La visione
La visione
Tratta Udine -Venezia, ore 8.07 (andata)
Al quarto annuncio di ritardo del “Regionale Veloce 2449”, penso che chi ha dato il nome a quel treno non sia una persona prudente.
Quando i passeggeri prendono posto sono comprensibilmente nervosi. Molti di loro per “solo” 48 minuti hanno perso la coincidenza con qualche Freccia Bianca, Rossa o Argento. Alcuni imprecano contro le ferrovie, il governo e la Fiat, che finisce sempre per essere nominata quando si insulta la rete ferroviaria.
Non fa caldo, è autunno, ma i finestrini sono tutti aperti e le tendine sbatacchiano rumorosamente creando un effetto “diligenza inseguita dagli Apaches”. Forse è solo un trucco del capotreno per enfatizzare la velocità e il recupero del ritardo. Al mio fianco c’è una signora, che brontolando tiene ferma la tendina e oscura luce e visuale. Difficile leggere con questo clima cupo. Oltretutto finisce per insultare pesantemente un ragazzo con le cuffiette solo perché non riesce a chiudere il finestrino. Ci provo anch’io, ma nonostante il fallimento, vengo risparmiata.
A Codroipo salgono due donne anziane. Sono sorridenti, sembra che per loro il ritardo del treno sia stato un regalo. Frequentano la medesima parrucchiera, ne sono certa. Certa quanto che la stessa sia dotata di uno spiccato talento comico, perché le due testoline bianche si distinguono solo per una pronunciata sfumatura rosa in una e azzurra nell’altra.
Sembrano due fate.
Sono minute ed eleganti nella loro semplicità fatta di camicette stirate bene e abiti puliti. Osservo le loro mani, che si assomigliano come cartine geografiche piene di fiumi. Noto la somiglianza anche nei modi di fare. Usano lo stesso codice. Si danno prima un colpetto sul ginocchio per avvertirsi vicendevolmente se c’è qualcosa di interessate fuori dal finestrino o dentro lo scompartimento, poi parlano sottovoce avvicinando le teste. Riesco a catturare un commento sulle coltivazioni in un friulano suadente e antico. A Pordenone finalmente scende la signora che non ha mollato neppure un istante la tendina e sale molta gente. Tutti vengono ispezionati dalle due vecchie amiche, che non danno però l’impressione di essere due pettegole. Anche se i commenti si fanno più fitti, hanno un atteggiamento curioso ma discreto. Finita la sfilata dei personaggi si concentrano di nuovo sullo scorrere delle immagini dal finestrino. Leggo fino alla lunga fermata di Treviso e lì la fauna che sale sul vagone si fa più interessante. Anche per loro. Un paio di ragazze piene zeppe di piercing, un rasta, tre suore di un ordine che neppure loro conoscevano e una intera famiglia di obesi, forse italoamericani, per la quale lo sguardo di entrambe si colloca a metà tra lo spavento e la pietas.
Il commento sulla famiglia obesa prende molto tempo, in proporzione alla mole dei soggetti. Riprendo a leggere fino al passaggio di un’ombra nel corridoio, che fa scattare in piedi “fata rosina” al motto di -viot-viot-viot!- (guarda-guarda-guarda!), seguita dalla sua amica, che si gira per vedere bene la figura appena passata. La reazione è immediata. Le due scoppiano a ridere trattenendo i versi con le mani sulla bocca. A questo punto abbandono l’atteggiamento discreto e mi sporgo per vedere cosa c’è. Se ne accorge “fata turchina”, che si rivolge a me dicendo - non lo perda che merita! - e riprende a ridere. Fingendo di cercare una toilette, seguo l’ombra nello scompartimento successivo e scopro il motivo di tanta ilarità. È un “riportino”! Qualche colpo di vento l’ha separato dalla testa pelata di un poveretto, rimasto con tre ciocche scure sul cranio pallido e lucido, che partono dalla nuca e arrivano a formare una penosa frangia, con una quarta ciocca che fluttua libera in tutti i suoi 40 centimetri, come una biscia in un ruscello.
Rientrata nello scompartimento ritrovo le due fatine in piedi, in piena crisi di ridarola, che aspettano un mio cenno di complicità. Per un istante quell’immagine si sovrappone alla mia allucinazione e vedo due ragazzine di non più di undici anni, con le guance rosse dal gran ridere e gli occhi lucidi e innocenti.
Il ritorno
Tratta Venezia - Udine, ore 19.04 (ritorno)
Un complotto internazionale formato da trolley giapponesi, zaini australiani e pesanti valige francesi ha impedito che scendessi per tempo dal vaporetto, così ho perso il treno delle 18.04.
Non vengo neppure sfiorata dall’idea di prendere quello successivo, alle 18.18 che, anche se si chiama Regionale 11020, è un accelerato di vecchia memoria, si ferma a tutte le stazioni, e si riempie e si svuota ad intermittenza di gente stanca e nervosa.
Mi travesto da turista e passo un’ora a girovagare nei pressi della stazione Santa Lucia. Non ho messo in conto quanto sia stancante il girare a vuoto e appena salita sul treno delle 19.04, complice il riscaldamento acceso al massimo, mi addormento.
Quando riapro gli occhi la luce è accecante e il cristallino, che è più pigro di me, fatica a mettere a fuoco una coppia di giovani, grossi, canadesi, che si è materializzata nei posti di fronte. Penso che i canadesi debbano essere molto fieri del loro Paese, perché segnalano attraverso qualsiasi mezzo la loro provenienza. Magliette, adesivi, calzini. In questo caso si tratta di un cappellino, indossato dal soggetto maschile. Realizzo che la stazione di Mestre è passata da un bel po’ senza che mi accorgessi di nulla e trovando lo spettacolo poco interessante decido di chiudere gli occhi per riaddormentarmi.
L’immagine sfocata dei due resta impressa sotto le palpebre, in mezzo ai depositi di proteina che danzano. Non capisco cosa non mi faccia dormire. Qualcosa nella coppia deve avermi colpito, a parte il cappellino, ma continuo a tenere gli occhi chiusi. Tendo l’orecchio e non sento nessun suono. So che sono ancora lì, ma non si scambiano neppure una parola. Nonostante il caldo e tenendo sempre gli occhi chiusi, mi copro il viso con la sciarpa per permettermi di osservare senza essere vista.
La visione è straordinaria, per un istante ho l’illusione di essere in una galleria d’arte contemporanea. Sono iperrealisti quanto e più di una scultura di Duane Hanson. Inespressivi e immobili, hanno lo sguardo perso nel vuoto in direzioni opposte, distanti l’uno dall’altra, uniti solo da quel sottile filo bianco che termina in due auricolari, uno a testa.