Lia Rumma / Kentridge. Waiting for the Sybil
Dopo Triumphs, Laments and Other Processions, mostra monografica del 2016, William Kentridge torna negli spazi della galleria Lia Rumma di Milano con Waiting for the Sybil and Other Stories. Il sodalizio ventennale tra l’artista e la galleria si rinnova con l’esposizione del progetto commissionato a Kentridge dal Teatro dell’Opera di Roma nel 2019 per affiancare Work in Progress, unica produzione teatrale interamente realizzata da Alexander Calder nel 1968 per il teatro romano.
La performance, diretta originariamente da Filippo Crivelli (per l’occasione chiamato nuovamente alla regia), rappresentava una summa del lavoro di Calder, una danza di elementi visivi disegnati dall’artista e messi in scena da Giovanni Caradente su musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi e Bruno Maderna, una rapsodia di forme geometriche, attori, segni, simboli e colori.
All’esperimento teatrale di Calder, Kentridge fa seguire il suo Waiting for the Sybil, una produzione che nasce dall’osservazione dei movimenti circolari che caratterizzano il moto delle “macchine” dell’artista statunitense. Nell’omonimo video d’animazione e nei disegni presentati da Lia Rumma, Kentridge trasforma il movimento rotatorio delle opere di Calder nel vento a cui la leggendaria Sibilla Cumana affida i propri vaticini, dopo averli scritti su foglie di quercia. La Sibilla, nei tratti d’inchiostro o a carboncino che compongono i frame del video, è raffigurata come una danzatrice africana che si muove sullo sfondo di vecchie pagine di libri e della Divina Commedia, sui quali si materializzano le misteriose profezie.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
(verso 66, Canto XXXIII del Paradiso)
La Sibilla di Dante viene evocata da Kentridge e incarnata nello “spirito del tempo presente” per suggerire come la conoscenza, trasformata oggi in una massa di dati digitali, sia amministrata dalle logiche implacabili di un algoritmo che influenza il destino degli esseri umani. Le paure, le angosce e le speranze che trovano espressione nelle frasi raccolte nel video, sono accompagnate dalla danza della Sibilla sulle note ipnotiche del canto di Nhlanhla Mahlangu e sulle musiche del compositore Kyle Sheperd, dall’incessante susseguirsi di alberi, foglie ed elementi geometrici che richiamano direttamente la grammatica visiva di Calder e contrappongono la forza vitale del libero arbitrio al controllo annichilente esercitato dalla cosiddetta “predictive society” – la società algoritmica – la cui premessa intrinseca è rappresentata dalla cancellazione dell’incertezza e della precarietà che segnano la condizione esistenziale umana.
Nell’opera di Kentridge, al contrario, il concetto di trasformazione, la variabilità sono gli assi di un’estetica che ha trovato nel linguaggio dell’animazione l’espressione di un’idea del segno come traccia impermanente, manifestazione di un divenire incessante e mutevole. La fascinazione per l’indeterminatezza si traduce in una figurazione che potremmo definire antifragile, nella quale i temi cari all’artista – l’iconografia della processione, il lavoro, le disuguaglianze sociali, il tempo e la storia, la connessione tra attuale e remoto – si trasformano in epos, in un’opera totale che va osservata nel suo dispiegarsi nel tempo ancor più che nei singoli episodi, per quanto compiuti e del tutto autosufficienti.
Colpisce allora Untitled (Leaning on air, 2020) l’enorme disegno situato all’ingresso dello spazio espositivo: si avverte come l’albero non sia solo una metafora che abita il racconto della mostra, quanto una vera e propria morfologia, un’arborescenza che racchiude in sé tutti i singoli momenti creativi della carriera di Kentridge.
L’iconografia dell’albero, che da un lato si riallaccia alle foglie della Sibilla, viene qui rovesciata e, secondo le parole dell’artista, diventa metafora di una morte che si sviluppa e cresce rigogliosamente insieme all'uomo, fino a compiersi in pienezza, una “buona morte” che trova il proprio senso all’interno del ciclo della vita. Migliaia di disegni, le sculture e i cut-out, i film e le performance compongono un unico corpo coerente che si sviluppa temporalmente in termini di ampiezza e profondità. Così come le radici dell’albero si spingono in basso nel terreno e creano una relazione simbiotica con il luogo in cui dimorano, traendone informazioni e sostentamento vitale, così il lavoro di Kentridge scende nelle profondità della propria cultura d’origine e nella storia dell’arte, rivitalizzando le matrici su cui si fonda; contemporaneamente, la discesa nella terra è bilanciata da una progressiva espansione nello spazio e verso l’alto, attraverso una produzione di immagini che si può equiparare alla chioma di un albero i cui rami e foglie si protendono verso il mondo e ne diventano un elemento partecipe, ristorativo e pienamente consapevole del proprio ruolo nell’eterno ciclo di fine e rinascita.
La percezione di essere di fronte a un corpo vivo si riflette anche nella sensazione di una sottile costrizione esercitata dallo spazio espositivo sulle opere in mostra: le sale di Lia Rumma sono maestose per dimensioni e ampiezza e rappresentano una collocazione ideale per lavori di grande formato, dalla vocazione spettacolare; allo stesso tempo, la possibilità che gli spazi espositivi (e museali) mettano in atto un profondo rinnovamento che li porti a superare definitivamente la funzione di contenimento e conservazione delle collezioni a favore di una nuova soggettività permeabile, mutevole e relazionale si mostra come un’esigenza sempre più concreta, che si evidenzia di fronte a opere come quelle di Kentridge, che sembrano chiedere una fruizione che si sposti oltre la dimensione della galleria, in un luogo concettualmente aperto, in grado di amplificarne il respiro.
Visitando il primo piano dell’esposizione, dove si trovano una serie di sculture in bronzo e alluminio allineate come Lexicon (2017) e Paragraph II (2018), si avverte una specie di rallentamento temporale e i manufatti appaiono come dei prelievi, elementi filmici che rimangono costretti in una fissità che si vorrebbe forzare. L’opera in bronzo collocata presso la parete più ampia, intitolata Processione di Riparazionisti (2019), riproduce in scala l’installazione che si trova presso le OGR di Torino e dialoga con i relativi disegni in maniera efficace, mantenendo uno spiccato carattere grafico determinato dalla monocromia e dalla struttura a silhouette, che richiama a tutti gli effetti il fumetto e il teatro delle ombre, altra forma espressiva cara a Kentridge.
I veri protagonisti della mostra risultano essere ancora una volta i disegni, che strutturano l’intero processo creativo. Sebbene la produzione scultorea rappresenti una delle declinazioni formali di un pensiero articolato e mobile, di fronte alla forza dei film e del lavoro grafico sembra scontare un ritardo fisiologico. Il lavoro plastico, anche quando concepito in maniera autonoma, nel tentativo di incorporare quel principio dinamico che connota tutta l’opera di Kentridge si ritrova ad agire su un piano subalterno rispetto alla produzione grafica, come impossibilitato a spiccare quel volo che invece si rinnova nei disegni a carbone e nelle animazioni che ne discendono. Il principio dinamico e la riflessione sul tempo che anima il lavoro di Kentridge, una volta tradotti nel linguaggio plastico, sembrano subire una compressione, mentre l’opera grafico/pittorica e quella filmica, a cui è possibile attribuire un ruolo primario, procedono su un piano sinergico e sono portatrici di uno stesso ritmo visivo.
Al secondo piano della galleria è allestita una piccola sala cinematografica per la proiezione di KABOOM!, film del 2018 tratto dall’opera teatrale The Head and The Load (il titolo rimanda a un proverbio ghanese) presentata in anteprima nella Turbine Hall della Tate Modern di Londra. L’opera riporta alla luce un episodio che condensa in sé l’assurdità della vicenda coloniale: durante il primo conflitto mondiale, le vie consuete di collegamento da Città del Capo al lago Tanganika divennero inutilizzabili e così si decise di smembrare una nave e farne trasportare i pezzi sulla testa dei portatori africani. Questa folle processione è stata rievocata da Kentridge portando in scena attori in carne e ossa e sculture, che proiettano enormi ombre su uno sfondo di disegni animati. Una performance su scala monumentale, così come accade nell’opera Triumph and Laments, fregio di 550 metri realizzato sulle sponde del Tevere che ripercorre e rivisita la storia di Roma, inaugurato nel 2016 con una performance teatrale composta da un doppio corteo di attori e musicisti.
KABOOM! è un lavoro incentrato sulla memoria rimossa dei lavoratori africani che prestarono servizio alle truppe francesi, inglesi e tedesche durante la Prima Guerra Mondiale. I facchini e i portatori, a cui non era consentito portare armi per il timore che si ribellassero contro le truppe europee, morirono a centinaia di stenti. Nel video, Kentridge mescola e giustappone materiali differenti che formano una sequenza di azioni ipnotiche e ripetitive che ricordano il loop perturbante delle GIF animate ma anche gli automatismi di chi subisce un trauma violento, una coazione a ripetere che restituisce allo spettatore un’atmosfera di costrizione e di parossismo, recuperando il portato delle poesie sonore del Dada, movimento nato in concomitanza e opposizione alla Grande Guerra, e il lavoro di Kurt Schwitters. Kentridge ritorna ad affrontare le vicende del colonialismo e le conseguenti lacerazioni causate dall’impatto della guerra voluta dall’Europa sul continente africano: un cambio di prospettiva che l’artista sudafricano condensa in un video dal ritmo serrato, dove la logica formale lascia emergere una pulsione irrazionale e primitiva, un non-senso che rievoca le sperimentazioni dadaiste, fautrici di una proposta estetica radicale in grado di evidenziare l’insensatezza della guerra e della società borghese che ne è l’incubatrice.
Politico e poetico, con Waiting for the Sybil and Other Stories l’artista sudafricano aggiunge un ulteriore tassello all’ininterrotta riflessione sulle contraddizioni che caratterizzano il presente globale. Attingendo al repertorio storico-mitologico e costruendo un lessico figurativo al contempo personale e popolare, Kentridge si conferma artista capace di oltrepassare il perimetro dell’arte contemporanea per attestarsi come una delle figure più importanti della cultura visiva contemporanea. Si potrebbe definire già un classico, se non si rischiasse di fargli torto tradendo la sua fede nell’impermanente.
La mostra di William Kentridge, in corso presso la Galleria Lia Rumma di Milano, resterà aperta fino al 17 ottobre. Tutte le fotografie sono di Roberto Marossi.