Inside Out. Del cinema cognitivista

17 Novembre 2015

I film per bambini sono il risultato di un’impresa immane: devono piacere al target elettivo, gli infanti, ma anche ai genitori che li accompagnano. Altrimenti gli adulti, spettatori coatti, direbbero “Possibile che io debba portare i miei figli a vedere simili baggianate?” e finirebbero col sabotare l’andata al cinema, malgrado pianti e strilli dei piccoli. Occorre quindi evitare anche agli adulti – ai quali capita anche, talvolta, di essere persone colte – una emozione che non è prevista nel film Inside Out: la noia. Un’emozione fondamentale per scrittori e filosofi – se ne occuparono Kierkegaard, Sartre, Moravia, Agamben – ma evidentemente non per l’Ekman-Pensiero. Si dà il caso che questo film della Pixar e di Disney – scritto e diretto da Pete Docter e Ronnie del Carmen – sia ispirato alle teorie del citatisssimo psicologo Paul Ekman, il quale ha “scoperto” che ciascuno di noi è retto da sei emozioni fondamentali: rabbia, paura, tristezza, disgusto, gioia e sorpresa. I registi hanno eliminato la sesta, ma saggiamente si sono parati i fianchi dalle ire femministe dando a ben tre delle cinque emozioni rimaste personificazioni femminili, e riservando figure maschili alle emozioni in fondo più antipatiche, Paura e Rabbia.

 

Un film come Inside Out, come del resto qualsiasi film americano cucinato per rastrellare una barca di soldi, è un prodotto minuziosamente scientifico. Non meno delle pubblicità, la principale applicazione delle scienze un tempo chiamate umane. Nessun particolare, siate sicuri, è lasciato al caso. Prima che il film venga dato in distribuzione, sue versioni precedenti vengono proposte a campioni di spettatori, di cui si studiano le reazioni, quindi il prodotto verrà aggiustato in relazione a queste reazioni. Come si fa in qualsiasi laboratorio di scienze cognitive oggi. François Truffaut fece rivelare ad Alfred Hitchcock (Il cinema secondo Hitchcock) strategie e stratagemmi per divertire il pubblico a cinema, ma all’epoca il cinema aveva basi artigianali, tutto dipendeva da come il signor Hitchcock si alzava la mattina; oggi strategie e stratagemmi dell’industria del cinema hanno raggiunto un alto livello tecnologico di seduzione cognitivista. Inside Out, rappresentando la nostra mente come una efficiente organizzazione industriale, non manca quindi di una involontaria ironia auto-referenziale: il film stesso, come la mente che descrive, è una quasi-perfetta organizzazione tecnologica. La mente secondo la Pixar è una proiezione fiabesca della Pixar stessa.

 

Entry Hall del Corporate Campus della Pixar

 

L’idea di rappresentare l’anima come un’impresa tecnica complessa non è nuova. La tirò fuori già nel 1972 Woody Allen in un episodio del film Everything You Always Wanted to Know About Sex* (*But Were Afraid to Ask). L’avventura amorosa di un signore un po’ imbranato di cui non si vede il volto, dal corteggiamento al ristorante fino alla copulazione finale, viene vista dal punto di vista della “mente” del seduttore, rappresentata come una base NASA nei film di fanta-astronautica: l’atto di Afrodite esige un’organizzazione sofisticata, come se si trattasse di spedire una navicella spaziale su Marte. Ad esempio, l’eiaculazione finale è resa con l’allinearsi di una serie di paracadutisti vestiti da spermatozoi lungo un canale chiuso, pronti al lancio da un oblò… Qui Allen faceva il verso a un genere cinematografico oggi più che mai florido, che chiamerei fanta-tecnologico. Ma quel che in Allen è satira buffonesca in Inside Out diventa un dramma strappalacrime per famiglie. Un’idea cinematografica si ripete sempre due volte, la prima come farsa, la seconda come…

 

Questo film spettacolarizza – e obliquamente insegna – certe teorie cognitiviste che oggi vanno per la maggiore. (Con scienze cognitive si intendono oggi tutte le ricerche che abbiano per oggetto processi mentali umani, dall’antropologia culturale alla neuroscienza, facendo uso di metodologie scientifiche.) Il cognitivismo classico proponeva come modello di mente umana il computer. La nostra anima sarebbe un software che gira in un hardware non metallico chiamato volgarmente cervello. Col tempo questo modello è stato superato, persino dileggiato, dalle neuroscienze e si è giunti a modelli simili a quelli che questo film mette in scena: la mente è una vasta organizzazione di tipo industriale. Alla base c’è l’idea meccanicista: che l’essere umano, come qualsiasi essere vivente, è una macchina biologica. Una macchina che non serve a nulla di preciso, ma pur macchina è, quindi determinista. Un modello che risale all’illuminista homme-machine di Julien Offray de La Mettrie. Questo modello meccanicista su base evoluzionista darwiniana (tutto ciò che vive è stato selezionato perché ottimizza l’adattamento all’ambiente) è comunque in via di evoluzione: stiamo passando da un modello ferroso (automobili, aerei, computer, cellulari) a un modello imprenditoriale-manageriale del meccanicismo mentale (grandi organizzazioni amministrative o produttive, laboratori di ricerca). Vorrei visitare gli stabilimenti della Pixar per vedere fino a che punto essi non riflettano l’immagine dell’anima che i suoi poeti tecnocrati ci danno, e che grazie al successo di questo film diventerà sapere comune di decine di milioni di persone.

 

Il mind ha un quartier generale, Head Quarter (letteralmente: Quartiere di Testa) che mi fa pensare al luogo dove deve stare Sergio Marchionne, ad esempio, per poter sfornare, giorno dopo giorno, le migliaia di Fiat e Chrysler da vendere. Questo Quartiere di Testa – “la stanza dei bottoni” la si chiamerebbe in politica – è rappresentato come un’alta torre con una cupola di cristallo da cui si vede un ampio paesaggio della mente che ricorda molto Disneyland. In questa cupola c’è una tastiera che ricorda le Play Station, o la plancia di comando dell’astronave Enterprise di Star Trek. La sorpresa filosofica è che non c’è un Marchionne unico, un CEO accentratore, una mente razionale, dietro questa tastiera ma un Board di amministratori delegati, ovvero le suddette cinque emozioni. Tra questi Emotion AD non c’è una gerarchia definita, anche se Gioia è tra tutte quella che più si dà da fare, la più arrivista diremmo. È una direzione collegiale come quella della Serenissima Repubblica di Venezia ma senza Doge. Il primato delle emozioni deriva dal fortunato modello del neuroscientist Antonio Damasio, modello acefalo che deve anche piacere ai genitori di tendenza libertaria che si godono il film assieme ai loro pargoli.

 

Sarebbe però miope pensare che questa rappresentazione della mente – nel caso specifico di Riley, bimba undicenne che l’oligarchia Cinque Emozioni deve monitorare – rifletta semplicemente la hybris tecnologica di oggi, per cui l’anima è ridotta a macchina gestionale. Da secoli fioriscono teorie che prendono come modello della mente l’invenzione tecnologica più avanzata e spettacolare. Nel Settecento, ad esempio, era preso a modello dell’anima l’orologio meccanico; nell’Ottocento si era soliti paragonare la mente umana a una stazione telegrafica. Poi, con l’emergere del computer, ci è stata ammannita la teoria della mente-software. Ma in realtà la tentazione di rappresentare la mente umana come uno strumento tecnico prodotto dalla stessa mente umana risale a molto più tempo addietro.

 

Già nel Fedro, Platone propose un’immagine tecnologica della psyché, anima: era come una biga diretta da un auriga e trainata da due cavalli. Ricordiamo del resto che psyché era per i greci tutto ciò che si muove senza essere mosso da altro: la psiche è il principio del movimento vivente stesso. La psicologia nasce come sapere locomotorio. Il guaio della biga mentale, per Platone, però è che i due cavalli sono discordanti: quello bianco è pudico e temperante, quello nero è impudico e intemperante. Oggi possiamo trovare alquanto aulica e vetusta questa immagine della biga, ma dobbiamo ricordarci che quel carro era, come il computer oggi, l’oggetto della tecnologia di punta dell’epoca. Era grazie alle bighe che i greci vincevano le guerre, ed erano, dopo le navi, gli strumenti di locomozione all’epoca più veloci. Se Platone avesse scritto nel nostro contesto tecnologico, avrebbe detto che l’anima umana è un Concorde con un pilota che se la deve vedere però con due motori discordanti, uno tende a far salire l’aereo e l’altro invece a farlo scendere, e il secondo vinse anni fa all’aeroporto di Roissy a Parigi quando il Concorde andò a sfracellarsi per terra.

 

Salta qui però agli occhi una differenza di vaglia tra la biga di Platone e gli AD della Corporation mentale di Inside Out: che Platone mette in rilievo – non diversamente da Freud – il conflitto, la discordanza alla base della psyché umana, mentre il cartone animato parte da una metafisica diversa, detta psicologia evoluzionista: di fatto le Emozioni o Psico-managers non sono in conflitto, tutte collaborano per massimizzare la felicità e il benessere di Riley, ovvero di ciascuno di noi. Anche quando litigano, l’obiettivo strategico della Corporation non è mai messo in discussione: Happiness. Questa teoria, oggi dominante nelle facoltà di psicologia, si basa sul suddetto restrittivo darwinismo: tutto nell’essere vivente è frutto di adattamento all’ambiente. Quindi, in linea di principio, l’essere umano è perfetto. Anche le cinque emozioni della dottrina Docter sono il meglio che si possa avere.

 

I guai, per la mente umana, vengono dai cambiamenti ambientali. E difatti il film si impernia sulla crisi che attraversa la piccola Riley – figlia unica, si badi, sul modello clintoniano (è una Chelsea di cartone) – quando i suoi si trasferiscono da una zona campagnola del Minnesota, tipico stato “burino”, nella grande e super-chic San Francisco. Per il neo-darwinismo, tutto andrà bene se la mente riuscirà ad adattarsi al nuovo ambiente, cosa che alla fine avverrà, il lieto fine non è un optional.

 

Ci vorrebbe un libro intero per sviscerare i perché di ogni dettaglio del film. Alcuni tratti sono legati strettamente alla vita americana, e risultano incomprensibili a chi americano non è. Ad esempio, nel film svolge un ruolo importante il radio flyer wagon, ovvero il piccolo carro a rotelline, indefettibilmente rosso, che qualsiasi bambino americano ha o ha avuto. Giocattolo ignoto ai bambini italiani, ma magari proprio grazie a questo film i genitori italiani prenderanno a regalare ai loro marmocchi radio flyers, confermando così che la vita imita l’arte (ovvero, che i paesi più forti impongono a quelli più deboli i loro costumi culturali, come è accaduto con Halloween). Altro esempio: c’è un train of thoughts, termine comune in inglese per dire il flusso continuo dei pensieri, metafora che nel film è presa alla lettera come un treno che percorre un binario beante che si crea man mano che il treno avanza; ma nessuno in Italia dice “treno dei pensieri”. Eppure il film piace anche a chi non capisce l’inglese. Per alcuni questo è un mistero. I miei amici di madrelingua inglese si dicono stupiti dal fatto che si possa gustare Shakespeare in traduzione! “Come voi italiani potete godere della vecchio inglese così particolare di Shakespeare, del suo ritmo poetico, del gergo!...” Eppure qualcosa di Shakespeare, malgrado la prolissità di ogni traduzione, passa. L’arte non è solo sapore linguistico.

 

Ovviamente Tristezza è tutta blu perché blue in inglese connota tristezza; se il film fosse stato girato in Italia Tristezza sarebbe stata grigia. Tristezza è stata costruita esattamente come il tipo di bambina che un’americana di undici anni oggi assolutamente non vorrebbe essere manco morta: grassottella, senza linea, con grandi occhialoni, porta un maglione a girocollo considerato oggi fuori moda, unkempt, trasandato, drab, sciatto. Particolare interessante: l’invernale Tristezza porta pantaloni, mentre l’estiva Gioia ha un gonnellino verde leggero e alquanto corto che fluttua mentre cammina e le lascia nude le braccia. Gioia appare ancora bimba, ma una di undici anni sa che da lì a poco quel gonnellino oscillante attrarrà come un magnete gli sguardi maschili che sotto la stoffa “vedranno” cosce e fondoschiena. È evidente: gli scienziati cognitivi artefici del film hanno scoperto che anche per una bambina la gonna è un abito sexy, i pantaloni no, a dispetto del fatto che Riley, la protagonista, li indossi.

 

Il fatto che Tristezza porti due enormi occhiali comporta un corollario: che anche la madre di Riley ha occhiali. Se li avesse portati solo Tristezza, sicuramente la League for the Four Eyes Pride (Lega per l’Orgoglio dei Quattrocchi) avrebbe magari proposto il boicottaggio del film da parte di tutti coloro che non portano lenti a contatto (ho inventato questa Lega, ma mi meraviglierebbe se non esistesse. Ci sono lobbies per qualsiasi menomato in US). Quanto al padre, porta dei baffetti fin quando sta nel verde del Minnesota, poi quando si trasferisce a San Francisco ai baffi aggiunge una peluria di barba non rasata, molto cool oggi. Insomma, da padre di provincia che era diviene un padre da metropoli swinging. I politicamente corretti hanno accusato il film di ribadire un cliché sociale: è il padre a cambiare lavoro, e la moglie docile lo segue. È vero, ma questo cliché corrisponde di solito alla realtà, ancora.

 

E perché la famiglia di Riley si trasferisce proprio a San Francisco piuttosto che a New York o a Chicago? Perché San Francisco è la Silicon Valley, e in quale campo può lavorare un padre ideale, se non nell’industria informatica? San Francisco poi mantiene la nomea di città alternativa, inquietante, anti-conformista – l’opposto del Minnesota.

 

Se la brutta Tristezza è tutta blu, Gioia però ha i capelli azzurri. Cumula il prestigio dei capelli turchini della fata di Pinocchio con la moda della capigliatura a chiazze azzurre. Questa svolge un ruolo cruciale di seduzione nel film di Abdellatif Kechiche Vita di Adele, magistrale opera che mostra le migliori scene di sesso lesbico viste al cinema fino a oggi, e il cui titolo inglese è Blue is the Warmest Color. Emma giovane omosessuale seduce un’Adele acqua e sapone sfoggiando capelli colorati di un bellissimo blu. Joy ha ossimoricamente caldi capelli blu. Notiamo anche che in certi momenti, quando Joy è tutta in primo piano, si nota una sorta di sfarfallio o pulviscolo cromatico attorno al suo corpo – forse un’allusione alle aureole dei santi nell’iconografia cristiana, ovvero all’emanazione dorata della loro eccellenza. Più banale è Rabbia, un burbero a forma di tappo che quando è furibondo erutta come un vulcano, e che porta una minuscola cravatta – si vede che per gli americani oggi la cravatta è indumento sempre più irritante.

 

Qualcuno ha accusato questa rappresentazione della mente di regredire al modello dell’homunculus entro la testa secondo un vecchio modello cartesiano. Ma le Emozioni qui non sono tanto omuncoli quanto allegorie. Da sempre si personificano cose astratte, lo facevano già i Greci – Aristofane personificò Ricchezza, Platone le Leggi ateniesi. Nella Divina Commedia Beatrice personifica la Grazia e la teologia, Pasolini personificò in un corvo l’intellettualità di sinistra (Uccellacci e uccellini). Ecc. ecc. Le fiabe non vanno interpretate col metro della correttezza filosofica.

 

In questo sito industriale che è la mente i ricordi sono palline, colorate a seconda delle emozioni (aurei se sono gioiosi, blu se sono tristi, beige se sono paurosi, verdi se sono disgustosi, rossi se sono rabbiosi). I ricordi sferici evocano le palle del bowling, e in effetti essi si riversano nella coscienza attraverso tubi e nastri che ricordano la tecnologia di tutti i giochi con palline, a cominciare dal vecchio flipper. Ma la mente secondo Docter-del Carmen non è tecnologia povera, puerile. I ricordi sono milioni, stoccati in una serie di hangar che ad alcuni ricordano le scatole di caramelle a sfera, ad altri invece i depositi delle palle di cannone. I ricordi non sono messi alla rinfusa, insomma, ma ben stipati in rigidi contenitori, perché la mente, per il cognitivismo, è una fabbrica “giapponese” bene ordinata.

 

Colpisce l’ingenuità dei commenti di tanti psicologi recensori di questo film. Alcuni inneggiano al fatto che Tristezza, in un primo momento emarginata come emozione pericolosa, nel corso del film si riveli invece fondamentale per mantenere l’equilibro affettivo del soggetto. “Finalmente si insegna ai bambini che la vita non può essere solo gioie, che bisogna valorizzare anche la malinconia e il dolore!” In realtà qui la storia di Tristezza fonde Amleto e il Brutto Anatroccolo. Sono millenni che – a cominciare dall’Ecclesiaste e da Aristotele – la cultura occidentale batte sempre sullo stesso tasto: che il malinconico è l’essere più nobile. Amleto, quasi cliché del malinconico barocco, viene preso da tutti per un pazzo e poi alla fine lo si rimpiange perché sarebbe stato un ottimo re. Amleto si rivela grandioso solo alla fine, come il brutto anatroccolo. Docter non fa che rimescolare, zuccherandola, l’antica tradizione europea della dotta Malinconia. Difatti Tristezza è un’intellettuale, non solo perché porta occhiali, ma perché è la sola che abbia letto tutti i libri cognitivisti, l’unica insomma che sa come funzioni davvero la mente… Da Aristotele alla Disney-Pixar, si conferma l’idea che la scienza è malinconica, che studiare è triste, ma – badate, bambini! – la scienza per quanto dismal, lugubre, è nobilitante e utile. I genitori possono mandare tranquillamente i loro figli a scuola.

 

Oltremodo ingenuo è l’apprezzamento, da parte di psicologi, del fatto che la mente sia guidata non da un’istanza razionale, gelida, ma da emozioni. “Evviva, il cinema ci dice che noi esseri umani siamo soprattutto esseri affettivi!” Ma in effetti, contrariamente a quel che fa pensare il nome, il cognitivismo è soprattutto una teoria delle emozioni. Il cognitivismo ci assicura che tutte le emozioni sono adattive, e che esse vanno calibrate al meglio in modo da assicurare la sopravvivenza e la soddisfazione dell’individuo o fenotipo che dir si voglia. L’anima umana è una serie di pistoni che dovrebbero muoversi in modo coordinato, e questi pistoni sono affetti. Ciascuna emozione ha un nome e un colore, le emozioni si scontrano come palline in un biliardo lanciate dalla stecca degli “stimoli esterni”. Certo anche Proust si occupava di emozioni, ma appunto, nella sua scrittura esse non hanno nome: tutto il testo proustiano è emotivo, ma non viene entificata nessuna emozione. Del resto c’è un’incertezza, un flou, tra ogni emozione, che scivola ironicamente nell’altra. Inside Out è l’anti-Recherche, anche se si impernia sul tempo perduto di Riley.

 

Come in altri film per bambini-accompagnati-da-adulti, ogni tanto si fa l’occhiolino filosofico al pubblico più egg head. Ad esempio, nel train of thoughts ci sono cassette su alcune delle quali è scritto FACTS e su altre è scritto OPINIONS. Ma quando fatti e opinioni si versano fuori dalle casse, gli eroi restano interdetti “Fatti e Opinioni si assomigliano tanto da essere indistinguibili!” Gli sceneggiatori hanno letto Umberto Eco?

 

Alcuni commentatori lamentano invece la pessima immagine che vien data del pensiero logico-matematico in una delle sequenze più divertenti (per me). I tre eroi – Gioia, Tristezza e Bing Bong, una mostruosa creatura prodotta dalla fantasia infantile – entrano in uno stanzone che potrebbe essere una scorciatoia per non perdere il treno dei pensieri. Sull’entrata dello stanzone c’è scritto DANGER, ma gli eroi vi entrano lo stesso, diventando così prede inermi del pensiero astratto. Diventano bidimensionali e poi addirittura unidimensionali, ognuno di loro è un segmento vermicolante... “È educativo dare ai bambini l’immagine della matematica come di una pericolosa deformazione semplificatoria del vivente?”, protestano alcuni. In realtà questa sequenza è un’altra strizzatina d’occhio a mamme e papà che seguono il dibattito intellettuale sulla New York Review of Books o su The Guardian: la stanza delle astrazioni che mostrificano è in realtà l’arte e la filosofia contemporanee, post-moderne. Nella prima fase deformativa, difatti, gli eroi assomigliano a figure di Picasso o di Max Ernst, finché l’astrazione non prevale e difatti urlano “Non siamo più figurativi!”. Ma, peggio ancora, passano per una fase decostruzionista: ogni eroe si smembra in vari pezzi, come i testi decostruiti da Derrida. La breve Odissea cubista-astratta-derridiana-topologica dà quindi un’immagine perturbante, uncanny, unheimlich, della cultura moderna più sofisticata, ma può anche sedurre una élite di bambini occhialuti i quali, quando saranno nerds grandicelli, potranno decidere di iscriversi a Matematica o a Comparative Literature (la facoltà postmoderna).

 

Che cosa questo film di propaganda cognitivista ci fa perdere del modello di soggettività proposto invece dalla psicoanalisi? Innanzitutto, direi, il corpo – inteso come carne – insomma l’eros. Il gioiello tecnologico di Platone, la biga, appare in un dialogo tra Fedro e Socrate proprio sull’eros, e sull’eros pederastico in modo particolare. I due cavalli della biga in effetti si muovono verso il bel ragazzo, e il loro contrasto che l’auriga deve cibernetizzare è tra “sodomizzo l’efebo?” oppure “non lo sodomizzo e gli parlo di filosofia?”. Conflitto tra istanze e primato dell’eros sono il filo rosso che, scavalcando oltre due millenni, unisce la visione di Platone a quella di Freud. In Inside Out invece manca la carne. Le Emozioni CEO reagiscono solo a eventi esterni, non c’è nulla di endogeno, per dir così, non c’è traccia di libido. Nemmeno di libido dell’Io, come sarebbe l’invidia – il personaggio verde come broccoli è Disgusto, rappresentata come signora chic con la puzza sotto al naso, ma non c’è la più fondamentale Invidia. Nessuna delle cinque emozioni è Eros, e le ossa di Freud si rivoltano nella tomba. Certo non ci fanno vedere il fenotipo Riley mentre si masturba – eppure a undici anni molte ragazze si toccano già il clitoride – anche se alla fine del film quando la protagonista compie dodici anni, l’Head Quarter riceve una Play Station nuova con un tasto chiamato PUBERTY. Che cosa è? “Niente di importante” dice Gioia, la quale presagisce che la pubertà ahimè più che gioie porterà dolori, e che allora Tristezza diventerà la CEO, dato che “post masturbationem omne animal triste est”.

 

Certo possiamo vedere la crisi del trasloco dal Minnesota a San Francisco come una metafora prefigurativa della pubertà, dato che quest’ultima è come un trasloco della propria pulsionalità. La anticipa il fidanzato fantasticato da Riley, un ragazzo un po’ idiota che ripete sempre la stessa frase, “Darei la vita per Riley”, e che si proclama canadese – forse perché il Minnesota confina con il Canada, o forse un omaggio obliquo al sistema sanitario canadese, che per i liberals americani andrebbe preso come modello.

 

Nel film non c’è traccia del modello freudiano, anche se a un certo punto gli eroi finiscono in una sorta di prigione sotterranea chiamata Subconscious, dove “vanno a finire tutti quelli che make trouble, quelli che fanno casino”. Ma l’inconscio freudiano non è un deposito da cui ogni tanto evadono immagini terrificanti, tipo il clown da compleanni che è rimasto nel fondo di Riley come una delle sue esperienze più mostruose (è vero, i bambini piccoli detestano i clown). Se dovessi scegliere il tipo di cinema che meglio rende il modello freudiano della mente direi che sono i film di zombie. L’inconscio è sempre qualcosa che dilaga, occupa, si impone, ci minaccia; non è pezzetti di spavento conservati per anni in un cassetto polveroso.

 

È notevole che da quando si è imposto uno stretto naturalismo cognitivista il linguaggio comune, e anche quello degli psicologi, diventa sempre più sentimentalista, melassa emotivista. Sempre più, anche nei CIM, assistiamo a una continua sbrodolatura intimista di patemi e gaudemi.

 

Lo ha ben illustrato il film Her di Spike Jonze (2014): in un’epoca futura che sembra molto vicina alla nostra sono stati inventati dei Sistemi Operativi, ovvero computerini racchiusi in una scatoletta da smartphone che sono in grado di apprendere con una velocità assolutamente fantastica (quel che l’umanità ha prodotto in millenni, lo imparano in pochi secondi) e che quindi ben presto evolvono in menti umane più sagge e “umane” di quelle di Homo sapiens. Molti umani si innamorano di loro. Siamo nella fase più avanzata del meccanicismo: tutte le menti sono macchine, of course, ma macchine così complesse da essere imprevedibili, deterministe ma non determinabili, per cui sono possibili sempre sorprese. È un tema quasi ossessivo in fantascienza: la macchina cessa di ubbidire all’uomo che l’ha costruita; ma questa macchina che non obbedisce è in fondo Homo sapiens stesso. Ora, quel che colpisce nella società ravvicinata di Her è che essa da una parte ha eliminato tutta la letteratura di fiction, ormai si legge solo scienza e matematica; ma dall’altra in questa società dominata completamente dalla tecnoscienza gli umani si inzuppano la bocca con interminabili discorsi sulle loro emozioni e moti del cuore. È come se quell’intreccio fondamentale tra emozione e sapere, tra eros e “ragionare”, che è matrice di tutti i capolavori artistici e filosofici, si fosse dissolto: da una parte il sapere si è ridotto alla conoscenza scientifica, dall’altra le relazioni con gli umani (o con macchine super-umanizzate) si sono ridotte a una sentimentalità vuota, che non ha nulla da scoprire né da interpretare. Questo mondo dominato dalle scienze cognitive è insomma un mondo mieloso dove ci si guarda sempre il proprio ombelico affettivo.

 

Ora, Inside Out marca questo snodo: proprio perché le nostre menti sono macchine lamettriane, le emozioni sono i suoi veri amministratori delegati. Il linguaggio-base non è più quello del nostro essere-nel-mondo, è quello delle interazioni tra emozioni. Le vere azioni vengono dalla realtà esterna, e la mente umana non è altro che reazioni emotive. È proprio ciò contro cui era sorta la psicoanalisi: per essa le emozioni interessanti hanno un oggetto nascosto, rispondono a un reale che ci sfugge. L’angoscia, ad  esempio, non è paura senza oggetto, ma una paura che ha perso il suo oggetto e che va quindi ricostruito, per cui analisi degli affetti e ricerca di ciò che li causa sono una cosa sola. In psicoanalisi sapere e libido si embricano. Ma questa embricazione farebbe saltare la Corporation mentale costruita dal film. Mi si dirà: ma questo film ti è piaciuto o no? Non mi interessa mettere voti ai film, voti che si basano sempre su emozioni – è il caso di dirlo – personalissime. Mi interessa decostruire i film. Spero qui di averlo fatto, anche a costo di perdere il treno dei pensieri.

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