanea, architettura – interroga la città di Dakar in divenire. La creazione di un giardino artistico nello spazio pubblico nel cuore della capitale è la prova concreta del legame reale tra arte e trasformazione sociale. Quest’esperienza ci permetterà sul lungo periodo di indagare concretamente il ruolo degli artisti nella società e nella pratica del vivere insieme.

 

Workshop AtWork Dakar, Afropixel #3, 2014, Courtesy of lettera27

 

L27: Che tipo di relazione avete stabilito con gli abitanti del quartiere? Quali erano le sfide? Avete costruito insieme delle proposte per la creazione del giardino? Se sì, quale è stata la reazione dei membri della comunità locale prima e dopo il progetto?

ML: Il rapporto con gli abitanti dei quattro edifici adiacenti al terreno è iniziato solo alla fine del 2013, quando abbiamo incontrato prima gli attori principali quali l’imam della moschea e il rappresentante dell’associazione dei proprietari e affittuari, poi l’associazione dei giovani fino a passare di appartamento in appartamento per spiegare a ciascuno il progetto e raggiungere con ognuno un accordo che ci autorizzasse a realizzare il giardino sulla loro comproprietà. È stato siglato un contratto di due anni con il sindaco in rappresentanza dell’insieme dei residenti che avevano dei conflitti tra loro e non aderivano all’associazione dei proprietari. Si tratta di un progetto a lungo termine e, man mano che il giardino prende forma, gli abitanti e residenti apprezzano i primi cambiamenti. I bambini sono quelli che lo frequentano più regolarmente, specialmente durante le ore di irrigazione. Gli adulti apprezzano e fanno spesso domande sul significato di un giardino artistico. Da quando ha preso forma, si osserva una crescente consapevolezza della possibilità di cambiare le cose e una volontà di impegnarsi in prima persona, ma resta ancora molto da fare.

 

L27: Ci racconti della scuola dell’En communs? Che tipo di attività ospita e qual è il filo conduttore tra le diverse discipline delle classi: arte, tecnologia, ecologia urbana, economia… Cosa succederà nella scuola nei prossimi mesi?

ML: È pensata come uno spazio aperto di ricerca e sperimentazione trans-disciplinare, che incrocia arte, tecnologia, ecologia urbana, economia e pratiche di buon vicinato. Attraverso i progetti e gli incontri proposti, si tratta di permettere all’arte e alla cultura di contribuire all’innovazione sostenibile, applicando concetti di cultura libera e condivisione dei saperi.

 

Mostra nel giardino Jet d'Eau, 2014, Courtesy of Kër Thiossane

 

L27: Puoi parlarci dei Fablab?

ML: Il fablab si chiama Defko Ak Niep ed è un progetto nato da due anni di riflessione nell’ambito del progetto Rose des Vents Numeriques. Nel corso di questo progetto di “spin-off” digitale tra l’Africa e i Caraibi, abbiamo iniziato, attraverso dibattiti e workshop, a interrogarci sulla pertinenza dei fablabs in Africa (in particolare Mali e Senegal), dove la pratiche artigianali sono millenarie e giocano un ruolo essenziale nella società e dove il DIY e il riciclaggio sono pratiche quotidiane per un gran numero di persone. Abbiamo poi organizzato nel 2013 dei workshop aperti, una volta a settimana, con elettricisti, informatici, fabber e artigiani per cercare di dare forma a un estrusore e una stampante 3D. L’esperienza non è stata facile perché eravamo a corto di risorse e competenze di un certo livello, gli artigiani non riuscivano sempre a lasciare il loro lavoro per dedicarsi ad altre attività e la cultura del “fatelo con gli altri” non ha sempre risposta in Senegal; ma il bilancio dell’esperienza è stato molto positivo e ci ha permesso di identificare una rete di persone con profili molto diversi, tutti dotati di enorme creatività, idee e voglia. Era ora di riunirli tutti insieme! Il proposito di aprire un fablab è dunque venuto naturalmente con il progetto d'Ecole des Communs basato sulla sperimentazione artistica, la cultura libera, i saperi condivisi, a livello di quartiere. L’organisation Internationale de la Francophonie ha accettato di sostenere il progetto. Piuttosto che dedicare la totalità del suo contributo all’acquisto di materiali, ci è sembrato più coerente riservare una parte del budget all’organizzazione di una fase preliminare per invitare tre esperti che ci aiutassero a concepire meglio il nostro progetto. Così a dicembre 2013 abbiamo ospitato per una dozzina di giorni Camille Bosqué (Francia), Claire Williams (Belgio) e Olivier Heinry (Francia) affinché potessero incontrare gli attori locali e riflettere con la nostra équipe sia sul funzionamento del fablab sia sulle attività da svolgere nel primo anno. Ad esempio sono stati pensati dei workshop in rapporto alla realtà locale, alle attività e ai mestieri più usuali (tessitura, sartoria, carpenteria…), così come rispetto allo scambio di competenze e di idee. Il fablab ha dunque debuttato con le sue attività a marzo 2014 con un primo atelier “Textile motif Remix” a cui hanno partecipato Claire Williams (Belgio), Fabien Cornut (Francia), Olivier Heinry (Francia) e lo scrittore senegalese Ken Bugul. Avendo tecniche così diverse quali la maglieria, il ricamo, le tinture naturali, la stampa di motivi tessili, la serigrafia e il digitale, questo workshop pilota ha trasformato il fablab in un vero luogo di trasmissione dei saperi, grazie a una mescolanza di diversi mestieri senegalesi (sarto, designer tessile, artista o grafico, carpentiere, tintore, chimico, sviluppatore, elettricista). Alcune creazioni (scarpe, borse, pochette ricamate…) sono state vendute durante Afropixel 2014. Il ricavato è stato ripartito equamente tra il centro sociale, gli artisti che li hanno creati e il fablab, in base al modello economico di una cooperativa.

 

L27: Ci sono degli aspetti sui quali vi state concentrando maggiormente per mettere sempre più in relazione fablab e territorio locale?

È un progetto giovane, in corso di definizione. La difficoltà principale è quella di non fare passi falsi volendo correre troppo, seguire le tendenze e copiare da modelli esistenti altrove che non corrispondano al nostro contesto. Soprattutto per un fablab che opera nello spazio pubblico, ci vuole tempo per coinvolgere pubblici diversi: gli abitanti non possono comprendere dalla sera alla mattina cosa può essere un fablab, il suo interesse, la posta in gioco… L’altra difficoltà è anche assicurare la sopravvivenza a lungo termine del fablab, costruire un’equipe e una comunità solida, trovare un modello economico praticabile. Ad oggi è importante coinvolgere attori istituzionali locali quali il Ministero della Gioventù e del Lavoro e rappresentanti dell’imprenditoria, dell’economia informatica..., affinché ci aiutino a organizzare in anticipo delle attività per i giovani senegalesi a Dakar e all’interno del Senegal.

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