Don Roberto Sardelli / La scuola dell'acquedotto felice
«Avevamo bisogno di strumenti didattici, la scuola come la fai senza le sedie, senza le panche, senza un tavolo. […] Imparammo a rubare. Andammo in parrocchia… e non avevamo le sedie? E lì invece i ragazzi che andavano in parrocchia protestavano perché volevano le sedie un po’… c’erano le panche e volevano le sedie più dure, e noi: “Sì sì sì, sedie dure”. La notte andavamo, pigliavamo le panche e ce le portavamo dentro. Ancora ne ho due in campagna, ’ste panche lunghe. E quindi ci facciamo le panche! Poi i tavoli, come si fa? Lo stesso: in parrocchia! Rubiamo i tavoli dalla parrocchia. E ne rubammo due, due molto lunghi, su una struttura di ferro… E ci facemmo i tavoli. E poi ancora, la lavagna. E la lavagna? La lavagna ci vuole. La lavagna come si fa, come non si fa… E allora i più grandicelli dissero: “Ce la facciamo noi!”». Di fronte all’assenza della scuola in presenza, la presenza dell’assenza di una scuola grida forte. È il 1968, è l’anno della rivolta studentesca, mentre don Roberto Sardelli invoca, in una centrale periferia romana, una rivolta scolastica, una scuola rivoluzionaria. In una «catapecchia di nove metri quadrati».
Siamo nella zona dell’Acquedotto Felice, il centro della “Scuola 725”, così chiamata dal numero della baracca in cui si svolgeva questo tentativo di don Roberto Sardelli di condurre il mondo dentro la povera realtà di quei “disgraziati” tra cui lui stesso andò a vivere alla fine degli Anni Sessanta per riscattare una insopportabile condizione, elevarla, convogliarla in un nucleo di nuova forza. Strano e suggestivo accostamento, educato e acquedotto: magari forzato, falsato da una Volksetymologie. Se facciamo derivare il verbo “educare” dall’unione della particella “e-” con il verbo “ducere”, ovvero “condurre”, l’educazione potrebbe dirsi una “operazione” volta a condurre l’uomo fuori da prassi inumane, fuori dalla sua stessa (naturale?) barbarie, o in qualche modo anche a condurre fuori dal suo corpo la sua umanità, elevarla, convogliarla. È la stessa radice di “acquedotto”, dove però il participio è riferito, naturalmente, all’acqua, e dunque è una “costruzione” per condurre l’acqua, convogliarla, in un certo senso elevarla, portandola in superficie, concentrando la sua potenza.
Quella che oggi chiameremmo “baraccopoli” ospitava allora famiglie provenienti soprattutto da Molise, Abruzzo e altre regioni del sud Italia che a Roma vennero - come sempre, come da sempre - a cercare fortuna, lavoro, dignità. Non ne trovarono, o almeno non in principio di quella “avventura” nella metropoli. Di questo si occupa, si ri-occupa e si preoccupa il volume appena pubblicato da Donzelli “Dalla parte degli ultimi”, curato da Massimiliano Fiorucci, docente di Pedagogia generale, sociale e interculturale all’Università di Roma Tre (nonché Direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione) che ha conosciuto e intervistato personalmente don Roberto Sardelli e ha studiato la pedagogia celata dietro quel “progetto” di “Scuola 725”. Proprio con «l’intento di sottolinearne il valore anche per l’attualità» in tempi pandemonici non (sol)tanto per la scuola, ma per l’intera comunità. Perché, come ricorda Fiorucci nell’introduzione, «Una scuola chiusa non è solo un edificio chiuso, è una comunità che viene improvvisamente a mancare». Quasi rispondendo allo stesso Sardelli: «Creare il clima di una comunità che cresce, che è orgogliosa di crescere, è questa l’impresa più grande di un maestro». Don Roberto aveva aperto, aperto un varco tra quelle baracche come i baraccati un giorno si erano aperti un varco nell’acquedotto per far giungere l’acqua in quei rifugi in cui non c’era corrente, non c’era elettricità, non c’era gas, non c’era vita.
Roberto Sardelli nacque a Pontecorvo, in Ciociaria, nel 1935 ed è lì, nel suo paese natale, che è scomparso lo scorso anno. Indisciplinato nel senso più puro: fuori dalle discipline, oltre le discipline. Don ribelle, sarebbe opportuno ri-chiamarlo. Aveva in odio le gerarchie, le gerarchie ecclesiastiche. E le gerarchie non avevano in odio il suo modo di agire, lo temevano. «“È una virtù l’odio, non è l’amore! Con il quale li avete sotterrati. È l’odio! Questi - spiega don Sardelli a Fiorucci - io li carico ogni sera di odio contro di voi, contro…”, il paradosso, giocavo sul paradosso… la persona intelligente capiva, la persona poco intelligente no. Erano suore e non tutte erano intelligenti». In testa la scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani, ma oltre anche lo stesso don Milani, con cui Sardelli ebbe contatti. Ma don Roberto era stato in Francia perché voleva vedere da vicino il fenomeno dei “preti operai” e studiare Teilhard de Chardin, voleva capirlo, gli era insopportabile non riuscire a comprenderlo appieno. Impossibile anche non pensare all’attivismo deweyano, a quel “Democrazia e educazione”, il riferimento a Paulo Freire e a “La pedagogia degli oppressi”, ma anche le riflessioni dal carcere di Gramsci: eppure ogni pensiero e azione fanno di Sardelli e del suo percorso con la “Scuola 725” qualche cosa di inclassificabile.
Il suo metodo ci appare ancora oggi rivoluzionario, tanto da essere intollerabile. Ha confessato Sardelli: «Mi sono trovato male con due categorie: con i preti, che non capivano o non volevano capire, credo che non volessero capire, e con alcuni intellettuali, specialmente gli intellettuali progressisti cattolici, questi non mi hanno potuto sopportare». Forse perché dietro un tale comportamento si cela questa umana radicalità: «Il cristiano è un nudo che segue il nudo». E la cristianità di don Roberto appare come un nido che insegue il nido, la richiesta di una casa come diritto dell’uomo, l’uomo come diritto dell’umanità, l’educazione come diritto dell’umanità.
«Qui la situazione dell’acquedotto Felice sarà risolta tra… 34 anni»: don Roberto Sardelli lo aveva sostenuto in una intervista riportata nel documentario “Non tacere” (2007, regia Fabio Grimaldi). Non è indicato l’anno della previsione, ma: l’acquedotto fu sgomberato nel 1973, le famiglie trasferite nel quartiere residenziale di Nuova Ostia, e nel 2007 un gruppo di ex studenti della scuola 725 scrive una nuova lettera al sindaco di Roma (dopo la prima, celebre, del 1969), “Per continuare a non tacere” in cui denunciare la situazione ancora irrisolta, periferica. Sono esattamente 34 anni. Non vuol dire nulla, le date prese in considerazione sono due delle possibili, ma la precisione della previsione è impressionante e politicamente, culturalmente rilevante. “Per continuare a non tacere” segue naturalmente quel testo, quel famoso non-libro di testo che fu pubblicato col titolo di “Non tacere” nel 1971. Eppure: “Imparai a tacere”, dice più volte Sardelli intervistato da Fiorucci. Come si può imparare a tacere per chi non vuole tacere? E invece don Roberto ci dimostra che prima di poter negare un concetto, prima di poterlo rifiutare, lo si deve apprendere, lo si deve maneggiare. Per sapere spegnere un fuoco bisogna prima aver imparato ad accenderlo, a domarlo. Il fuoco dell’esperienza della scuola 725 e della figura carismatica di don Roberto non è spento.
Quest’anno la Libreria Editrice Fiorentina ha ristampato “Non tacere”, un anti-libro di testo, un auto-libro di testo, così come progettato da Sardelli e dai ragazzi della sua scuola 725. Disegni, “barzellette” che in realtà sono dettati, riflessioni sulla storia contemporanea, passi della Bibbia, letture, confronti. Don Roberto è tra i primi a “rifiutare” il libro di testo, come si rifiuta la Storia, la Storia dei vincitori. Ma i baraccati non sono vinti: se Sardelli lo avesse pensato, non avrebbe iniziato la battaglia. Una lotta che era anche contro la scuola, quella istituzione pubblica che per il prete di Pontecorvo era il vero doposcuola. Si studiava insieme, si discuteva insieme, si ballava. Don Roberto amava profondamente il flamenco, un canto che danza le emozioni umane, una coreografia dell’introspezione (era originario di Roma uno dei primi animatori dei cafés cantantes, Silverio Franconetti). Ma attenzione, attenzione allo svago, ai “circenses”, alla ricreazione. «Ora non è che negassimo il momento della ricreazione, cercavo di spiegare il termine. Ricreazione non significa abbattimento nell’abulia, nell’apatia, no! Significa ricreare delle cose, e allora io facevo anche la corsa dei cento metri con loro e si divertivano, e vincevo io: quello è il bello, loro si meravigliavano, a trent’anni io li battevo sui cento metri.
Quindi non è che disdegnassi, ma davo uno scopo, un senso; anche in quella gara era prevalente lo scopo, dobbiamo far vedere che valiamo, quanto e più degli altri, dicevo. E allora, il canto anche, questo era un momento di ricreazione». Niente ricreazione con don Roberto, solo ri-creazione. Perché educare è dare forma, in-formare. «Quando sento parlare di riforma della scuola, perché dieci insegnanti in più, cinque di più… non è questa la riforma della scuola. Riforma, come dice la parola, è ridare una forma alla scuola, e la forma è lo strumento della scuola, è l’anima della scuola. L’anima è forma del corpo, la definiamo». La forma diventa necessaria. Perché lo studio è «Fatica, sudore! Compostezza fisica, diceva il povero Gramsci».
Forse l’unico punto su cui mi sento di - non voglio neanche dire - dissentire, ma quantomeno avviare una riflessione è quello relativo alla esclusione delle “favole” da “Non tacere”: «Queste, sovente, vengono scritte dagli adulti e imposte ai ragazzi. Noi crediamo che un ragazzo sia portato a scrivere prima di tutto sulla realtà che lo circonda e forma la sua diretta esperienza», ma «nel libro [“Non tacere”, ndr] inoltre ci sono molti racconti presi dalla Bibbia». Eppure proprio la Bibbia e Pinocchio sono i due libri più tradotti e letti al mondo, e in comune c’è la narrazione, il racconto, il mito, la favola, il desiderio tutto umano di raccontarsi. Nelle “Fiabe” di Andersen ce n’è una che fa al caso nostro, al caso “degli ultimi”, e s’intitola “Lo storpio”. La dinamica, è vero, è sempre la stessa: da una parte ci sono i signori, dall’altra i servi. «“Sono dei benefattori i nostri padroni”, dicevano i servi, “Ma ne hanno anche la possibilità e ne traggono piacere!”». Si chiedevano spesso: perché, pur essendo tutti figli del Signore, la ricchezza è distribuita in modo strano? «Dipende dal peccato originale», si rispondevano.
Ai pranzi cui era invitata anche la servitù, sebbene in un’ala separata dai reali, non partecipava mai solo Hans, un ragazzo “storpio” fermo a letto da gambe che non riuscivano a sostenerlo. Non vedendolo al pranzo di Natale, i padroni chiesero ai suoi genitori di portargli in dono un libro di favole: «Non servirà proprio a niente qui in casa», pensarono i suoi parenti, persino preoccupati. Quando chiesero ad Hans di leggere loro una di quelle favole, impazzirono per quella del boscaiolo e di sua moglie, che replicava quelle dinamiche signoria-servitù, ma soprattutto rimodulava il concetto di peccato originale, riproponendo Adamo ed Eva in chiave fiabesca. Un giorno passò da casa di Hans un maestro di scuola, e pure lui volle ascoltare quella storia. «Hans aveva letto il libro più volte. Le favole lo portavano fuori, nel mondo, proprio là dove non era in grado di arrivare». I signori un giorno fecero dono ad Hans di un uccellino nero in una gabbia dorata. In casa, però, il ragazzo teneva un gatto che più volte provò a saltare sulla gabbia per afferrare l’animale: un giorno Hans, non sapendo come evitare quella brutta fine, si alzò sulle sue gambe e salvò l’uccello dalle grinfie del felino.
Hans era tornato a camminare sulle sue gambe. Corse subito dal maestro, poi con i genitori dai suoi padroni, i quali lo aiutarono a partire, soprattutto per poter iniziare a frequentare la scuola, formarsi. Da lontano, dall’altra parte dell’oceano, Hans scriveva lettere felici alla sua famiglia. I genitori, tristi per la sua lontananza ma orgogliosi di quel figlio, si chiedevano: «Non sembra quasi che Hans stia leggendo dal suo libro di fiabe?».
Forse era giusto anche restituire a quei ragazzi della “Scuola 725” l’irresistibilità (per dirla con Zipes) della fiaba, l’irresistibilità della fantasia, della creatività, pur in un contesto tanto deprivato, o forse proprio perché in un contesto privato della leggerezza di cui quei ragazzi avrebbero avuto bisogno. L’ “Acquedotto felice” somiglia davvero a una favola e per realizzarsi ha avuto bisogno della visionarietà, del coraggio, anche dell’incoscienza del suo protagonista. Una storia che ricorda da vicino anche un passo di un pensatore molto amato e studiato da don Roberto, Teilhard de Chardin, che così chiosa nel suo saggio “Il fenomeno umano”:
Vi fu pure un tempo, l’abbiamo quasi conosciuto, in cui i lavoratori e i diseredati accettavano, senza riflettere, la sorte che li asserviva al resto della società. Ora, con la prima scintilla di Pensiero apparsa sulla Terra, la Vita ha dato alla luce un potere capace di criticarla e di giudicarla. Rischio formidabile, latente da molto tempo, ma i cui pericoli esplodono con il nostro primo risveglio all’idea di Evoluzione. Come figli divenuti adulti, - come operai divenuti “coscienti”, stiamo scoprendo che Qualche Cosa si sviluppa nel Mondo, per tramite nostro, - forse a nostre spese. E, fatto ancor più grave, ci rendiamo conto che nella grande partita in corso, noi siamo i giocatori e, nello stesso tempo, le carte e la posta. Nulla continuerà più, se lasciamo il tavolo da gioco. E nulla può d’altronde costringerci a rimanervi seduti.