La letteratura dà il voltastomaco

8 Ottobre 2022

Ho conosciuto Julien Gracq tramite casa sua: a Parigi, degli amici mi proposero una visita alla Maison Julien Gracq, la casa a Saint-Florent-le-Vieil, nel Maine-et-Loire, che per volontà stessa dell’autore si è trasformata alla sua morte in un séjour temporaire de repos ou de travail destiné à des écrivains. Visitai quell’abitazione color tortora e crema, posta su un’altura, circondata da un silenzio innaturale, senza che di Gracq avessi mai letto una riga. 

Passò soltanto un anno e, in modo altrettanto accidentale, mi ritrovai tra le mani La riva delle Sirti, nella nuova edizione appena uscita per L’Orma editore. Era il 2017. Il romanzo, in Francia fu pubblicato dall’editore Josè Corti, ed è considerato un classico del Novecento, definito da Henri Mondor «il più straordinario poema in prosa della letteratura francese». Centro del romanzo è la città di Orsenna, un tempo gloriosa, ma ormai cristallizzata nell’attesa di un’assente ma persistente guerra con il Farghestan, lo stato al di là della costa, invisibile e metafisico come tutti i nemici più temibili. La trama è uno schema essenziale: il protagonista, Aldo, è un giovane annoiato che, alla ricerca di qualcosa che accada nella sua vita, decide di diventare un Osservatore e viene mandato a presidiare il fronte di questa guerra invisibile: la provincia delle Sirti. Al netto di un plot scarno di accadimenti esterni, la narrazione si sostiene su una straordinaria impalcatura di stile, sulla ricerca di una tenuta linguistica corposa e altissima.

L’autore di questo romanzo metafisico è stato, d’altra parte, uno dei pochi a poter vantare l’inclusione nella «Bibliothèque de la Pléiade» di Gallimard mentre era ancora in vita. Dietro lo pseudonimo Julien Gracq si nasconde infatti Louis Poirier, classe 1910, che dopo gli studi presso l’École normale supérieure, intraprende la carriera da insegnante di geografia in un liceo parigino. Molto distante dalle tendenze del nouveau roman, da lui considerato una forma di letteratura vuota e meccanica, prima di La riva delle Sirti ha già pubblicato, sempre per l’editore Josè Corti, Au château d’Argol (1938) e Un beau ténébreux (1945), accolti freddamente dalla critica perché ritenuti meri esercizi di stile. Gracq è, d’altra parte, amico di André Breton, con cui si schiera contro Jean-Paul Sartre e l'esistenzialismo, e grande sostenitore del movimento del surrealismo. Gli autori che predilige sono Edgar Allan Poe, Ernst Jünger e Stendhal (il suo stesso pseudonimo viene da Il rosso e il nero), ma anche Chateaubriand, Balzac, Barbey d’Aurevilly e Jules Verne, che coniuga le sue due grandi passioni: la letteratura e la geografia. Dopo l’esordio narrativo, Gracq si cimenterà anche con altri generi, pubblicando nel 1946 la raccolta di prose poetiche Liberté grande e nel 1948 la pièce teatrale Le Roi pêcheur e il saggio André Breton, quelques aspects de l’écrivain.

Da autore isolato e di nicchia, proprio con Le rivage des Syrtes, Julien Gracq nel 1951 fa il grande salto e vince (malgré lui, titolò l’«L’Aurore») il premio Goncourt, il più importante premio letterario francese. Ma Gracq non era contento: essere diventato troppo noto era un inconveniente che gli dava troppo fastidio. Rifiutò il premio. Lasciò Parigi, e si ritirò per sempre da salotti e società letteraria, trasformando la tenuta a Saint-Florent-le-Vieil – quella che avevo visitato in una tiepida giornata di giugno – in un monumento eretto contro ogni mondanità culturale.

Il libro riproposto dall’Orma era già in Italia nel 1952 grazie alla traduzione – conservata nella nuova edizione – di Mario Bonfantini per la collana “Medusa” di Mondadori, e poi di nuovo venne ristampato nel 1990 dall’editore Guida. Sicuramente un romanzo troppo anticonvenzionale, astratto e metafisico a cui il pubblico italiano, in quegli anni interessato più a una letteratura semplice e rappresentatrice dei conflitti sociali, non era pronto. In Italia, dunque, il successo francese non si replicò: tuttora Gracq rimane, da noi, un autore sconosciuto ai più, nonostante il clamoroso rumore destato dal rifiuto del più importante premio letterario francese. 

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Le ragioni di quel rifiuto – proviamo a immaginare uno scrittore, oggi, che vince il premio Strega e lo rifiuta, ritirandosi a vita privata in Friuli o in Molise – le si può trovare in un libretto, un trattatello luciferino dal titolo La Littérature à l'estomac, in Italia appena rieditato da De Piante con il titolo La letteratura da voltastomaco e la traduzione di Émil Ronìn. Il testo è un breve, violentissimo, elegantissimo attacco a tutto ciò che la letteratura non dovrebbe essere (ma troppo spesso fatalmente è): ruffiana, superficiale, volgare, accattivante, modaiola, salottiera.  Nell’introduzione Goffredo Fofi scrive: «La letteratura che Gracq detesta è quella che non aiuta a guardare, a sentire e a pensare». Gracq punta il dito contro il mercato editoriale francese: la letteratura di oggi, dice, è troppo mondana. Soprattutto, scrive, i lettori hanno troppo potere nella determinazione di un successo letterario. 

Perché accade questo? Perché, secondo Gracq, coloro che leggono non sono più interessati solo a godere della letteratura, ma considerano il parlarne una parte integrante del piacere. E i critici, lungi dal contrastare questa tendenza, lavorano per dare al pubblico sempre qualcosa di nuovo di cui parlare. In altre parole, la letteratura si trasforma da fatto estetico in materiale di conversazione. La stessa metamorfosi di cui parlava Didi-Hubermann, per cui l’Arte, legandosi mortalmente al Salotto, degenera in Cultura. 

È un problema estremamente attuale, quello di Gracq, soprattutto quando si pensa al funzionamento dei premi letterari, strumenti spesso in mano alle logiche di mercato, troppe volte confezionati per fornire al pubblico qualcosa che assecondi e confermi il suo gusto invece di formarlo. Privi dell’ambizione di indirizzare la formazione di un canone contemporaneo, annegano nella compiacenza di premiare colui che sa fare meglio degli altri quello che gli altri si aspettano già: non c’è spazio per il fulmine, la rottura, la sfida. Scrive Gracq: “Non sappiamo se la letteratura sia in crisi, ma è evidente che esiste una crisi del giudizio letterario”. 

Le vittime di questo sistema finiscono con l’essere quei libri che, pur di valore, scompaiono nelle biblioteche, condannati all’oblio dall’unica condizione assurta a giudizio di valore: l’incapacità di conquistare il lettore. Sono quelli i libri che il critico ha il dovere di sostenere e tenere in vita, come corpi troppo fragili per il consesso sociale. L’alternativa è che lo scrittore, privo di sostegni, sacrifichi tutto pur di sentirsi sulla cresta dell’onda. O, incapace di abitare quelle frequenze, scompaia. Il mondo – scrive Gracq – è pervaso da una generale, schiacciante tendenza alla semplificazione. Ma, avverte, se non si cerca di comprendere proprio ciò che a primo impatto non è semplice comprendere, il suono che sentiremo sarà «il fragore della letteratura viene a morire sul bordo dell’infinito».  Un mondo in cui a vincere, come l’ha definita Gianluigi Simonetti su Le parole e le cose, è «una narrativa per anime belle».

Si è sempre sentito una sentinella, Gracq, una vedetta misantropa e aristocratica. E forse lo è ancora, con la sua prosa cristallina, calibrata e ideologica, con un’opera eretta come una strenua difesa della necessaria complessità della letteratura, nella convinzione che la stessa complessità andrebbe ferocemente riconquistata in ogni aspetto dell’esperienza umana. Forse però non basterebbe, oggi, rifugiarsi in una tenuta fuori Parigi – chiudere le finestre della biblioteca, isolare le uscite, manutenere il silenzio esterno. La vita, come qualcosa di tanto ambiguo quanto assordante, oggi suona più forte di ieri, e forse proprio grazie alla sua accresciuta, arrogante massificazione. Come scrive Robert Musil: «Dalle più violente esagerazioni, se lasciate a sé stesse, nasce col tempo una nuova mediocrità».

Fofi, nella sua introduzione, ipotizza che chi oggi si sente in dovere di scrivere, lo faccia «per sentirsi ancora vivo». E, in fondo, è questo l’ultimo atto di resistenza della letteratura: un incontro casuale con La riva delle Sirti, un personaggio che diventa così caro tanto da sembrarci un nostro amico di sempre, il tentativo di sentirsi vivi attraverso la vita altrui. Perché a volte la letteratura, quando non dà il voltastomaco, salva la vita.

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