La Costituzione e Fahrenheit 451

14 Marzo 2011

Sembra una versione estrema di Fahrenheit 451 quella messa in scena da queste manifestazioni in cui si sfila per difendere la Costituzione.

Non ne manco una, credo siano momenti di politica importanti, ma dopo un po’ mi sembra di vivere in una sorta di incubo: un mondo in cui tutti, ovunque, bambini, vecchi, declamano a memoria articoli della Costituzione, donne con le Hogan ai piedi e il collo avvolto di fucsia che si avvampano per Calamandrei – una retorica da popolo viola che sta contagiando ogni possibile opposizione politica. L’ideologia dell’autoreferenzialità: ribadire l’ovvio, sottolineare il sottolineato, un discorso molto spesso copiativo, e difensivo.

 

La resistenza, il Risorgimento, la storia d’Italia tutta sta diventando in quest’anno di celebrazione una specie di grande mito fantasmatico che nessuno ha mai raccontato prima. Metterlo in crisi, attraversarlo, rielaborarlo, non pare possibile. Se lo si discute lo si violenta: il leghismo da una parte; dall’altra questo meridionalismo improvvisato di un Pino Aprile o di un Giordano Bruno Guerri, che sta diventando un altro piccolo filone memorialistico tutto italico, dopo quello sulle foibe, e quello sui partigiani cattivi di Giampaolo Pansa.

 

E allora difendere. Magari è davvero un’emergenza democratica. Magari che si diventi tutti pompieri da grandi dopo che per un po’ avevamo pensato di essere incendiari da giovani è anche forse un luogo comune, una verità hegeliana. Ma davvero ci rispecchiamo così bene in questo sentire comune didascalico? È davvero possibile che venga considerato un alto momento di spettacolo quello in cui Roberto Benigni fa un’esegesi dell’inno di Mameli? Abbiamo così bisogno di valori condivisi che dobbiamo sentirci fieri di essere discendenti dei Romani e ex-nemici dell’Austria di Metternich?

Proprio la metamorfosi di Roberto Benigni getta forse una luce non solo sulla sua evoluzione artistica, e sul suo percorso esistenziale (conversione al cattolicesimo compresa) ma anche sul riconoscimento che un paese intero tributa a un sacerdote civile dopo che, per anni, il ruolo che gli aveva assegnato era quello di dissacratore.

 

Trent’anni fa, nel 1980, in un Sanremo in cui si cantava ancora in playback, il ruolo del comico era quello carnevalesco: Benigni conduceva il festival in maglia della salute e papillon, e in un contesto molto più perbenista di quello attuale riusciva a creare una tensione reale nell’attesa degli spettatori. In varie occasioni il pubblico reagiva sentendosi libero: liberato o spiazzato, applausi e buuu che si mescolavano.

 


Trent’anni dopo il consenso è preventivo. Sia da parte del pubblico sia da parte di Benigni che arriva in studio a cavallo: in una specie di doppio legame, nessuno dei due può sorprendere l’altro. Il comico è il sacerdote. Il paese è bloccato: applaude a comando. Luca e Paolo citano Gramsci. Gli viene chiesta di fare satira bipartisan. Al momento comico del rito sanremese non viene più concessa quella che è la funzione di carnevale – di specchio al rovescio della società – che gli assegnava Bachtin: Questi riti carnevaleschi, organizzate sul principio del riso, presentavano una differenza estremamente netta, di principio si potrebbe dire, rispetto alle forme di culto e alle cerimonie ufficiali serie della chiesa e dello stato feudale. Esse rivelavano un aspetto completamente diverso del mondo, dell’uomo e dei rapporti umani, marcatamente non ufficiale, esterno alla chiesa e allo stato; sembravano aver edificato accanto al mondo ufficiale un secondo mondo e una seconda vita, di cui erano partecipi, in misura più o meno grande, tutti gli uomini del Medioevo, e in cui essi vivevano in corrispondenza con alcune date particolari. Tutto ciò aveva creato un particolare dualismo del mondoe non sarebbe possibile comprendere né la coscienza culturale del Medioevo, né la cultura del Rinascimento senza tenere in considerazione questo dualismo. L'ignorare o il sottovalutare il riso popolare del Medioevo porta a snaturare il quadro di tutta l'evoluzione storica della cultura europea nei secoli seguenti. [...] Il carnevale, in opposizione alla festa ufficiale, era il trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla verità dominante e dal regime esistente, l'abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù. Era l'autentica festa del tempo, del divenire, degli avvicendamenti e del rinnovamento.

 

Abbiamo così paura del sovvertimento?

Davvero non ricordiamo più che il rovesciamento, in ogni buona dialettica tesi-antitesi-sintesi che si rispetti, serve a dare legittimazione al mondo a cui si contrappone? E per questo probabilmente, nel 1980, non serviva che il giullare si sedesse neanche per un momento sul trono. In quel posto lì negli anni ’80 c’era il co-conduttore Toto Cutugno, l’italiano per antonomasia. E il posto di chi voleva a cuore i destini comuni d’Italia poteva essere quello, per riconoscerne implicitamente il valore, di dissacrare i miti invece che inseguirne una museificazione plebiscitaria. Oggi chi potrebbe scherzare sulla retorica della Resistenza, come ha fatto la commedia all’italiana, o sull’unità d’Italia? Siamo davvero costretti a difendere sempre l’azione dei magistrati, la scuola, la legalità, la Costituzione, ogni forma possibile di disciplinamento, perché appena mettiamo in crisi uno di questi valori, abbiamo paura che crolli ogni possibile costrutto comune?

 

Vorrei farvi una domanda. Ho guardato questi due video comici in questi giorni, e mi sono fatto l’idea che oggi non potrebbero far ridere come facevano ridere trent’anni fa.

Vi inviterei a guardarli; ditemi, avete anche voi la stessa impressione?

 

 

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