Erdogan, Putin, Orban, Trump / La solitudine democratica
“Immanenza” è una parola bellissima che riempie i polmoni del filosofo di aria pura. È pronunciata spesso oggi, soprattutto dai filosofi italiani, che vi scorgono la specificità di una tradizione che dall'umanesimo fiorentino arriva fino a noi. Ma come tutte le parole essa deve passare il vaglio dell'esame pragmatico. Il significato di una idea è dato infatti dai suoi effetti sensibili, da ciò che essa concretamente “fa”. L'azione possibile è l'orizzonte di comprensione di un concetto. Che cosa significa allora veramente immanenza, qual è il suo contenuto pragmatico? La domanda concerne immediatamente il piano etico-politico, al quale la tradizione filosofica italiana è stata sempre sensibile. Da Machiavelli a Bruno, da Gentile a Gramsci fino all'odierna italian theory, che molto parla di immanenza, il grande pensiero filosofico italiano è stato sempre un pensiero della prassi; quindi, è non solo legittima ma inevitabile la domanda che chiede quali siano gli effetti politici di una filosofia che sospendendo ogni trascendenza fa dell'esperienza un assoluto. Non è una domanda astratta. Non si chiede di elaborare una nuova teoria politica generale. Ciò che si chiede è come si “impegna” chi si è gonfiato i polmoni con l'aria pura dell'immanenza. Quale engagement per chi muove dal presupposto, apparentemente solo contemplativo, secondo cui, per ripetere il celebre titolo del bel libro di Jonhatan Safran Foer, “ogni cosa è illuminata” (Bruno diceva che è ogni cosa è un'“ombra” di Dio che è tutto in tutte le cose)?
Apparentemente la conclusione che se ne dovrebbe trarre dovrebbe essere solo una mistica ebetitudine. In realtà la prima conseguenza pratica della salute prodotta dall'immanenza è la lucidità. Essere lucidi, ha scritto Hegel, vuol dire vedere non quello che accade ma la verità in quello che accade e poi raccontare quello che accade alla luce di questa verità, anche se è una verità quasi insostenibile. Un esempio folgorante di tale lucidità per eccesso è dato dalla riflessione di Michel Foucault sull'arte del governo nelle democrazie moderne. Essa ci riguarda da vicino. Tocca immediatamente il nostro presente più prossimo, anche quello sgangherato e pasticcione del dibattito referendario italiano. In pagine memorabili, risalenti alla metà degli anni '70, scritte in contemporanea all'avvento del neo-liberalismo in Inghilterra e negli Stati Uniti, Foucault smontava una ad una tutte le nostre illusioni “trascendenti” sulla democrazia, le stesse che la sinistra-sinistra continua, a distanza di quarant'anni, a coltivare imperterrita. La sua tesi è radicale: la guerra civile, scrive, è l'orizzonte di comprensione dell'agire politico, anche e soprattutto di una politica “democratica”. Nel formidabile corso tenuto al Collège de France nel 1976, Bisogna difendere la società, Foucault affermava che “una sorta di combattimento ininterrotto travaglia la pace (…) l'ordine civile - al fondo nella sua essenza, nei suoi meccanismi essenziali - non è che un ordine di battaglia (…) Dunque: la politica (anche e soprattutto in un contesto “democratico”, nota mia) è la guerra (civile, nota mia) continuata con altri mezzi”. Che la politica sia un campo di battaglia è affermazione per lo più intesa metaforicamente, che l'agire politico sia, in ultima analisi, riducibile alla diade amico-nemico, e che tale diade ricomprenda in sé, subordinandole, tutte le altre antitesi economiche, religiose, ideologiche ecc., è tesi che si attribuisce ai teorici dello stato totalitario (Carl Schmitt, ad esempio) e che si ritiene estranea alle magnifiche sorti della democrazia occidentale. Anzi questa si sarebbe generata come in una enorme pagina facebook “dando l'amicizia” a tutti e trasformando il conflitto in amena differenza di opinioni. Qui la battaglia sarebbe solo verbale e la violenza un corpo estraneo importato da micidiali batteri allogeni per i quali non si ha ancora la terapia adeguata. Eppure, mai come oggi, il dilagare del terrorismo islamista e del populismo fascista dovrebbe smentire questo irenismo e verificare l'ipotesi foucaultiana. Ciò che è in corso, come sempre del resto, è la guerra civile. Ciò di cui “ne va” in questa battaglia è la possibilità stessa della democrazia come società “aperta”, la cui negazione reale ed irrefutabile sono gli sterminati campi di morte del Mediterraneo.
Una conseguenza pratica dell'immanenza assoluta è così una educazione dello sguardo. Da sempre si affida alla filosofia il compito di costruire occhi supplementari che facciano vedere quello che veramente accade. Sono occhi non umani che supplementano quelli naturali, troppo fragili per sopportare la luce dell'evidenza. Se ogni cosa è illuminata la luce è abbagliante.... Non c'è nessuna novità in questo se non che il terzo o quarto occhio installato dall'immanenza assoluta è un occhio materialista. Occorre gridarlo a gran voce: questo occhio non naturale che finalmente vede come stanno praticamente le cose non lo si trova là dove invece lo si attenderebbe vale a dire presso quel “pensiero critico” che è rivendicato dalla cosiddetta “sinistra”. Il pensiero critico della sinistra è infatti solo idealismo e del tipo più sfrenato (oggi, più che mai, si capisce retroattivamente perché Marx abbia passato gli anni della sua giovinezza a rovesciare fiele su quelli che avrebbero dovuto essere i suoi “compagni di strada”: la sinistra, appunto...). A questo proposito è rivelatore il caso del referendum costituzionale italiano. Invece di chiedersi, pragmaticamente, quale battaglia sta veramente avendo luogo, chi sono i nemici, su quale fronte si trovino e quali siano le alleanze più efficaci da stringere per sconfiggerli, la sinistra opta idealisticamente per la questione di principio - il contenuto del referendum! - e, per ragioni di principio, si schiera anticipatamente e consapevolmente con i sicuri vincitori di domani, vale a dire con i populisti xenofobi! E questo nonostante la lezione del referendum inglese il cui tema era Brexit ma il cui senso, lo sanno anche i bambini, era tutt'altro: no agli immigrati, a quelli brutti, sporchi e cattivi, naturalmente, perché per il capitale si troveranno sempre soluzioni di compromesso. Essere materialisti non è una questione di opzioni filosofiche. Il materialismo è un metodo, diceva Bertolt Brecht, ed è un metodo di lotta. Esso consiste in un certo pragmatismo radicale. Per essere materialisti bisogna cioè saper fare la differenza tra il detto e il dire, bisogna cioè risalire alle spalle dell'enunciato per raggiungerne il senso, il quale non è parte espressa dell'enunciato ma ne costituisce l'effetto pragmatico reale. Ogni enunciato sottende insomma una relazione di potere (è la tesi di Foucault) ed è questa ciò di cui “ne va” veramente quando si prende posizione rispetto a quell'enunciato. Insomma, essere materialisti significa non sottrarsi mai alla battaglia che è realmente in corso, qui ed ora. Votare – se la democrazia è un campo di battaglia – non è esprimere un'opinione ma prendere continuamente posizione a favore della democrazia contro i suoi nemici, avendo sempre ben chiaro chi sono, dove si collocano e, soprattutto, cosa desiderano.
Per una strana ironia del destino si trova maggiore consapevolezza di questo conflitto esiziale per la democrazia presso le cancellerie delle democrazie europee piuttosto che nel pensiero critico della sinistra. Questa stringe suicide alleanze tattiche con i populisti, si meraviglia di ritrovare da quella parte tante buone ragioni, molte delle quali, dice, mutuate dal suo “pensiero critico” (critica del capitalismo finanziario, difesa del welfare, purché bianco e cristiano, ovviamente... ecc.), dimenticandosi che una siffatta convergenza di interessi si era già presentata nella storia europea, in occasione dell'altra grande crisi, quando fascisti e nazisti prosciugarono allegramente il bacino elettorale della sinistra. In un estremo sussulto di idealismo mette poi tra parentesi la contraddizione fondamentale, quella che passa tra Nord e Sud del pianeta, e si illude che ci siano questioni puramente “politiche”, il referendum, ad esempio, che non rimandano sempre e comunque a quella contraddizione come alla contraddizione fondante. Le burocrazie europee, tacciate sistematicamente di ignavia, sembrano invece assai più avvertite del pericolo, forse perché fiutano nell'aria l'imminenza di una apocalisse che non le risparmierà, perché, quando avrà luogo, non riusciranno nel solito giochetto di distribuire i rischi sul 90% della popolazione, lasciando indenne, anzi ancora più ricco, il restante 10%. Gli storici del futuro avranno molto da lavorare per comprendere la trasformazione in corso, ma essa si deve alla mutata funzione del governo nel contesto della guerra civile mondiale. In determinate situazioni – penso soprattutto al caso dell'Italia – e per un complesso di ragioni contingenti, il governo da apparato esecutivo al servizio degli interessi dominanti diventa parte in causa del conflitto tra la democrazia e i suoi nemici. Governare in quanto tale diventa, insomma, nella situazione di crisi estrema, una precisa opzione a favore della democrazia e dello stato di diritto (così, credo, sarà interpretato il mandato Obama). Per dirlo nella lingua di una filosofia dell'immanenza: quando il cambiamento si fa assoluto e non ci sono più stampelle trascendenti sul quale fondarlo e annullarlo, l'arte politica per eccellenza diventa l'arte pragmatica del governo, la “cibernetica” (se stiamo all'accezione etimologica della parola: l'arte di governare la nave).
Non tutti i governi naturalmente, perché c'è chi fa un uso strumentale della democrazia (Erdogan, Putin, Orban, Trump...) e chi invece la serve. Un criterio per distinguere gli uni dagli altri, un criterio certo insufficiente ma indispensabile, è dato allora dalla solitudine che permea l'azione di governo. Al contrario dei loro omologhi criptofascisti, i leader democratici occidentali, infatti, sono soli. Una stessa mancanza li accomuna: sono senza un popolo. Hanno guadagnato un consenso formale, altamente mediato, debitore di fragili equilibri istituzionali, fondato su faticosi compromessi, ma il popolo, quando prende la parola, li rinnega, facendone se non i responsabili, almeno i complici di ogni sua miseria, reale o immaginaria che sia. Hillary Clinton era una donna sola al comando e sotto gli occhi abbiamo l'isolamento vissuto dalla cancelliera tedesca, che, avendo osato la più grande impresa di solidarietà nella storia recente d'Europa, ne sta pagando lo scotto elettorale e mediatico. La loro solitudine è, per così dire, il rovescio esistenziale del populismo con il quale, governando, si devono misurare. “Rarità” chiamava Henri Bergson questa solitudine del “grande” politico evocando in tempi che si avviavano ad essere plebiscitari, siamo nel 1932, l'ostinazione di quei leader che servivano la razionalità procedurale dello stato di diritto, seguendo la stella cometa di una società aperta, universale e cosmopolita mentre tutto intorno a loro premeva per soluzioni “chiuse”, identitarie, territoriali, in una parola, una parola che Bergson non usa, “fasciste”.
“Impossibile” definiva Sigmund Freud, quasi negli stessi anni, la posizione di chi in una società democratica è investito dell'onere del governo. Gli uomini politici sono allora rari, come diceva Bergson, perché, in democrazia, fanno un mestiere impossibile, perché osano “governare” assumendo la democrazia come orizzonte intrascendibile del loro agire. La solitudine ne consegue necessariamente.