Intervista a David Foster Wallace

7 Novembre 2011

Potrebbe sembrare paradossale ricondurre la scrittura di David Foster Wallace, così ossessivamente ripiegata sul dettaglio, a una autentica urgenza narrativa, eppure proprio di questo si tratta, di una necessità espressiva che sembra non conoscere le lusinghe del narcisismo, e non soltanto perché proprio questo vizio così diffuso tra gli scrittori lui stesso lo detesti e lo denunci in uno dei saggi che compongono il suo ultimo libro, Considera l’aragosta (Einaudi, traduzione virtuosistica di Adelaide Cioni e Matteo Colombo, pp. Euro 15,50) ma perché è evidente che, quasi suo malgrado, a esigere una tanto spasmodica concentrazione su quanto si offre alle sue facoltà percettive è una convinta devozione al realismo. Di qui si originano le famose digressioni dei suoi testi, che si aprono davanti ai nostri occhi come gli anelli concentrici generati da una moneta lanciata nell’acqua, obbligando lo sguardo a precipitare molte righe più in basso e a rimettere a fuoco il corpo tipografico che affonda nella pagina e si fa più minuto: non sono soltanto note a piè di pagina, ma avvertenze alle note stesse e poi ancora asterischi a segnalare ulteriori precisazioni di quanto già appariva di non primaria importanza, interi blocchi di scrittura che rimandano a trasparenze sommerse, aprendo nel testo vortici potenzialmente senza fondo. Potrebbero dirsi esercizi di esitazione, quelli in cui Wallace si esibisce senza volere mostrare altro che quanto la sua mente registra e non intende tralasciare, impossibilità a congedarsi da ciò che resta ancora da dire, così che ogni intento narrativo viene ibridato da divagazioni in forma di piccoli saggi, mentre ogni pretesa meramente referenziale conosce inserti in cui si annidano piccoli racconti, dialoghi, aneddoti che restituiscono fiato alla acribia descrittiva. Sia che stenda pagine e pagine sull’industria della pornografia, sia che si dedichi a indagare le perversioni culinarie implicite in un Festival dell’aragosta, David Foster Wallace si documenta fino allo spasimo e vuole rendercene conto, così come quando vuole penetrare “il ventre molle” della lessicografia statunitense, o desidera convincere i suoi studenti circa la natura comica della prosa kafkiana, o mostrare le istanze etiche del romanzo dostoevskiano. Qua e là frecciate autobiografiche ricordano che la sua vigilanza non conosce tregua: “essere cronicamente propenso a sogghignare/sussultare per l’uso altrui della lingua tende a rendermi cronicamente ansioso per i sogghigni/sussulti altrui per il mio uso della lingua” - scrive.

Ci si prepara, dunque, a incontrarlo con una certa apprensione motivata dai molti dettagli acquisiti in merito alle sue intolleranze, che investono tanto le imprecisoni linguistiche quanto gli indugi sul senso comune e, naturalmente, la retorica del politically correct. Come dargli torto, poi, quando scrive che il “grande errore della sinistra” non è un vizio concettuale né ideologico, bensì di vanità: un vizio generato dall’“attaccamento narcisistico a presupposti” che accrescono “l’immagine di virtuosi” in chi li coltiva. Conviene, inoltre, sgombrarsi la mente da tutti i fardelli che porta con sé la sua biografia di ragazzo provato sul terreno di molte esperienze, così come sarebbe utile tornare a leggerlo emancipati dai troppi esclamativi che hanno circondato l’immancabile celebrazione del suo talento; non perché siano mal riposti, ma perché sembrano ormai un tributo che la critica versa a se stessa, soddisfatta della sua scoperta e timorosa di volerla indagare più a fondo. Ci atterremo perciò, nel rendere conto di questo incontro, a quel che David Foster Wallace ha offerto di sé durante il suo primo approdo italiano: una quasi commovente gentilezza di modi e di sostanza, una fisionomia più matura di quella documentata dalle rarissime fotografie circolanti, e poi la riluttanza a consegnarsi alle prime parole che affiorano alle labbra, perché ce ne sono sempre di più puntuali, anche se il tempo di una conversazione non consente altrettante dilazioni di quelle ammesse dalla scrittura. Nonostante il timore che lo prende a traversare oceani sospeso nell’aria, David Foster Wallace è approdato a Capri dove domani concluderà con la sua lettura la prima edizione del Festival Le conversazioni


Il senso comune sulla scrittura artistica tende a privilegiare il procedere “per levare”, ossia quella costruzione letteraria che sottrae materia al blocco iniziale, che lima, che si asciuga progressivamente. Lei invece si inoltra nel testo sommando nuovi materiali a quelli già esistenti, infila sequenze di precisazioni, carica di pesi piuttosto che alleggerire. A quale esigenza corrisponde questa abitudine?


Quando si allude al senso comune in realtà si sta prendendo una posizione, parteggiando per una idea. Certo, gli scrittori minimalisti sottoscriverebbero la sua affermazione, ma altre scuole non la condividerebbero. Per parte mia, direi che ogni testo scritto, ogni opera letteraria è per forza di cose il risultato di una sottrazione alla infinita possibilità di combinare le parole tra loro. L’arte tende in massima parte a rendersi mimetica del reale e con i miei libri lo faccio anch’io; ma più che il mondo fisico mi preme riprodurre il modo in cui funziona la mente, in cui si articolano i pensieri. La mia scrittura insegue la voce del cervello, ma per realizzare questo obiettivo non uso le tecniche moderniste, il flusso di coscienza alla Joyce o alla Virginia Woolf. Perché non mi interessa ricalcare il modo in cui le persone parlano, i loro dialoghi realistici, preferisco cercare di riprodurre il suono dei pensieri e il modo in cui procedono. Quindi affido i discorsi tra le persone a una scrittura rapida, molto densa, che procede per associazioni di idee, perché ognuno di noi quando parla al tempo stesso proietta i propri pensieri in direzioni diverse da ciò che sta dicendo. E volendo ricreare un effetto del genere, mi servono molte parole, e una struttura del discorso articolata.


Forse si potrebbe stabilire un nesso tra quel che lei scrive in uno dei racconti pubblicati in “Oblio” - ossia che spesso i fatti più significativi avvengono alla periferia della nostra coscienza - e la sua abitudine di relegare nelle note a piè di pagina porzioni molto significative dei suoi testi...


A me sembra che la scrittura letteraria implichi una forma di distorsione di quanto effettivamente avviene nella comunicazione corrente, dove non succede mai che chi parla sia concentrato unicamente su quel che dice o su ciò che ascolta. Per la testa, intanto, ci passano sempre altri pensieri, e più o meno consapevolmente l’attenzione si sposta di continuo. Al contrario, quando si legge il dialogo riprodotto in un testo, si richiede alla concentrazione di seguire in modo lineare un passaggio alla volta. A questo punto, si offrono allo scrittore due modi di riprodurre quanto avviene nella vita vera: tagliare via le digressioni del pensiero, limare tutto ciò che non riguarda l’argomento principale creando l’illusione di una realtà a una dimensione, oppure riprodurre per quanto possibile la multiformità del pensiero. Il significato delle mie note a piè di pagina sta nel ricordare che sono tante le cose che attraggono allo stesso tempo l’attenzione. Ma in questa costruzione dei miei testi non intendo stabilire gerarchie, dunque non direi che affido alle note ciò che mi sembra più significativo; semplicemente, vorrei ricalcare in modo realistico quel che effettivamente avviene nella nostra testa, stabilendo una relazione tra il testo principale e le note.


Come quasi tutti gli scrittori, anche lei si considera un realista. Almeno in questo non costituisce una eccezione. Però, in tutto il campionario dell’umanità sembra la attraggano soprattutto figure di relitti umani, di sbandati, di emarginati dalla società in virtù di una loro qualche deformità fisica o mentale. È d’accordo?

 

Il realismo che mi interessa riguarda il campo cognitivo, psicologico. Non mi preme dare una rappresentazione fedele del mondo che ci circonda, vorrei però che quanto scrivo suonasse attendibile, e le ossessioni psicologiche, le stranezze mentali sono tra ciò che più mi interessa. Non molte tra le persone che conosco pensano a se stesse come integrate nel contesto in cui vivono, più o meno tutti si considerano fuori dalla norma, e spesso è proprio la società americana a indurre dinamiche mentali folli, a fare deviare la nostra psiche; almeno, a me così pare. Per quel che riguarda la deformità fisica, poi, è essa stessa causa di storture mentali. L’americano medio è in perenne stato di allerta sulle sue apparenze estetiche, vigila sul modo in cui lo si guarda, è ossessionato dal fatto di vendersi bene agli altri.


Il primo saggio del suo ultimo libro riguarda l’industria della pornografia. In queste pagine, come spesso nei suoi testi narrativi, sembra che lei voglia ovviare alla noia che sempre si sprigiona dalle scene di sesso proiettando su di esse grandi dosi di ironia; in più, qui sembra suggerire una qualche affinità tra l’aumento della violenza nel commercio sessuale e lo stile di vita inaugurato dagli anni ‘80. È così?


Mi sembra una associazione interessante. La stessa logica che ha governato la degenerazione del capitalismo negli anni ‘80 e l’attrazione per il denaro ha anche guidato la richiesta di un consumo sessuale sempre più estremo, più violento, che spostasse il limite della inaccettabilità. La pornografia era nata per provocare l’eccitazione sessuale e dunque la masturbazione, ma era possibile accedervi solo andando al cinema, dunque in una dimensione collettiva; da quando sono state immesse sul mercato le videocassette e poi i Dvd, invece, farsi delle fantasie in solitudine è al tempo stesso più facile e più gratificante. Chi oggi si serve della pornografia nasconde morbosità più oscure di quanto non lo siano le difficoltà legate al soddisfacimento delle proprie esigenze sessuali, e anche la sua misoginia è più inquietante. Tutto questo avviene in un contesto che conosce una ossessione inedita per il corpo, e troppa aggressività verso tutto quanto rimanda alla imperfezione fisica. Non so mai fino a che punto siano legittimi i paragoni tra quanto succede da noi in America e quel che avviene in Europa, ma a me sembra che stiamo vivendo un passaggio storico simile a quello seguito alla Grande depressione, che ha portato all’instaurarsi dei fascismi. Per quanto riguarda l’ironia, la televisione la usa da così tanto tempo che è diventata banale. È sempre più difficile non fare confusione tra il piano della realtà e quello della finzione, persino io che ho quarantaquattro anni, fra letture e stimoli televisivi quando ho dato il primo bacio avevo già visto migliaia di scene simili.


Le atmosfere di Infinite Jest trasudano tristezza e solitudine, due costanti della vita americana di fine millennio. Se ora lei volesse isolare un sentimento tipico dei nostri anni, quali sceglierebbe?


Effettivamente, nonostante Infinite Jest sia stato accolto come un romanzo divertente, io l’ho concepito come un libro triste, perché era ambientato in un contesto che, fatti salvi alcuni buoni esempi di opere artistiche e letterarie, era appunto deprimente. Dalla presidenza di Reagan in poi sembrava che tutti avessero solo voglia di fare soldi e di esibire quello che erano riusciti a possedere. Ma se devo pensare a un sentimento che ci accomuna in questi anni penso alla paura. In America tutti temono per il loro destino e nel resto del mondo tutti hanno paura dell’America: non senza buone ragioni, peraltro. E questo è il frutto di una fase rovinosa da un punto di vista sia politico che economico.


Più o meno tutte le volte che un critico letterario prende in mano un suo libro, la parola ricorrente è “talento”. Questo la fa sentire obbligato a rinnovare le aspettative, la responsabilizza, insomma che effetto le fa?


I critici letterari devono parlare in modo chiaro di oggetti che per loro natura sono complessi, ambigui, polivalenti: tanto la narrativa che la poesia alludono a qualcosa che non si può dire per via diretta, né in modo univoco. Io stesso, quando ho provato a scriverne ho trovato che fosse un compito difficilissimo, perciò non mi stupisce che i critici ricorrano a poche parole, si guardino l’un altro e rischino, per semplificarsi la vita, di adottare espressioni che si trasformano in slogan. D’altra parte, è da quando avevo venticinque anni che ho smesso di leggere quel che si dice di me: l’ho fatto perché altrimenti avrei cominciato a pormi troppe domande su ciò che stavo combinando.


La sua scrittura è anche il frutto di una speciale attitudine all’osservazione. Sembra che lei sia dotato di uno sguardo che naturalmente scompone gli oggetti in mille dettagli: penso, per esempio, a quello che a me sembra uno dei suoi racconti migliori, Per sempre lassù, dove la scrittura segue i movimenti mentali di un ragazzo sul trampolino, mentre esita a tuffarsi in piscina.


Sì, questa disposizione a osservare nel dettaglio mi è stata fatta notare anche da altri. Quel che cerco di descrivere non mi sembra mai completo, non è mai abbastanza, mi porta a aggiungere e aggiungere particolari. Una delle bizzarrie alle quali si va incontro scrivendo è che per quanto tu voglia avere presente chi legge, per quanto ti guardi dal limitarti a vomitare sulla pagina quel che ti pare, tuttavia prima o poi ti rendi conto di quanto sia idiosincratico e limitato il tuo punto di vista. E ti viene una grande ansia. Perché ti domandi: gli altri mi capiranno? Vedranno le cose come le vedo io? Non sarà che il mio è il punto di vista di un pazzo e quel che per me è ovvio per gli altri non lo è affatto? Ecco, io provo sempre a introdurre questa ansia in ciò che scrivo e cerco di usarla per cercare di rendere conto di diverse prospettive, in modo tale da includere possibilmente anche il modo in cui gli altri vedono le cose. Tutto questo mi porta a fare molte e molte stesure, implica molto tempo. E rende i miei libri al tempo stesso complicati e scritti in un linguaggio corrente, molto idiomatico, che contiene al suo interno dialetti, espressioni gergali, perché così parlano le persone che mi vivono intorno, così parla uno come me che ha passato metà dell’infanzia a leggere e l’altra metà a fare sport. Del resto, una delle poche cose che la letteratura può ancora fare è creare tra chi legge e chi scrive una intimità non superficiale.

 

L'intervista è apparsa su Il Manifesto il 1° luglio 2006.

 

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