Speciale
Essere donna artista in Africa / Le voci in/visibili delle donne
Cosa trattiene oggi le donne dall’esercitare il proprio potere? È possibile identificare i fattori che impediscono o ostacolano la piena partecipazione delle donne alla vita pubblica? Per quanto gli elementi in questione possano essere molteplici o complessi, si avverte l’urgenza di riappropriarsi degli spazi, di guardare alla propria storia in maniera diversa, di aprire nuove dimensioni.
Abbiamo chiesto a undici donne fenomenali – intrepide docenti universitarie, artiste, scrittrici e curatrici – di contribuire alla serie di testimonianze in sei parti dal titolo In/Visible Voices of Women. Attraverso una variegata raccolta di pensieri e opinioni, emergono alcune delle questioni più urgenti che riguardano le donne in generale, la loro condizione di invisibilità e la necessità di divenire visibili.
Quali sono oggi le questioni più urgenti che riguardano le donne, in particolare coloro che operano in ambito artistico?
Jessica Horn
La totalità dei problemi che riguardano le donne africane è riconducibile a un’unica questione, quella del potere patriarcale: ovvero, l’ordinamento della nostra vita e del nostro mondo secondo gli interessi collettivi degli uomini. Non è un caso, infatti, che le donne che operano in ambito creativo tendano a essere pagate meno degli uomini, abbiano minore accesso alle opportunità e vengano spesso trattate come se le loro competenze tecniche fossero inferiori. Dobbiamo continuare a lottare contro tutto questo, facendo tesoro dell’esperienza delle donne africane più rivoluzionarie!
Jessica Horn è una scrittrice, attivista, interprete dell’ordinario; le sue radici si estendono dalle Montagne del Ruwenzori, nell’Uganda occidentale, allo Yankee Stadium di New York. Collabora da oltre quindici anni con ONG, iniziative di beneficenza e le Nazioni Unite su temi che riguardano la salute delle donne, i diritti umani e la lotta contro la violenza. Al centro della sua ricerca artistica e del suo impegno di attivista, vi è l’idea dell’amore come forza in grado di produrre trasformazioni rivoluzionarie; ha partecipato al TedX Euston Salon ed è co-curatrice del blog “Our Space is Love”. La sua collezione di poesie Speaking in Tongues è inclusa nell’antologia “The Mouthmark Book of Poetry”. @stillsherises
Valerie Kabov
A dire il vero, le questioni che riguardano le donne nel mondo dell’arte sono le stesse che si pongono anche agli uomini: essere in grado di sopravvivere lavorando come artista, l’accesso ai materiali, il numero inadeguato di spazi espositivi, l’assenza di percorsi formativi, le difficoltà economiche. Sono queste le vere montagne, a confronto delle quali le questioni di genere sono, a mio parere, dei mucchietti di terra.
È da lì che derivano i problemi che riguardano, nello specifico, le donne: molte donne finiscono per scegliere il matrimonio a scapito dell’attività artistica e avere così una maggiore sicurezza economica; altre donne hanno difficoltà a far capire alle loro famiglie che la loro attività artistica conta quanto ogni altro lavoro e devono faticare enormemente per far valere le proprie ragioni e non accettare imposizioni sulle attività da svolgere. L’arte, nello Zimbabwe, è un settore dominato essenzialmente dagli uomini, per cui spesso non è un ambiente favorevole alle donne. Gli artisti uomini possono essere competitivi in maniera piuttosto aggressiva, mentre le donne impiegano molto più tempo per crescere, devono lavorare più duramente e hanno bisogno di maggiore supporto e incoraggiamento per raggiungere lo stesso livello qualitativo degli uomini. Può essere molto frustrante sapere che lavori con persone che saranno meno affidabili e faranno meno progressi. Continueremo, ciò nonostante, a perseverare? Certamente, perché comprendiamo la situazione. Abbiamo anche delle artiste eccellenti, come Portia Zvavahera e Virginia Chihota, giovani talenti che hanno raggiunto risultati nettamente superiori rispetto a molti artisti uomini; e il loro esempio è davvero incoraggiante.
Valerie Kabov è Responsabile dei programmi formativi e internazionali della First Floor Gallery Harare, nello Zimbabwe, che ha co-fondato nel 2009. Ha conseguito un Master in pratica curatoriale e arte moderna presso l’Università di Sydney e un dottorato in storia dell’arte (politica ed economia della cultura) presso l’Università Paris 1, Panthéon-Sorbonne. Lavora inoltre come avvocato, con più di dieci anni di esperienza in transazioni internazionali, occupandosi di mercati emergenti e proprietà intellettuale. In qualità di ricercatrice ed educatrice, i suoi interessi si concentrano, in particolare, sulla relazione tra locale e globale nel mercato dell’arte, sulle politiche culturali e sul coinvolgimento del pubblico. Ha fondato “Art & Dialogue”, un programma di formazione professionale continua per curatori e operatori culturali, che si propone di fornire le competenze necessarie per coinvolgere un pubblico eterogeneo e multiculturale, e collabora come editorialista con Art Africa Magazine.
Marcia Kure
Le donne che operano nell’industria creativa devono affrontare una serie di questioni, che vanno dal carico sproporzionato di responsabilità per la cura dei figli e della famiglia al divario retributivo tra uomo e donna. Le donne devono riuscire a conciliare responsabilità personali e professionali e sono spesso tenute a conformarsi a standard lavorativi istituiti dagli uomini. Galleristi e curatori pongono alle artiste domande che non vengono rivolte alle loro controparti maschili: chiedono della famiglia, se hanno figli, quanti ne hanno, o se hanno intenzione di averne. In qualche modo, la decisione di avere o non avere figli è un indicatore del grado di impegno che una donna mostra verso il proprio lavoro. Per evitare di essere discriminate, le artiste stanno spesso molto attente a non dare l’impressione di considerare la famiglia più importante del lavoro.
Il divario retributivo di genere è evidente nella differenza di prezzo delle opere d’arte realizzate da uomini e donne: le artiste guadagnano 1/3 delle loro controparti maschili. Questo finisce inevitabilmente per condizionare il mercato, orientandolo verso il genere maschile, e si riflette nel numero di artiste rappresentate da gallerie e collezioni museali. Un fenomeno che può essere ricondotto all’eliminazione e mancanza di riconoscimento delle donne nei testi di storia dell’arte. All’inizio degli anni Settanta, Linda Nochlin inizia a parlare di invisibilità delle donne nell’arte; e negli anni Ottanta, le Guerilla Girls pongono il tema della disparità di genere al centro del dibattito artistico globale.
La questione, oggi, è la stessa di allora. Cosa impedisce alle donne artiste di godere della stessa considerazione degli uomini?
Dipende forse dall’interesse curatoriale che il collezionista di norma sia un uomo, o da un fondamentale disinteresse e da atteggiamenti consolidati verso la produzione creativa femminile? Credo sia necessario riformulare e ampliare il modo in cui ci interroghiamo sulle questioni relative alle donne nell’arte. Ci concentriamo da tempo sui sintomi, piuttosto che sulle cause da cui si origina questa disparità.
Oltre alle consuete argomentazioni sulla parità retributiva di genere, dobbiamo chiederci: chi trae vantaggio da questa disparità? A chi giova la discriminazione delle donne sul lavoro, nelle gallerie e nei musei? Perché le donne continuano ad avere il problema di dover conciliare lavoro e famiglia? Cosa si può fare, cosa può cambiare la società per garantire alle donne condizioni più eque?
Marcia Kure è un’artista nigeriana che vive e lavora negli Stati Uniti. Si è formata alla University of Nigeria e alla Skowhegan School of Painting and Sculpture (USA). Le sue opere sono state esibite alla XI Biennale di Dak’Art, in Senegal (2014), alla Trienniale di Parigi (2013), alla Biennale internazionale d’arte contemporanea di Siviglia (2006) e alla Biennale internazionale di Sharjah, negli Emirati Arabi (2005). Ricercatrice presso la Smithsonian Institution di Washington (2008), ha partecipato a un programma di residenza per artisti presso il Victoria and Albert Museum di Londra (2014) e ha vinto il premio Uche Okeke per il disegno (1994). Le sue opere sono esposte nei maggiori musei di Stati Uniti ed Europa e sono state incluse nella mostra “BODY TALK: Feminism, Sexuality and the Body in the Work of African Women Artists”, WIELS Contemporary Art Center, Bruxelles; Frac Lorraine, Francia; e Lunds Konsthall, Svezia (2015-16).
Ng’endo Mukii
Da quando mi occupo di cinema e animazione come filmmaker indipendente, ritengo che la questione principale sia l’accesso a finanziamenti e sovvenzioni che supportino il nostro lavoro. È un problema che riguarda in generale tutti gli artisti, a prescindere dal genere. Vivere in un sistema politico che non apprezza o promuove l’arte come pratica culturale attraverso cui realizzare i propri obiettivi fa sì che le nostre attività non siano finanziate (o non lo siano a sufficienza), costringendoci a rimanere consumatori di brand e prodotti culturali stranieri. Questo, a sua volta, impedisce ai nostri prodotti di acquisire valore all’interno della nostra stessa realtà, producendo dunque un circolo vizioso.
Ng’endo Mukii Alle Idi di Marzo nasce una creatura dal fiero temperamento africano. Piccola di statura e riservata per carattere, conduce una vita solitaria sui verdi altopiani del Kenya, con vista sulla savana. Va a scuola dalle suore e lascia la sua casa per sperimentare la superpotenza del secolo. A lungo cammina baldanzosa per le terre della Regina, mangiucchiando focaccine e facendosi largo tra la fitta nebbia. Oggi la troviamo armata di penna digitale e obiettivo macro. Trascorre il suo tempo tra Nairobi e Tsavo, realizzando animazioni con bambini, fotografando scarabei e fuggendo dagli scorpioni.
Si è diplomata alla Royal College of Art di Londra (2012) e alla Rhode Island School of Design di Providence, negli Stati Uniti (2006). Lavora a Nairobi come filmmaker indipendente. Ha partecipato a Berlinale Talents e Design Indaba e i suoi film hanno collezionato numerosi riconoscimenti.
Mónica de Miranda
In un mondo sempre più globalizzato, numerose artiste emergenti provenienti da Paesi in via di sviluppo devono far fronte alle pressioni derivanti dal fatto di lavorare all’estero, anziché nel proprio Paese d’origine, e potersi così realizzare pienamente, entrando a far parte più agevolmente di un network artistico internazionale. Eppure solo una minoranza riesce a lasciare il proprio Paese.
Nel mondo lusofono non vi è un mercato dell’arte, per cui è estremamente difficile intraprendere un percorso artistico… In tale contesto, vi sono pochissime artiste che vivono nel proprio Paese d’origine; se lo fanno, spesso abbandonano la pratica artistica o finiscono per produrre opere più commerciali. Quelle che trovano il modo di andare all’estero devono far fronte a una serie di dinamiche legate all’emigrazione, alla diaspora e ai relativi processi di adattamento, esclusione e assimilazione. Dovendo far fronte a problemi economici e occuparsi dei figli, spesso abbandonano l’attività artistica. Inoltre, per promuovere le proprie opere e ottenere riconoscimenti, devono essere in grado di viaggiare e partecipare alle mostre. Questo può essere estremamente problematico per le artiste che hanno figli e responsabilità domestiche.
Essere un’artista della diaspora africana è diverso dall’essere un’artista che vive nel continente africano. Nel mio caso, facendo parte della diaspora e avendo un passaporto europeo, ho accesso a maggiori opportunità in termini di mobilità, diritti di cittadinanza e scambi culturali; opportunità che artiste con un passaporto africano possono non avere. Muovermi tra due realtà culturali ha facilitato il mio processo di integrazione, ma ha anche generato una sorta di dualismo: non sono mai del tutto africana né del tutto europea. Di conseguenza, a volte, i curatori non sanno dove “collocarmi”. Negli ultimi dieci anni, le voci della diaspora africana hanno beneficiato di una maggiore flessibilità che ne ha favorito l’integrazione.
Mónica de Miranda (nata a Porto, in Portogallo, nel 1976) è un’artista e ricercatrice di origini angolane. Ha conseguito un dottorato in arti visive presso la Middlesex University di Londra (2014), con il supporto della Foundation for Science and Technology. È tra i fondatori del programma di residenza artistica Triangle Network in Portogallo e ha fondato a Lisbona il centro di ricerca artistica Project Hangar (2014). Le sue opere sono state esibite a Lisbona, Londra, Amsterdam, Parigi, Madrid, Dubai, Roma e Singapore e sono state selezionate per la X edizione degli Incontri di Bamako, la XIV Biennale di Architettura di Venezia e la Biennale d’arte contemporanea di São Tomé e Principe. Ha inoltre partecipato a diversi programmi di residenza artistica nelle isole Mauritius, a Londra, a Maputo e in altri Paesi.
Suzana Sousa
Credo che in Angola le questioni più rilevanti riguardino la mancanza di percorsi formativi in ambito artistico (anche se le cose stanno cambiando negli ultimi due anni) e il fatto che la produzione artistica femminile sia considerata per la maggior parte come una forma d’artigianato, più che di arte. Questo è legato a vari fattori: i materiali, l’estetica e il linguaggio utilizzato, ma anche la posizione sociale assegnata alle donne e la capacità di negoziare tale spazio. La verità, dal mio punto di vista, è che molte delle questioni più urgenti alle quali le artiste devono far fronte non hanno nulla a che vedere con il mondo dell’arte ma, più in generale, con la società. L’Angola è una società fortemente paternalista, dove non vi è pluralismo politico. Si tratta di una società dominata dal silenzio e dalla paura, e la posizione sociale delle donne è una questione politica che condiziona profondamente la struttura familiare.
Suzana Sousa (nata a Luanda, in Angola, nel 1981) è una scrittrice e curatrice indipendente. Tra i suoi progetti curatoriali più recenti, Seeds of Memory, Padiglione Angola (Expo Milano, 2015) e Love me Love me Not – Art from the Collection Sindika Dokolo, Biblioteca Almeida Garreth (Porto, Portogallo). Collabora con Contemporary &, Art+Auctions (New York), Goethe Institute Magazine e Arterial Network/ Arts in Africa. Insieme a un gruppo di spiriti indipendenti angolani, ha creato il collettivo culturale Pés Descalços.
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