Speciale
La fine del mondo / Ultimo Appennino: strade che si perdono nel nulla
C’è una pagina calabrese che Ernesto De Martino consegna alla prosa intensa di La fine del mondo, il suo saggio sulla perdita della presenza e la fenomenologia delle “apocalissi culturali” che inasprivano la vicenda umana delle plebi rurali del vecchio Sud contadino fino agli anni del secondo dopoguerra: «Ricordo un tramonto, percorrendo in auto qualche solitaria strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo le notizie che desideravamo, e poiché le sue indicazioni erano tutt’altro che chiare gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci sino al bivio giusto, a pochi chilometri di distanza: poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse una insidia, e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta, secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara: finché quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una “patria perduta”».
Il campanile di cui scriveva De Martino in realtà a Marcellinara non c’è; non c’era neanche allora. Probabilmente era quello di un’altra qualche piccola contrada sperduta in questa Calabria di mezzo, sepolta tra le montagne e il mare. In posti demartiniani come Marcellinara ci sono andato più volte, anche per controllare i luoghi, i sembianti, le posture di chi vi abita. Per capire, se e quanto resiste al precipizio dei tempi di adesso, la forza rivelativa di quella pagina. Per avere una misura di come stanno le cose adesso bisogna rivedere i paesaggi, occorre geolocalizzare di nuovo i vecchi punti di vista, capire di quanto risultano sbandati i punti archimedici, e poi anche mettere l’orecchio per terra, ascoltare i suoni, le voci, le assenze; rifare la mappa di luoghi e di nature, di tutto un catalogo di oggetti e cose animate, rispetto a com’erano allora, tra le pagine di quei sui libri carichi di ragione acuminata e di umanissimo pathos. Solo così si può restare fedeli allo sguardo che a suo tempo De Martino aveva gettato su queste terre del rimorso. Solo così si può proseguire oggi, qui e altrove, quella ricerca di senso che a partire dalle resistenze e dai residui dell’arcaico che identificavano il vecchio Sud contadino, avrebbe condotto lo studioso napoletano a indagare il tema infinitamente più vasto e precisamente opposto a queste localizzazioni: il rischio costante della crisi, della perdita di senso presente in ogni civilizzazione, e in particolare in quella europea.
La lezione di De Martino parte da pochi fatti ordinativi della realtà che restavano immutati sin dall’antichità: mai far finta di allontanarsi dagli apriori della storia, dal peso variabile del paesaggio e della geografia umana, dalla incolmabile dismisura rispetto all’indifferenza soverchiante della natura che nessuna civilizzazione e nessuna scienza e progresso tecnico riuscirà mai a neutralizzare e annichilire del tutto. La nemesi, l’apocalissi culturale temuta da De Martino in La fine del mondo, consisteva esattamente in questo: «L’annientarsi della presenza è la perdita della cultura, è il risommergersi nella natura, nel completo naufragio dell’umano. O anche: è il non esserci più in una storia umana, è la follia». Il Sud irredento, tre le montagne appenniniche e i latifondi, i villaggi e le marine desolate tra Lucania e Calabria interna, le ridotte sperdute di questi ultimi Appennini, erano lì a raccontarlo questo semplice palinsesto, mille volte ripetuto dalla storia del Sud. Ma adesso?, non è forse accaduto il contrario di quel ragionato storicismo demartiniano?: la fine del mondo oggi è la perdita della natura che nega l’integrità stessa di ogni cultura umana; sostituita dall’esorbitanza eterogenea e spaesante di una sorta di alienazione sovra-culturale e materiale. Ma identico è il risultato di queste nuove apocalissi culturali: il naufragio dell’umano, quel non esserci più di una storia, paventato con l’annientarsi della presenza. La follia che avviluppa la realtà.
Una certa idea della Sila
Col tempo ho identificato per me una certa idea di paesaggio. Specie di quello più prossimo, con i luoghi che mi sento più addosso per motivi di lavoro, di azione, di passione, di vita. Sono i luoghi che ho visto e che rivedo, che attraverso nei mille andirivieni quotidiani che accompagnano le mie giornate e la mia solitaria inquietudine. Una piccola geografia domestica che mi entra negli occhi e scava nel cuore un suo nido, ed è per questo più mia, più vicina. Anche se non smette mai di interrogarmi, di mettermi alla prova e di farsi problema. Sono posti della Calabria e del Sud di adesso. Una specie di precipitato di natura e storia, che sempre più si fa fatica a tenere a bada e a circondare con la mente e con gli occhi. Domìni che fino a un tempo non lontano appartenevano intoccati a un regno di natura solare, spodestato in fretta dall’accellerazione brusca della storia e trasformati dalla marcia in folle dalla mobilità generale, adesso invece sempre di più prossimi al caos, all’indistinto, addossati alla vita della gente che li occupa e ci vive come può.
Rimettendomi in giro per attraversarla come spesso faccio per una sorta di anàbasi dai margini al centro, abbandonando le coste e addentrandomi nelle sue vaste ridotte montane, ho costruito per me anche una certa idea della Sila. La Sila è davvero una specie di acropoli abbandonata, una ridotta – straniante e talvolta ancora piuttosto verace – del continente Europa. Il suo ultimo confine montuoso emerso in una regione del Mediterreno più meridionale, la Calabria, un tempo tutta ritirata verso l’interno appenninico, assediata inutilmente dalla fascinosa ricchezza e vaghezza del mare odisseo, e oggi invece straripante verso il fuori, gettata proprio sulle sponde trafficate e frastornanti di quel Mediterraneo da cui per secoli questa terra si era ritratta e difesa arrampicandosi in montagna. La Sila impone alla Calabria che non ama guardarsi dentro e discutersi, le leggi elementari e rinnegate della dialettica e degli opposti. Reclama intelligenza e comprensione. È uno stato e un luogo, è Factum e Volumen. La Sila è massiccia, reale, sta lì, resiste e si oppone all’ovvio (il turismo, lo sviluppo, i festival, le monoculture, il malgoverno ect). Fa sua la virtù chiarificatrice di ogni dialettica. Distingue. Tra vuoto e pieno, tra antico e (sur)moderno, tra natura e caos, tra silenzio e casino, tra luce e ombra, tra fuoco e neve, tra il dentro e il fuori, tra bellezza e ripugnanza, tra senso e nonsenso. Ma la Sila è ancora molto altro. E una pletora di rappresentazioni, di racconti, di asserti e di stratificazioni sommarie e più o meno vistose.
A cominciare dalle immagini del passato che la precedono, fino a quelle che oggi la svendono come destinazione turistica a prezzi d’infalzione, come “SilAvventura”. È uno dei simboli della Calabria di ieri e di oggi, la Sila. Lo stemma che identifica la Regione – il gonfalone ufficiale della Regione Calabria è stato promulgato e adottato da non molti decenni – con un certo lusso araldico dispone in uno dei suoi quarti principali il pino laricio, l’essenza tipica dei boschi silani. La conifera simbolo diffusa dalle montagne dalla Norvegia sino ai monti dell’Asia minore, di quella Sila che della Calabria dei bei monti e delle belle selve che diedero pace bucolica dagli antichi versi di Ovidio e al «Calabri rapuere», il breve motto che compare nel famoso epitaffio fatale di Virgilio, è (o dovrebbe essere) un identificativo. Un brand come si dice oggi col lessico superabusato e maldestro del marketing territoriale e del turismo facile facile.
Qualche tempo fa ho saputo di questa storia. Wim Wenders aveva un progetto, un film da fare in Calabria. Non quello sui migranti, commissionato e realizzato anni fa per conto dalla Regione. Un altro, molto più alla Wenders. Aveva scelto le montagne. I boschi. Il silenzio dei mistici medievali. Doveva girarsi in Sila, sull’altopiano silano. Certo in Sila si trovano ancora luoghi in cui si respira quella che un altro tedesco innamorato del Mediterraneo come Nietzsche definiva «un’aria delle cime, un’aria forte». La Sila è come un Finis Terrae che scivola ovunque sul bordo improvviso e mozzafiato di un paesaggio che non ha eguali in asprezze e bellezze, che sembrano essere accoppiate e sparse a casaccio dalla mano di un dio generoso e distratto. Da simili altezze «quanta parte del mondo sentiamo sotto di noi!» (Nietzsche). Altri spiriti eletti del Grand Tour e stranieri di passaggio vi scorsero una prova del sublime kantiano, che è insieme religione naturale e percezione estetica di una bellezza non-umana. Oggi, però, è un’altra cosa.
Mi hanno raccontato che a Wenders è bastato un sopralluogo, un solo giro di ricognizione dal vero sui posti in cui in Sila aveva progettato di portare il suo set, e avendoli trovati sfregiati e sconvolti senza scampo, ha cambiato idea. Niente più film, subito abortito.
Un giorno, per conto mio, ho ripreso le tracce di Wim Wenders, che seguendo i passi di san Bruno di Colonia e Gioacchino da Fiore voleva fare questo film sul misticismo della Sila e sulla sacralità dei boschi e delle montagne calabresi. Sono andato in Sila, in auto, a San Giovanni in Fiore, e nei paraggi. Poi di groppa in groppa più a Sud, nel vibonese, fino alle Serre e alla certosa di San Bruno da Colonia. Io non sono un camminatore, un fanatico della moda del naturalismo en plen air. Dopo un po’ a camminare mi stanco, mi annoio. Io preferisco l’automobile. A guidare e a guardare fuori dai finestrini si guadagna spazio e c’è meno pathos, o è solo che il pathos dei luoghi che attraversi passa più in fretta. Poi in Calabria tutto succede per strada, sulla strada. Solo dalla strada capisci che il paesaggio è in rotazione continua. Soprattutto si consuma, la strada stessa è consumo, e la natura è la prima vittima. Il verde, le montagne, la terra, il blu del mare, l’aria anche, tutto quello che viene toccato dalla strada finisce male. La strada è un’addizione costante, è la storia mai più contenuta, il caos sempre eccedente. Sulla strada il presente è continuo, estenuato, de-naturato, anche se effimero, brutto, sconciato quasi sempre.
Da strada a strada certe volte si entra in un’altra geografia. Si attraversano mondi. La geografia in Calabria conta molto, ancora oggi, è un apriori della Storia, come ai tempi di De Martino. E la Sila è un uno di questi apriori: è un carattere, una montagna grande, un quadrato compatto, quasi 100 km per lato. Si può aggirare, ma è impossibile evitarla. È al centro della geografia della parte continentale della regione, così come lo Stretto sta lì in fondo a Sud a farne l’orlo prima che l’ultima terra d’Italia si getti nel mare.
Sono cambiate le immagini. È l’antipodismo del presente, la sua capriola dialettica a farla da padrone. Oggi la Calabria è una regione rivoltata sottosopra. Le strade per la Sila incominciano, al contrario di un tempo, tutte dal mare, da una costa all’altra, dal Tirreno allo Ionio. Un ramo trafficatissimo della SS18 si trasforma nella 107 Silana Crotonese. È una delle strade cardinali della Calabria di oggi, 138 km di superstrada, la 7° per pericolosità tra le 10 più pericolose d’Italia (dati Anas). Comincia all’altezza di Paola sul Tirreno, si inerpica su per la costa ripidissima, valica le prime cime dell’Appennino e della Catena Costiera, scende fino a Cosenza e poi risale fin dentro il cuore verde della Sila, oltrepassa San Giovanni in Fiore – il paesone informe e arroccato come la cittadella di un’utopia malriuscita che della Sila è la capitale – e infine ridiscende verso lo Ionio, finendo proprio davanti alle periferie arruginite della Pertusola di Crotone. Crotone ai piedi della Sila è diventata la città calabrese simbolo dei guasti ambientali e della lunga crisi della chimica industriale, la Crotone millenaria, l’ex Stalingrado del sud, a cui qualche scadente cronista locale ancora affibbia l’altisonante aggettivo di “pitagorica”.
Mentre guido sulle statali che in Calabria corrono sotto il muro incombente dei monti e a filo del mare, spesso mi giro dall’altra parte, per consolarmi, per riprendere fiato. Le montagne dell’Appennino sono ovunque; sono un muro, una vertigine che si spezza solo sotto le spiagge. Non credo che molti lo sappiano ma la Calabria è una regione subalpina scivolata al 38° parallelo: qui in quasi 300 km di costa corrono le cime più alte dell’Appennino dal Gran Sasso all’Etna. In alto l’osso duro dell’Appennino domina sull’orizzonte marino, sempre. La montagna sta su tutto, si ritrae dal mare come un grosso un leone acquattato, con le zampe immerse nella pozzanghera del Mediterraneo. Il profilo dei monti calabri è come scosso da un’onda sismica gigantesca che resta imprigionata per sempre nel soprassalto delle rocce. Come se gli dei in vena di prodezze sovrumane qui si fossero gettati per terra e avessero avuto un amplesso sconvolgente, furioso, con la Calabria. E questo tremore antidiluviano sembra avere impresso a questi luoghi le stimmate di un commercio elettrico con le energie tettoniche che si manifestano intermittenti e incaute. Un disegno provvisorio destinato a restare per sempre anche dopo la furia generativa, un abbandono scomposto. Solo la Sila, la sua remotissima acropoli di granito, si salva e riposa in mezzo a questo caos tellurico. La montagna visitata dagli dei si impenna bruscamente all’altezza del Pollino, subito dopo le coste e risale come un’onda regolare verso l’interno, verso la Sila, la grande selva. La Sila è strana. È diversa dal Pollino, dalla Costiera Tirrenica, dalle Serre, e da tutte le altre montagne più giù, fino all’Aspromonte.
Se attraversi al Sila in automobile, se fai le superstrade che fanno i grossi Tir che sciamano da un capo all’altro dei due mari e gli spedizionieri che hanno la fretta delle consegne nei piccoli paesi isolati, le provinciali dei vecchi bus appannati dal fiato degli studenti dei paesi di montagna e dei lavoratori pendolari fuori dal letto alle prime luci del mattino, se eviti la retorica dell’immersione nel naturalismo della domenica dei cittadini, dei viaggi lenti e delle camminate di salute di quelli che riscoprono la montagna e le beatitiduni delle tre giorni paesologiche, vedi che anche la Sila già non c’è più. Al di là del chiacchiericcio dei politici e degli slogan sensazionalistici delle campagne di promozione turistica, oltre le pretese sguaiate del marketing, ne sono rimaste poche solo poche spoglie disintegrate. Il luogocomunismo delle apparenze silvestri e gli scorci da cartolina, il turismo ecologico, tradiscono. Occorre “vedere”, avvicinarsi e zoomare velocemente, stare dentro e fuori contemporaneamente; camminare con lentezza dentro il paesaggio silvestre, rintanarsi nel folto di un bosco, stare dentro il recinto dei parchi non basta: il mondo scorre ai lati anche in Sila, e non basta limitarsi a ritagliare qualche bella foto o guardare il verde brillare da lontano. Se stai ai lati, per strada, vedi un’altra Sila. Vedi il compendio sparpagliato di un altro mondo, di un’altra Calabria, di un altro sud. Altra Italia. Troppo cemento in giro, anche tra i monti fitti e nelle aree verdi tutelate dal Parco Nazionale della Sila (che si candida a diventare sito Unesco). Troppe superstrade e stazioni di servizio all’americana, troppi abusi condonati e villette in stile alpino, troppi fast food, e capannoni e stalle industriali tra i pascoli, le radure, i boschi e i campi di patate.
Dopo lo storicismo critico di De Martino, ha forse più ragione l’analitica delle figurazioni alla Wenders. «Le immagini non sono più quelle di un tempo. Impossibile fidarsi di loro. Lo sappiamo tutti, lo sai anche tu. Mentre noi crescevamo, le immagini erano narratrici di storie e rivelatrici di cose. Ora sono tutte in vendita. Con le loro storie e le loro cose. Sono cambiate sotto i nostri occhi. Non sanno più come mostrare nulla. Hanno dimenticato tutto», recita un dialogo di Lisbon Story. Forse un film sui mistici medievali calabresi si potrà girare sull’Atlante in Marocco, o in sui Tatra, sugli Urali o in Romania ancora per un po’, ma qui ormai è impossibile. La Calabria desertica e silvestre dell’Urwald che allevò i mistici e i santi medievali è scomparsa, morta. In ogni luogo di natura annichilito dal raggio di morte della contemporaneità, la realtà del mondo brucia nell’impostura delle sue apparenze.