La Spoon River dei braccianti
“Sei nero? Allora lavori in nero!” E in nero puoi anche vivere, e soprattutto morire. La Spoon River dei braccianti (Meltemi, pagg 171, euro 15) di Antonello Mangano, autore di inchieste su mafia e migranti, è come l’Antologia di Spoon River. Uscita nel 1914, se l’originale era una raccolta di poesie con cui l’americano Edgar Lee Masters dava voce ai defunti di una comunità rurale immaginaria, Spoon River – richiamati come fantasmi a raccontare uno per uno le loro storie che si attorcigliavano fino a creare un tenero e disperato intrico di doglianze e rimpianti –, qui la citazione dei “morti sul cimitero della collina” dell’Illinois ritorna invece come traccia umile e commovente (se ne fossimo ancora capaci), da cui parte un ben costruito reportage narrativo che denuncia per voce loro la situazione degli uomini e delle donne che, sfruttati come bestie, in questi nostri anni opachi e disumani sono morti per lavoro sui campi e sui cantieri di tutta Italia. Ma, occorre dirlo subito, fuor di poesia e di epitaffi, morti sì, ma non solo per lavoro.
Dato che più di qualcuno è stato anche ammazzato dalle mafie, da complici e caporali, per le sue denunce, perché reclamava giustizia, o è stato lasciato solo a crepare di fronte all’epilogo atroce della sua solitudine di sfruttato invisibile. Qui nel catalogo sono tutte storie disperate e finite male, anzi malissimo. E nessuna di queste come italiani ci assolve, nonostante l’alleggerimento poetico e il preambolo antifascista che ricorda l’incontro tra Nanda Pivano e Cesare Pavese, innamorati loro, da lontano, delle storie dei vinti della vecchia America rurale. È una simbologia forte, quella utilizzata da Mangano per tastare il polso al pubblico italiano, in un momento politico in cui i freni del pudore nel dire certe cose sembrano decisamente in via di esaurimento. Qui i vinti stranieri di casa nostra escono dalle pagine ancora più vinti; magari un po’ meno soli, un po’ più visti e raccontati, alla fine. Narrandoci Mangano, che ne ha fatto raccolta, storie individuali di braccianti agricoli e lavoratori senza diritti finite puntualmente in tragedia.
Con gente che crepa senza un amen tra i veleni di una serra, sotto una pressa, in un capannone abusivo, sui ponteggi di un cantiere, o peggio ammazzato di botte o fucilate in un ghetto. Morti per lavoro e sfruttamento in Italia non risparmiano nessuno, non guardano in faccia pelle e passaporto. Solo qualche giorno fa a Monopoli, in Puglia, si è consumata un’altra tragedia. Due operai edili, paesani di Coversano, di 64 e 62 anni, sono morti in un cantiere mentre lavoravano. Nonostante normative e controlli, troppo spesso insufficienti, di lavoro si continua a morire – in Italia e nel mondo intero. E tuttavia, anche quando normative e controlli sembrano più efficaci, ci sono lavori dove è praticamente impossibile annullare il rischio di restarci secchi. Quei lavori con la morte a cottimo che fanno solo i poveri, i disperati di ogni latitudine, le donne e i paesani che non possono permettersi a più di 60 anni una pensione decente, gli extracomunitari raccattati dai caporali o buttati per strada a fare i rider dai delivero per le nostre pizze a domicilio. In nero e senza diritti. Tutti. È un’amara verità, che sarebbe disonesto tacere per agevolare la facile demagogia dell’integrazione lavorista.
Dopo aver ascoltato i patimenti che portano a morte i moderni “schiavi”, quelli segregati e sfruttati nei ghetti vicino a casa nostra, sfiancati da fatica e abusi, quanto dura l’empatia umana che proviamo per loro? Anche dopo averne approfondito i dettagli umani, l’aspetto biografico, le vicissitudini umilianti e sordide, come fa limpidamente Mangano in questo bel libro, onesto e solidale. Poco, sembra avvertire lo stesso Mangano. Qualche volta, è vero, “quando esistono le condizioni” si creano rapporti umani splendidi, alleanze eroiche. Un ponte vero tra noi e loro. Mangano ne racconta di esempi. Ma il resto, purtroppo maggioritario, è “sguardo paternalista”, e se va peggio ancora “ghetto mentale” fatto di paura, cattiveria sociale, razzismo, spesso a mezzo bocca. Persino la natalità dovrebbe servirebbe, si dice oggi, a preservare l’etnia italiana, a dare più figli alla Patria, alla Nazione.
Le preoccupazioni demografiche per la stirpe italica, con questa logica, non sono più legate a questioni di tenuta del sistema del welfare, a possibilità di inclusione, ma identitarie, ideologiche. Come la presunta «sostituzione etnica» in corso, evocata in passato anche da Meloni, che ha però detto di ignorare l’origine dell’espressione, usata volentieri dai suprematisti neonazisti e dai cospiratori del famigerato “piano Kalergi”.
E se fosse invece proprio il lavoro il problema? Questo genere di lavoro, senza speranza di risalita e senza dignità, che rende chi ci capita dentro solo un avanzo da tritacarne. Un meccanismo infernale che macina poveri, e che, se pure ti ammazzi, o ti ammazzano – letteralmente – per farlo, mai si riuscirà a riscattarlo e renderlo più umano e sicuro. Il problema siamo noi allora, e quello che siamo disposti ad accettare, se le cose rimangono così. È un mondo il nostro che gira ormai alla rovescia. I morti di fame per lavoro come questi della Spoon River dei braccianti di Mangano non fanno notizia, non sono un problema di coscienza, non assumono rilevanza sociale. Si guadagnano al massimo qualche trafiletto in cronaca.
O riempiono i libri di pamphlettisti sognatori di sinistra, letti da quelli senza partito e senza più un sindacato (chi li vuole pesare più gli intellettuali rompicoglioni?). Storie di chi altrimenti se ne sarebbe andato via per sempre senza piantare un seme di memoria, extracomunitari senza diritti e schiavi nostrani, lasciati tutti senza volto né vicenda raccontata, ammazzati e basta da lavori di merda. Tragedie che restano chiuse tra i fogli volanti di un cronista, e magari, con un sospiro di sollievo, dieci minuti dopo non si fila più nessuno. Poi ci sono invece reportage dolenti e ben documentati che come questo di Mangano sanno disturbare, e con insistenza ci fanno problema, e ridanno voce a storie che sono anche pagine di poesia civile e di indignazione, in cui la denuncia, lucida e accorata, mette in fila un catalogo di casi della nostra età di uomini di adesso dentro un mondo che ha smarrito senso e finalità.
In cui ci tocca scegliere da che parte stare, dato che vicende così rappresentano l’orrore quotidiano nel quale, noi, continuiamo allegramente a sguazzare al riparo della nostra indifferenza. Resta lo scrupolo di reclamare per loro, per le vittime e per noi, come fa Mangano, uno spiraglio di redenzione. Ma sono tempi duri per queste belle speranze.
C’è nel libro, in apertura al capitolo che Mangano affida alle sue provvisorie Conclusioni, quello sulla famigerata foglia di fico del Made in Italy, un distico raggelante che riporta una frase tratta da Furore (1939) di Steinback: “la gente comoda nelle case asciutte provò dapprima compassione, poi disgusto, infine odio per la gente affamata”. Forse è per questo che va persino più di moda il genere opposto. C’è, infatti, invadente, il vittimistico cantico dei potenti, degli affaticati dal successo e dalle sue conseguenze. Riempie i social che hanno facile gioco a mostrare, i canali tv e i talk del pomeriggio. Dato che la lotta di classe l’hanno vinta loro, pare che soprattutto loro, i ricchi, abbiano adesso fondati motivi per lagnarsi di tutti i loro patinatissimi guai.
Anche se difficilmente con le loro professioni light gli capiterebbe, non sia mai di precipitare da un ponteggio come un muratore marocchino a cottimo, ma al massimo di scheggiarsi un’unghia dalla manicure o di sbagliare il trattamento per i capelli da un parrucchiere da 1000 euro a shampoo. Gente che assuntasi, spesso per destinazione più che per lo strombazzato merito, un posto da vip nei cieli del successo in cambio di responsabilità esigue e spesso lautamente remunerate in termini economici o di notorietà, chiagne e fotte a tutto spiano. Ovunque si leggono dichiarazioni di politici, gente dello spettacolo, giornalisti e intellettuali-vedette, che vorrebbero smaltire le scorie delle loro auree incombenze sulle spalle di chissà chi, e si lagnano continuamente di quanto hanno dovuto subire e patire, loro, in ragione del denaro, del potere e del ruolo elevato.
Si tratta di un contegno incredibile. Una strisciante insofferenza, un sentimento di aperta detestazione e di cattiveria sociale aizzate ormai a stigmatizzare il disagio, la fatica, il lavoro povero, la condizione dei malvissuti veri, si insinuano così nell’opinione dei potenti e nella vita pubblica – del resto già ampiamente ricompensata dai privilegi e osannata dalle schiere imbecilli dei followers e degli imitatori aspiranti. Così si assiste al politico che si lagna di fare le 3 di notte al tavolo del Consiglio dei Ministri, al calciatore milionario superimpegnato dalle sue routine che non riesce a portare in vacanze a Formentera la fidanzata-Barbie, alla vipperia piagnucolante dalle finte cayenne di isole di sogno, all’influencer che posta su instagram una foto del suo culo gonfio e siliconato in tanga e poi deplora gli haters che “mi criticano per il mio corpo”.
Fino all’amministratore delegato della multinazionale miliardaria che piange come un perseguitato politico o un sanspapier bastonato dalle guardie di frontiera perché la magistratura “dopo aver tanto lavorato” – nascondendo i soldi sul conto cifrato in un paradiso fiscale del Golfo, e senza aver mai pagato un euro di tasse – gli fa l’onta di un’indagine per evasione fiscale. Anche i ricchi soffrono, e pure loro alla fine muoiono. Ma forse non c’è ancora posto per loro in una nuova antologia di Spoon River.