La politica e le piazze vuote
A tutti noi, penso, si è allargato il cuore quando abbiamo visto le piazze francesi riempirsi di popolo che rifiutava la riforma delle pensioni di Macron e poi sempre più di giovani che esprimevano un rifiuto, una ribellione al modo di vita attuale. E tutti ci siamo chiesti perché in questo nostro paese, ridotto a un cimitero, le piazze per troppo tempo sono rimaste vuote e oggi che, per varie ragioni contingenti, sembrano di nuovo essere sede di azioni collettive (si pensi alla manifestazione di Roma del 7 ottobre, alle manifestazioni sul conflitto israeliano-palestinese, alla manifestazioni dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin) restano ancora inscritte in un vecchio gioco politico o sono la reiterazione di propositi già espressi e rimasti senza esito (Palestina libera! Basta coi femminicidi!). Filippo Barbera ha provato a ragionarci su, sul problema della piazza vuota (Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica, Laterza, 2023, pp. 162), non tanto per ripetere alla noia il lamento sull’eclissi dell’impegno politico quanto per provare a mettere insieme gli elementi che possono portare alla ripresa di una partecipazione politica. Barbera è sia uno studioso, sia uno di quelli che fanno della cittadinanza attiva ragion di vita, impegnato in vari progetti, in particolare quelli del rapporto tra sistemi urbani e territori montani. Alcuni anni fa, assieme ad altri studiosi ci aveva dato un volume sull’“economia fondamentale” quella “costituita da un insieme di attività legate alla produzione dei beni e servizi indispensabili al benessere generale quotidiano delle persone: l’edilizia residenziale, l’istruzione, l’assistenza all’infanzia e agli anziani, la sanità, la fornitura di beni e servizi essenziali come l’acqua, il gas, l’energia, il sistema fognario, le reti telefoniche e l’economia trascurata di prossimità”. Temi colpevolmente trascurati, mentre si parla – anche a sproposito – di logistica, auto elettriche, metropolitane, cibi cotti, prêt-à-porter, turismo ecc. ecc. e delle loro “eccellenze”.
In questo libretto Barbera si chiede: come possono tornare a riempirsi quelle piazze? Come possiamo riacquistare il senso di identità collettive? “A quali condizioni” – scrive a pag. 35 – “il moderno culto del sé costituisce la base per generare un’intenzionalità condivisa basata su un ‘noi’ inclusivo orientato a un futuro più giusto?”. Non è certo aspettando “la chiamata” di una qualche leadership ma costruendo sul territorio infrastrutture sociali, dedicate all’esercizio di cittadinanza attiva, “dove le persone si riuniscono per perseguire un obbiettivo privato e un fine pubblico”, dove possa avvenire l’“interazione situata”, la ricostruzione di un “noi” attraverso esperienze comuni, fisicamente vicine, “nessi che sono stati oscurati a favore della centralità dell’opinione pubblica smaterializzata”.
Si è formata una classe dirigente incapace di disegnare un’offerta di futuro perché è venuto meno “il raccordo organizzativo tra ceto politico, saperi tecnici, ruoli intellettuali e/o sociali negli spazi intermedi dell’elaborazione progettuale”. Conseguenza che spesso viene ricondotta all’affermarsi del modello neoliberale, rispetto al quale, giustamente, Barbera fa rilevare che in Italia si è affermata una variante che lui chiama neoliberalismo reale, che non azzera il ruolo dello stato e della spesa pubblica ma la reiinterpreta come “strumento di costruzione politica della logica della competizione”. Variante combinata con un sovranismo che sancisce la rottura del patto fiscale, l’indebolimento dei servizi pubblici, la protezione della rendita, con il continuo richiamo all’etnocentrismo.
Dopo aver accennato agli esempi degli insoumis di Mélanchon e di Podemos come esperimenti in parte riusciti di tentativi di costruire politiche alternative, Barbera dedica alcune interessanti pagine al Movimento 5 stelle, fenomeno unico nel panorama europeo, interpretato come il partito delle “carriere bloccate di ceto medio”, che forma una barriera contro la destra e recupera istanze sociali ma ne vanifica il contenuto trasformandole da misure di progresso collettivo a bandiere di un’identità di partito. E ricorda la vicenda del reddito di cittadinanza, progetto articolato ed economicamente fondato da iniziative di cittadinanza attiva come l’Alleanza contro la povertà e poi divenuto oggetto di marketing politico nella sua trasformazione in atto di governo. Da qui Barbera analizza una serie di iniziative di cittadinanza attiva, in particolare il Forum Diseguaglianze e Diversità di Fabrizio Barca e il loro valore come simbiosi tra un think tank e una lobby. Ma rimane sempre il problema del raccordo con il ceto politico. Quanti progetti di riforma sono stati elaborati su base volontaria con il meglio delle competenze tecnico-scientifiche? Quante contro-leggi di Bilancio ha proposto, primo esempio che mi viene in mente, una piattaforma come “sbilanciamoci”? A quante si è dato ascolto? A nessuna.
Analogo discorso si potrebbe fare quando Barbera affronta il problema del policentrismo, della valorizzazione delle comunità locali, della loro capacità d’innovazione, di riscoperta dell’idea di “luogo” contro i non-luoghi metropolitani. Quante esperienze concrete è possibile citare in proposito! Ma se dalla cittadinanza attiva, dall’idea, dalle pratiche, dai progetti (per esempio) della “metromontagna” (rapporto di tipo nuovo tra città metropolitana e territori di montagna) passiamo alla pratica, non possiamo saltare il passaggio della riforma della pubblica amministrazione, del ruolo dei Comuni, oggi paralizzati non solo dalla mancanza di risorse ma anche dalla rigidità della governance che fa capo al sindaco-despota. E torniamo all’inizio, torniamo al rapporto tra istanze della società civile e partiti. Chi può realizzare la riforma della pubblica amministrazione? I partiti. Se i canali di comunicazione sono stati tagliati una volta per tutte dalla Seconda Repubblica in poi – il primo a dare questo segnale è stato il PCI, quando con la “svolta Occhetto” ha tagliato i ponti con il partito di massa – quale potenza di voice dovrebbero oggi avere le iniziative di cittadinanza attiva o, come si diceva una volta, i movimenti dal basso, per potersi imporre al sistema decisionale dei partiti? Non parlano ormai due linguaggi talmente diversi – le prime il linguaggio dell’interesse collettivo, gli altri il puro interesse riproduttivo – da formare un discorso tra sordi? E come può avere potenza di “voce” una cittadinanza attiva che rappresenta una piccola minoranza? Non solo, ma una volta c’era la “maggioranza silenziosa”, oggi quella ha trovato nei social un canale d’espressione da cui attinge a man bassa il sistema dei partiti, il suo “parlarsi” è uno scaffale di supermercato dove il sistema dei partiti si serve gratis.
Barbera ha ben presenti questi dubbi, si sarà posto mille volte anche lui queste domande, ma non rinuncia per questo a riproporre la cittadinanza attiva con decine di esempi concreti perché ormai è consapevole che quello è il limite di sopravvivenza, è lo spazio dove si respira ancora dell’aria e non solo fumi tossici. “Ma non riesci a cambiare le cose”, mi può obbiettare qualcuno, “Guarda la GKN, hanno messo in moto dinamiche di socializzazione e di solidarietà incredibili, hanno elaborato un progetto di ristrutturazione produttiva coi fiocchi, ma i capitali per realizzarlo non li hanno trovati. E allora? A cosa è servito?”
Potrei rispondere portando altri esempi di situazioni analoghe dove le maestranze invece hanno aspettato la manna dal cielo, gli ammortizzatori sociali, gli incontri al Ministero, le convocazioni del Ministro…. per trovarsi davanti ai cancelli in sempre di meno, ai cortei sempre di meno e sempre più soli. Finché è calato il silenzio.
Quindi il libro di Barbera va letto come un repertorio di azioni, di iniziative, di orizzonti mentali soprattutto, che possono garantire, se non ancora un cambiamento, almeno un grado accettabile di civiltà, perché oggi la cosa più preoccupante, a mio avviso, non è tanto lo scollamento tra politica e società civile quanto l’Entzivilisierung. È una cosa che si sente nella vita quotidiana, nei gesti più normali, più consuetudinari. E qui ci vuole ben altro che un manuale di sopravvivenza, ci vuole un percorso culturale che parta dall’alto e metta in discussione le false “proposte alternative” che certe volte sono una trappola e per la loro astrattezza giustificano le reazioni più conservatrici. Un esempio: l’auto elettrica. Come si può immaginare di risolvere certi problemi con un’innovazione tecnica quando non hai minimamente modificato il problema sociale della mobilità? Ti chiedi come ti muovi e non ti chiedi perché ti muovi?
Su un punto però mi piacerebbe discutere con Barbera. Riconosce che senza un rapporto stretto tra azioni per proteggersi dai rischi che corre tutta l’umanità (battaglia per il clima) e azioni per la giustizia sociale (redistribuzione del reddito), non si va da nessuna parte. Riconosce il valore e l’insostituibilità del conflitto. Però non ci dice nulla sul conflitto all’interno del rapporto di lavoro, quello che viene chiamato comunemente conflitto sindacale. Ha chiuso il suo testo nell’aprile 2023, forse se avesse potuto fare tesoro dell’esperienza della hot summer americana, di quei grandi scioperi scoppiati nel paese che ha inventato il neoliberalismo e la gig economy e dove pare che le lotte sindacali stiano producendo novità anche nel sistema bipartito (mai sentito parlare del Working Families Party?) avrebbe cambiato idea.