Solo Pampers poteva pensarci

15 Ottobre 2013

Quando vai in pensione puoi essere finalmente sincero. E questo vuol dire che libererò di un peso, perché forse finalmente non sarò più costretto a preoccuparmi delle ricadute sociali, per non dire del domino di pettegolezzi che appena si dà la stura alle confessioni, si diffonde sempre, come una di quelle epidemie di chiacchiere che specialmente l'accademia sa far circolare. Insomma vi posso confidare una storia che risale a quasi quaranta anni fa, quando ero ancora uno studente, un giovane studente di Lettere Moderne. Ho un ricordo di me che muove quasi alla tenerezza.

 

Uno di quei tipi che si tocca un sacco i capelli e che si guarda allo specchio indossando i cardigan bordeaux che fino a qualche anno prima schifava. Ero un ragazzo; un ragazzo un po' male in arnese, ma ero ottimista. Avevo dalla mia dei polmoni forti, evidentemente impermeabili alle tossine delle sigarette senza filtro che ciucciavo nelle pause tra una lezione e l'altra, e del resto non avevo mai sperimentato il dolore cervicale che mi ha accompagnato dai trent'anni in poi e potevo permettermi di non asciugarmi i lunghi capelli col fohn nemmeno nel gelo dell'inverno. Ma soprattutto ero fiducioso, convinto del rischiararsi degli orizzonti futuri; ero appena andato a convivere la mia prima fidanzata seria: una ragazza ligure di nome Silvia ma che ai miei occhi di allora somigliava a Anna Karina e che io appunto per questo chiamavo Anna.

 

Avevo venticinque, ventisei anni; avevo deciso pochi mesi prima di lasciare casa dei miei, stufo di occuparmi delle loro depressioni speculari che erano abili a riversare su di me in una sorta di liquidazione al ribasso della vita reciproca. Anche se è vero, a dirla tutta, avevo dovuto abbandonare, insieme alle sticomitie verbali dei miei (gli "Hai visto come s'è ridotta tua madre" - "Hai visto come s'è ridotto tuo padre"), anche la mia calorosissima stanza di trenta metri quadri in una villa (una specie di casa colonica a due piani) di Frascati con gli armadi sempre pieni di biancheria pulita, per accomodarmi in un appartamento senza termosifoni (un vecchio casotto contadino riattato nella campagna sotto Grottaferrata) con l'illusione ostinata (che cercavo di trasmettere anche a Anna) che stessimo emulando il ménage di Henry Miller con Anais Nin, o meglio quello di John Reed e Louise Bryant reclusi in un rifugio decadente nel pieno della Rivoluzione russa. C'è da dire che, meglio chiarirlo subito, la amavo.

 

 

Anna in generale, non me ne resi conto in fretta, era invece innamorata dei miei modelli relazionali solo molto moderatamente. Certo le piaceva fare l'amore con la mia stessa stolta e convulsa serialità – e questo ovviamente ci univa più che ogni altra cosa – ma voleva dalla vita qualcosa che, visto con gli occhi di adesso, forse allora non potevo comprendere del tutto. Era una fuorisede anomala: da poco sbarcata da Varazze a Roma per frequentare un dottorato in chimica, e al tempo stesso - quattro sere a settimana – fare praticantato presso un paio laboratori di analisi dei Castelli. Si riusciva a campare da sola, spediva parte soldi a casa per un fratello problematico, aggiustava lei un rubinetto se si rompeva, teneva appeso in camera un poster di Marie Curie.

 

Al contrario suo, io badavo a mala pena ai miei bisogni. Ero in un periodo di desertificazione finanziaria e di quella che definirei gassosità progettuale. Ma avevo giurato a me stesso almeno due cose: di non accettare più alcun aiuto dai miei e di riuscire a laurearmi. Anche se quel riuscire a laurearmi durava da quasi tre anni. Di notte sognavo liste di bibliografia per una tesi aveva ormai assunto i connotati di un animale domestico di specie incerta che però ci faceva compagnia nelle serate a due, tanto che Anna ogni volta che ritirava fuori l'argomento, la chiamava "quella cosa".

 

L'argomento di "quella cosa" era un formidabile scrittore che negli anni '50 era stato seminoto, pur avendo scritto un unico libro, Il sentiero dei nidi di ragno. Italo Calvino: probabilmente alla maggior parte di voi questo nome non dirà molto – d'altronde anche se cercaste su Wikipedia trovereste soltanto una dozzina di righe filologicamente discutibili. Quel che è abbastanza accertato è che fu, ovviamente, un balilla nei primi anni del Ventennio, che riuscì a attraversare il fascismo apparentemente indenne ai plagi ideologici, che diventò un partigiano dal 1943, e che dopo la guerra riscosse una minima notorietà tra gli addetti ai lavori per la pubblicazione di questo libro d'esordio. Subito dopo l'uscita però decise imprevedibilmente di lasciare l'Italia e una carriera apparentemente avviata, per tornare nel paese della sua primissima infanzia, Cuba, dove era nato nel 1922. Continua qui

 

Scarica qui il Tweetbook delle 100 fiabe di Italo Calvino riscritte da Marco Belpoliti per Twitter

Scarica qui il saggio di Paolo Granata, Italo Calvino: "sei lezioni" sul mondo digitale

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