Cinque lezioni sulla cultura americana di Franco Moretti / Insegnare: l’università in forma di saggio

12 Febbraio 2019

Le lezioni cui allude il sottotitolo dell’ultimo libro di Franco Moretti – Un paese lontano. Cinque lezioni sulla cultura americana, appena pubblicato da Einaudi – sono davvero la “messa in pagina” dell’esperienza dell’insegnare come si possano leggere poesie e romanzi, guardare quadri e film. Il paese lontano sono gli Stati Uniti e gli studenti sono quelli dell’università di Stanford, in California, dove Moretti ha insegnato negli ultimi anni. Il corso da cui sono tratte queste lezioni si chiamava “Literary History”. Era un corso di introduzione generale a tutta la letteratura inglese e americana. Nulla che ricordasse il procedere cadenzato dei vecchi corsi di storia della letteratura, è scritto nell’introduzione al volume: quindi non la lunga “catena di autori e opere” in cui il peso della continuità era tale da “rendere superflua ogni spiegazione”, ma una serie di venti lezioni in cui l’assenza di continuità era dichiarata, “quasi esibita”. Nei cinque capitoli del libro, che propongono altrettante lezioni, Moretti “salta” con grande libertà da una stanza all’altra nel grande edificio della cultura, con l’obiettivo di mostrare ai propri studenti come muoversi e perché valga la pena di farlo. 

 

“È possibile vivere senza conoscere”, ha scritto Richard Feynman, uno dei grandi della fisica teorica del Novecento, quasi a scusante per tutti quelli che hanno vissuto e vivono senza mai avere neppure l’idea che si possa continuare a studiare per tutta la vita. È vero anche, però, che “conoscere rende la vita tanto più ricca”, aggiunge Franco Moretti, citandolo. Per cui dal punto di vista sia di chi deve insegnare, sia di chi deve imparare è sempre più importante quello che si sa e come lo si sa, rispetto al molto che si ignora. Dei tanti pesci che sono nel mare è importante quel che si sa pescare, per sé e magari per togliersi la fame.

Pescare trote in un fiume dell’alto Michigan, cucinarle e mangiarle è quello che fa il protagonista del racconto di Ernest Hemingway, Il grande fiume dai due cuori, cui Moretti dedica una delle lezioni. L’analisi della lingua di Hemingway fornisce la chiave per interpretare il suo stile brachilogico. E permette anche, a noi, di evidenziare aspetti dello stile espositivo dello stesso Moretti, che non a caso, all’inizio del capitolo dedicato a Hemingway, cita una frase famosa del romanziere: “Se un prosatore sa bene di che cosa sta scrivendo, può omettere delle cose che sa, e il lettore, se lo scrittore scrive con abbastanza verità, può avere la sensazione di quelle cose con la stessa forza che se lo scrittore le avesse descritte”. L’immagine cui Hemingway rimanda in queste parole – prese da Death in the Afternoon – è quella dell’iceberg, che ha “soltanto un ottavo della sua mole […] al di sopra della superficie dell’acqua”. 

 

 

Nel caso di Moretti la superficie è quella della lezione, parlata e, nel libro, scritta. Nell’introduzione scrive: quando si deve tenere un corso introduttivo, “uno studia, prende appunti, ci pensa su, pianifica, prepara, prova, parla…”; lavora tanto e poi di tutto quel lavoro – sia nell’ora e mezza di lezione, sia in quello che in seguito decide di scrivere, per evitare che le parole dette se ne vadano “nel vento” – la gran parte rimane non esplicitata, sommersa. (Esperienza nota a chi scrive e, soprattutto, a chi fa il mestiere dell’insegnare.) Subito dopo, Moretti fa una cosa del tutto inusuale. Sulla superficie della pagina in cui è riprodotta per il lettore la mappa della lezione su Whitman e Baudelaire, un fitto intrico di appunti, linee e frecce evoca il sommerso. Quel che si vede sono i frammenti che si staccano da sotto ed emergono – e che in aula saranno i nodi che legano l’argomentazione – a testimoniare tanto l’esistenza dell’iceberg, quanto la materia di cui è composto. 

 

Naturalmente, nella scrittura “essenziale” del libro, quei frammenti e il filo del discorso sono esplicitati per il lettore. Molto viene “detto”, ma lo stile sincopato lascia implicito molto del sommerso. È così quando la logica delle scelte di testi, autori e opere su cui si articolano i confronti non è “spiegata”, quando certi passaggi connettivi sono accompagnati o sostituiti da scatti associativi, quando le similitudini diventano metafore. Gli attrezzi critici vengono prelevati da cassette disciplinari diverse e – in dichiarata polemica verso il “presentismo” dominante nelle università americane – appartenenti a epoche anche lontane dalla presente. L’iceberg di Franco Moretti è assai corposo e i sedimenti al suo interno sono spessi. Quel che risulta è una grande forza e brillantezza comunicativa.

 

A queste si aggiunge l’efficacia del procedimento “per contrasto” (che attraverso lo scritto si può immaginare come funzionasse nelle lezioni). “Forma contro forma”, preannuncia Moretti nella preziosa introduzione. E nonostante il titolo del corso, non sono tutte forme letterarie. I cinque capitoli: due culture e due modi opposti di fare poesia in “Walt Whitman o Charles Baudelaire?”; in “Contrappunto: il western e il film noir”, gli spazi aperti, i colori e gli intrecci scarni dell’uno e le trame oscure, il bianco e nero e le atmosfere claustrofobiche dell’altro. In “Amsterdam, New Amsterdam”, dopo la contrapposizione delle diverse solitudini di Vermeer e Hopper, il diverso senso del colore e dei dettagli negli ottantotto autoritratti di Rembrandt e nei cinquanta ritratti di Marylin Monroe semplificati e standardizzati di Warhol. Poi: l’asciuttezza  (“Fatti, e non parole) delle dinamiche linguistiche di “Grammatica e guerra: Grande fiume dai due cuori di Hemingway” e le sorde opposizioni – familiari, sociali, generazionali – che muovono i personaggi nel dramma di Arthur Miller, “La causalità in Morte di un commesso viaggiatore”. 

 

La strategia argomentativa e didattica è dichiarata nell’introduzione: “Ogni lezione esplorava tre dimensioni interconnesse della forma letteraria: l’uso del linguaggio e della retorica; il contesto storico del suo emergere; e il tipo di piacere estetico che sembrava promettere ai contemporanei. Tecnica, società e piacere: il ‘come’, ‘perché’ e ‘a che scopo’ della letteratura. […] Non era importante da dove partisse il ragionamento […] l’importante era riuscire a toccare tutti e tre gli aspetti del concetto di forma, rendendo così giustizia alla sua complessità”. E “problematicità”, conclude, citando Lukács. Gli intenti dichiarati sono rispettati anche nella rielaborazione scritta delle lezioni. Di queste, non tutte prendono il lettore allo stesso modo; per esempio, non mi sentirei di affermare che il commesso viaggiatore sia stato portato a nuova vita… Dappertutto, però, stimoli, chiamate alla riflessione e aperture al confronto (“…e io come la penso?”). E infine, la scelta che precede il libro stesso: mettere in piazza la forma, anch’essa complessa, del proprio lavoro dell’insegnare. Più elegantemente Moretti dice: “L’università in forma di saggio”. Aperte le porte dell’università; opera aperta, a rendere chiaro il senso politico del lavoro culturale.   

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