Speciale

"La Storia" e le storie di tutti

4 Dicembre 2024

I lettori estremofili

In biologia si definiscono «organismi estremofili» quei microrganismi in grado di sopravvivere in condizioni proibitive per la media degli altri organismi viventi. Uso questa definizione come una metafora delle nostre esistenze contemporanee. Disseminata in sintomi e segni eterogenei, la nuova età del trauma metamoderno disloca cause ed effetti a distanze smisurate, «creando una continuità di esperienza tra il Bengala e la Louisiana, New York e Mumbai, il Tibet e l’Alaska» (Ghosh). Questo Great Derangement – per citare il saggio di Amitav Ghosh, uno dei testi più significativi sulla «policrisi» (Tooze) contemporanea – ci chiama ad una trasformazione estremofila Laddove tale trasformazione estremofila si sia sviluppata in modo graduale, essa consente – sempre sulla falsariga del saggio di Ghosh – di pensare «l’impensabile», di elaborare quei cambiamenti sociali, climatici, geopolitici che oggi sovrastano le nostre capacità psico-cognitive con la loro forza d’urto.

Da questa prospettiva, e restringendo notevolmente il focus della condizione umana contemporanea a quella di una sua sotto-categoria, quella del lettore, si può ipotizzare che anche la lettrice o il lettore contemporaneo sia sempre più un organismo estremofilo. Il suo bisogno e desiderio di lettura troverebbero quindi la propria origine, o comunque una loro radice consistente, nella possibilità di sviluppare risorse di sopravvivenza in condizioni estreme. Nel mondo contemporaneo del Great Derangement, l’esperienza della lettura presuppone allora un testo in grado di generare tali risorse attraverso un’esperienza immersiva.

L’attualità della Storia consiste nel fatto che prefigura con straordinaria visione profetica la condizione estremofila di oggi. Il romanzo propone un modo di immaginare e di raccontare dal punto di vista del trauma: una dimensione immersiva che oscilla tra la superficie del quotidiano e il doppio fondo di una dimensione estrema (Rothberg). Il lettore sprofonda in questo universo tragico ma al tempo stesso riemerge da queste cavità del dolore attraverso un rito catartico che propone risorse e strumenti per la sopravvivenza nel mondo estremofilo di oggi.

Il paradigma del trauma è decisivo anche per capire le ragioni del successo popolare e dell’insuccesso intellettuale del romanzo. Proprio a causa di questa cifra traumatica, l’opera è stata infatti ed è tuttora delegittimata come il “romanzone” del sentimentale, del patetico femminile, del recupero di una forma desueta di realismo e dunque di inganno. Non si imputa solo alla Storia di vendere ai lettori una facile leggibilità del reale ma anche di avere applicato questa banalizzazione ad anni cruciali della identità politica della nazione, e in particolare della sinistra italiana. L’inganno prodotto dalla Storia sarebbe dunque al tempo stesso estetico e politico, e si intreccerebbe alla tracotanza con cui una scrittrice – una donna – avrebbe contaminato alcuni nuclei della ideologia di sinistra e del suo ceto intellettuale, edulcorandoli attraverso un registro patetico e semplificandoli attraverso le forme del realismo. Su questo caso letterario, «il più rilevante e politicamente connotato» (Borghese) della letteratura italiana contemporanea, si sofferma anche l’Introduzione alla sezione dedicata alla Storia della rivista Allegoria, in uscita a fine 2024 e co-curata da Katrin Wehling-Giorgio e da me, al cui interno si trovano molti contributi e tra questi una versione più articolata di questo mio testo.

Articolo ora qui di seguito i due nuclei attuali del romanzo: il realismo traumatico e le sue risorse etico-politiche.

Il realismo traumatico

Il realismo traumatico è il principio narrativo e immaginativo su cui la scrittrice ha costruito il romanzo, sperimentando una tecnica di trasparenza della superficie talmente tersa da sabotare se stessa, disattivando a tratti il principio stesso del realismo (de Rogatis-Wehling-Giorgi). Il realismo traumatico è la vita ordinaria dalle vittime, la cui normalizzazione è però continuamente incrinata da emozioni estreme che esplodono. La superficie della realtà apparentemente coesa, conforme, abitata da vite minime, in quartieri popolari, in appartamenti poveri, in stanzoni di sfollati, si sgrana continuamente. Il meccanismo del realismo traumatico agisce sin dalle prime pagine del romanzo, quando Ida precipita dalla superficie del quotidiano – è colta nell’atto banale di tornare a casa con le buste della spesa, un topos ricorrente – nel doppio fondo della «apparizione propria e riconoscibile dell’orrore» (La Storia. Romanzo, Einaudi 2023, p. 20; d’ora in poi s). Chi le appare casualmente davanti è il soldato tedesco Gunther, da Ida scambiato per un funzionario delle SS. Questo è l’evento estremo che fa esplodere nel 1941 il terrore razziale della vittima, sedimentato dalla promulgazione delle leggi razziali quattro anni prima. Sollecitando una violenta crisi epilettica di Ida, l’evento consente alla narratrice di dare voce al mondo più profondo e nascosto di una vittima della Grande Storia. La narratrice usa la traccia della violenza sessuale compiuta da Gunther per innestarsi nel mondo interno di Ida durante la crisi epilettica, simultanea allo stupro. In questo modo, la voce narrante si situa in una zona liminale e magica, in cui esterno e interno, realismo dello stupro e metamorfosi orgiastica dell’epilessia si interconnettono (de Rogatis).

L’epilessia è inoltre transgenerazionale, perché è tramandata di madre in figlio: da Ida a Useppe, i due protagonisti principali del romanzo. La malattia è anche all’origine della nascita e della morte stessa del bambino, che viene concepito durante quello stesso stupro epilettico, e che muore in seguito ad una ultima e più fatale crisi epilettica nel 1947. Dal punto di vista della medicina narrativa (Charon) e del suo specifico modo di concepire la narratività (Calabrese, Villani), la malattia non determina solo le svolte principali del plot ma anche un punto di vista narrativo potentemente empatico verso la sofferenza. Il mosaico narrativo del romanzo ci fa vivere la narrazione della malattia e del suo pathos come una forma composita, polifonica e metaforica di storie e di strati della storia.

Come segno clinico e sociale disseminato e nascosto nel corso della vicenda, l’epilessia è infatti amplificata e sempre più intrecciata allo sradicamento migratorio, alla discriminazione razziale, allo stupro e alla Seconda Guerra mondiale. Ida e Useppe sono legati da una triplice forma di subalternità e diversità. Sono entrambi ebrei per parte di madre e dunque esposti, prima e durante la guerra, alla persecuzione razziale. Soffrono di epilessia, seppure con intensità e momenti diversi. Vivono infine, a partire dal 1946, in una crescente marginalità sociale, collocandosi «nell’ultima zona dei paria» (s 476) a causa dell’intreccio progressivo tra la migrazione di Ida, il trauma razziale e l’epilessia del bambino. A questi aspetti condivisi, si aggiunge per Useppe un ulteriore tratto eccezionale: la nascita illegittima e segreta nel 1941 a seguito dello stupro di Gunther.

j

Prende forma così un groviglio del male, che determina in modi diversi le vite di entrambi i personaggi. Questo groviglio clinico/sociale è inoltre normalizzato dalle vittime stesse (Ida e Useppe) e dall’intero sistema sociale. Essendo nascosto nelle pieghe della vita ordinaria, esso modella di conseguenza il plot come una forma moltiplicata e rifratta di «trauma insidioso» (Brown): una silenziosa incorporazione della violenza, che porta alla morte del bambino, alla eliminazione della cagna Bella e, nove anni più tardi, allo spegnersi di Ida stessa, sopravvissuta in stato vegetativo all’interno di un ospedale psichiatrico.

Le risorse etico-politiche del romanzo nel contesto estremofilo di oggi

Questa storia transgenerazionale di malattia e vulnerabilità sociale non è tuttavia riducibile a una resa al groviglio del male, come pure molti detrattori della sinistra più intransigente hanno storicamente sostenuto. Dal punto di vista dei paradigmi del trauma e della medicina narrativa, la storia tragica di Ida e Useppe è infatti posizionata in modo tale da attribuirle un potere non solo narrativo e conoscitivo ma anche politico (Savettieri).

La scrittrice ha dichiarato che «in questo romanzo i protagonisti (gli eroi) sono coloro che subiscono, ossia le vittime dello scandalo». E tuttavia, non sono Ida e Useppe a raccontare in prima persona la loro storia, perché proprio in quanto malati, immigrati, razzializzati e traumatizzati non sarebbero in grado di farlo. È la questione dell’«ingiustizia epistemica» (Fricker): per i subalterni, al tempo stesso un deficit di credibilità e di risorse comunicative. Lo «scandalo che dura da diecimila anni» – lo scandalo della civiltà umana (i «diecimila anni» appunto) di cui Morante parlava nello strillo di copertina della edizione 1974 del romanzo, – è prima di tutto questo.

Morante mette in scena questa «ingiustizia epistemica» anche attribuendo il compito di raccontare la storia ad una narratrice sdoppiata: a tratti condiscendente e raziocinante verso «la mente stolida e malcresciuta di quella donnetta», Ida (s 647), e a tratti invece profondamente empatica verso i mondi interiori della madre e del bambino e verso la loro complessità pre-linguistica. Per esempio, i sogni di Ida, riportati frequentemente dalla voce narrante, rivelano l’universo onirico di una mente complessa, ma congelata durante la vita diurna dalla dimensione del trauma (Wehling-Giorgi). Rimosso o censurato dalla memoria e dal linguaggio, il segno della differenza è nel romanzo una vergogna incorporata, che passa attraverso una pletora di sintomi fisici, immagini e sogni da una generazione all’altra, secondo la dinamica della «postmemoria» (Hirsch). Fa parte quindi del mosaico della Storia e della straordinaria modernità del suo realismo opaco questa voce voce sdoppiata tra condiscendenza borghese ed empatia, tra ricostruzione etnografica e veggenza sciamanica.

Ma se Ida e Useppe non hanno materialmente la possibilità di dire io, se la loro agency è strutturalmente ammutolita, cosa resta a noi lettrici e lettori se non lo sprofondamento nel doppio fondo del loro trauma? In realtà, Il potere politico del romanzo è affidato proprio a noi. La scrittrice ci affida il compito di immedesimarci empaticamente in Ida e Useppe e di dire in questo modo io, e di farlo non solo a loro nome ma proprio in quanto simili a loro. In quanto una parte di noi vive in loro – e viceversa – grazie all’esperienza immersiva del realismo traumatico e del suo pathos.

Il mosaico della storia si apre infatti nell’ultimo capitolo narrativo (…1947) ad una controfattualità positiva. Questa potenzialità narrativa coagula la linea della gioia e della vitalità che Useppe, bambino messianico, ha incarnato nel corso di tutta la vicenda. La scoperta dello spazio edenico sulla riva del Tevere e le tante tappe generative di questo spazio (l’amicizia con l’altro bambino marginale, Pietro Scimò, il sogno del lago dei bambini, le «voci del silenzio», il dialogo con la cagna Bella) sono tutti snodi di una alternativa controfattuale, ad un passo dalla fine.

Dopo la morte di Useppe, la frase semiclausolare «….. e la Storia continua…..» rinvia invece al ciclo ininterrotto della violenza umana. Ma dopo questa stessa frase si legge un’ultima epigrafe. Essa è posta a chiusura dell’intero romanzo prima della parola «FINE» ed è tratta dalle Lettere dal carcere di Gramsci: «Tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente è un fiore e non un'erbaccia. (Matricola n. 7047 della Casa Penale di Turi)» (s 657). L’epigrafe consolida la controfattualità positiva del capitolo …1947, alludendo alla possibilità ancora aperta di interrompere la spirale della Grande Storia attraverso il seme di altre microstorie, analoghe a quelle di Ida e Useppe, analoghe a quelle del detenuto Antonio Gramsci. Le nostre storie.

Il potere etico-politico del romanzo e le sue risorse di sopravvivenza nel mondo estremofilo di oggi si fondano sul pathos che il romanzo genera nel lettore, immergendolo simultaneamente in una dimensione radicale del trauma ma anche in un’altrettanto radicale, e ben più misteriosa, forma di speranza. Come rivendica la narratrice nel capitolo …1947, tale speranza si fonda sul potere riparativo del racconto:

E allora a qualcuno adesso parrà inutile raccontare la restante vita di Useppe, durata ancora poco più di due giorni, e già sapendone la fìne. Ma a me non pare inutile. Tutte le vite, invero, hanno la medesima fìne: e due giorni, nella piccola passione di un pischelluccio come Useppe, non valgono meno di anni. Che mi si lasci, dunque, restare ancora un poco in compagnia del mio pischelluccio, prima di tornarmene sola al secolo degli altri (s 625).

La forma del romanzo è catartica e sovverte quindi il luogo comune, molto diffuso anche tra estimatrici ed estimatori del romanzo, della sua assoluta negatività.

Leggi anche:
Graziella Bernabò | Elsa Morante: come leggere “La Storia”
Massimo Schilirò | "La Storia": Morante narratrice senza anagrafe
Elena Porciani | La voce della Storia di Elsa Morante
Umberto Gentiloni | La storia ne "La Storia" di Elsa Morante
Monica Zanardo | Elsa Morante: personaggi in coro
Francesca Rubini | Roma fra le pagine della Storia
Emanuele Zinato | Ragazzini e animali nella "Storia"
Stefania Lucamante | Elsa Morante: il passato, la traccia e l'oblio

In occasione dei 50 anni dalla prima pubblicazione del romanzo La Storia di Elsa Morante nel 1974, Biblioteche di Roma e doppiozero propongono dal 24 settembre al 17 dicembre 2024 una nuova rassegna Alfabeto Morante, Lezioni in biblioteca dedicata a una delle autrici più significative del Novecento.

Giovedì 5 dicembre ore 11.00 Fiera Più libri più liberi – Spazio Arena di Biblioteche di Roma. L’attualità della Storia con Tiziana de Rogatis

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
TAGGED: Elsa Morante