L’altra Italia di Franchi e Ingrassia

9 Dicembre 2022

Su Franco Franchi e Ciccio Ingrassia la partita si può giocare ormai tra la metà campo del cartaceo e quella dell’audiovisivo con pochi esemplari di rilievo, spesso irreperibili poiché solitamente nati in circostanze editoriali a corto respiro. In testa a tutti mantengono alta la bandiera il corposo volume appena editato di Alberto Pallotta e Andrea Pergolari, Franco e Ciccio. Storia di due antieroi. La biografia autorizzata (Sagoma, 496 pagine, 28 euro), e gli intramontabili cento minuti di Daniele Ciprì e Franco Maresco di Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Franco e Ciccio (2004). 

La completezza ex post di questi lavori molto documentati è però sintomatica di una lacuna a monte di quella che è stata l’altra “storia” dei due attori, comici per necessità e autenticamente popolari per estrazione sociale e collocazione geografica svantaggiate. È mancata infatti un’intervista ai diretti interessati organica e dilazionata, capillare e paziente: realizzata cioè per bene e a tempo debito, in grado di ripercorrerne in più sedute le rispettive biografie private, ambientali e artistiche, con annesse sterminate filmografie spalmate nell’arco di quasi quarant’anni di storia (dello spettacolo in Italia e del cinema, ma anche del malcostume e della politica). Una storia completa e complessa, moltiplicata per due se si volessero considerare anche le biforcazioni professionali di Franco e Ciccio negli anni Settanta. 

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Con un anniversario a testa, poiché quest’anno cadono i trent’anni dalla morte di Franco (9 dicembre 1992) e i cento dalla nascita di Ciccio (5 ottobre 1922), la domanda resta aperta: perché in vita non si è proceduto a storicizzare a dovere, nel vero senso del termine, una coppia così unica nell’offrirsi come specchio bifronte di epoche cruciali, di consecutivi strappi, trasformazioni e assestamenti?

Il dato assai rilevante è quello della quantità di titoli di film, che non è inversamente proporzionale alla qualità, ma ne è semplicemente un riflesso condizionato. La “sostenibilità materiale” di Franchi e Ingrassia nasce dal numero impressionante di film interpretati a tempo di record, data la provenienza e il contesto artistico in cui operarono e vennero risucchiati: esattamente come la pasta e fagioli eccessivamente salata che dal piccolo Franco venne non divorata bensì, come egli stesso ricordava, addirittura “sucata”. 

In assenza di un contributo ad hoc su ciascuno, non resta che disseppellire e studiare uno a uno, a dispetto di quell’impressione generale che rischierebbe invece di confondere, sovrapporre, semplificare. Filmografie così sterminate, eppure tutt’altro che dozzinali, non sono affatto omogenee. Reclamano piuttosto un’attenzione di volta in volta circostanziata proprio per individuare la singolarità, ovviamente raddoppiata, di ciascun esemplare che non potrebbe essere alla cieca compreso nel mucchio. 

Non esiste un disegno d’insieme, se non approssimativo e al ribasso, della comprensione di Franco e Ciccio (o di Ciccio e Franco, intercambiabili nella gerarchia onomastica e performativa), bensì una serie di circostanze da cui ripartire distinguendo in continuazione: il teatro dalla radio, il cinema dalla televisione, le parodie dalle parabole grottesche, i musicarelli dai film comici e da quelli drammatici, i documentari dai film di montaggio o dalle antologie, i riferimenti espliciti alla cronaca, al costume e alla storia dalle parabole fantastiche. 

Poi i decenni e i registi, uno dall’altro: gli inaugurali anni Cinquanta dai determinanti anni Sessanta, poi dai Settanta, Ottanta, Novanta; oppure Lucio Fulci da Giorgio Simonelli, Mario Mattoli da Gianni Puccini, Giorgio Bianchi da Camillo Mastrocinque, Steno da Mario Bava, Marino Girolami da Marcello Ciorciolini, Sergio Corbucci da Mariano Laurenti, Mino Guerrini da Osvaldo Civirani e così via; fino ad arrivare alla squadra degli autori, più o meno dichiarati tali, che li hanno convocati in coppia (Vittorio De Sica, Gianni Puccini, Pier Paolo Pasolini, Luigi Comencini, Paolo e Vittorio Taviani); o, singolarmente, Ciccio (Federico Fellini, Elio Petri, Florestano Vancini, Ettore Scola, Dino Risi, Daniele Luchetti, Felice Farina, Leone Pompucci), anziché Franco (che in questa categoria eletta dovrà accontentarsi del solo Alberto Bevilacqua).

Citare i titoli significherebbe ipotecare l’intero testo dell’articolo. Meglio evitare la trappola, anche per sviare l’effetto gerarchico tra alto e basso, distinzione quanto mai priva di senso e di spessore nella fattispecie di caso combinato. Ma già da questa discriminante del cinema d’autore si evince il duraturo pregiudizio di fondo: su Franco, che da solo sullo schermo poteva aspirare alla regia di Nando Cicero per Ultimo tango a Zagarol; mentre Ciccio, maschera tragica alla pari, inseparabile dal coté comico, sembrava vantare invece ben altro novero autoriale e dirigersi all’occorrenza in proprio (L’Esorciccio, Paolo il freddo).

In realtà, le opportunità sostanziali avute da Ciccio rispetto a Franco celavano un equivoco, sciolto suo malgrado dallo stesso Ingrassia. In una scena del documentario La macchina cinema di Agosti, Bellocchio, Rulli e Petraglia, lo vediamo intervenire nel corso di una becera manifestazione cinematografica a premi. Come lo zio matto in cerca di una donna del felliniano Amarcord (ma questa volta non per finta), si lancia in un intervento disperato, denunciando amministratori truffaldini e produttori disonesti. Le sue parole, accolte con imbarazzo dal gotha del cinema italiano, cadono nel vuoto: Ingrassia si ritrova ben presto emarginato.

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Franchi e Ingrassia con Paolo e Vittorio Taviani sul set dell’episodio “La Giara” (1984).

Separati, Ciccio e Franco sono rimasti nell’immaginario del pubblico gli spettri dell’accoppiata comica. E il cinema d’autore, isolando Ciccio per condannarlo a una prestigiosa solitudine, o con più lungimiranza riunendoli, ha operato una rilettura in senso umoristico, che il Kaos dei Taviani ha definitivamente tradotto in accezione pirandelliana diretta. Eppure è proprio in La giara, il segmento occupato dai perennemente complementari Franco e Ciccio sotto l’egida dei fratelli-registi altrettanto complementari, che il malessere e la drammaticità segreta dell’eroe plebeo, artigiano e analfabeta Franco si percepisce al cospetto della recita del benessere possessivo, giuridico e ignorante del “padrone” Ciccio. La vocazione e la destinazione d’uso alla comicità come marchio di fabbrica univoco di Franco, l’Augusto sottostimato e contrapposto al Clown Bianco Ciccio, lascia nei primi piani a lui riservati dai Taviani tracce inconfutabili di una sofferenza atavica, che fa ridere semmai soltanto per difetto di istruttoria critica e spettatoriale. 

Rivedendo oggi un film paradigmatico come 00-2 agenti segretissimi di Fulci (tra i massimi incassi registrati dalla formula Franco & Ciccio), al di là di necessari approfondimenti che il sottotesto spionistico per niente esagerato esigerebbe, è chiara la condizione assegnata: il “due” numerico è il quoziente già infimo assegnato da un test di intelligenza al personaggio di Ciccio, mentre lo “zero” assoluto è quello riservato, per ulteriore sottrazione a Franco. In questa puntigliosa distinzione nella comune sottovalutazione delle due macchine ridanciane a ciclo continuo, spremute fino all’ultimo, prende forma la crudeltà di cui lo schermo d’autore, possibilmente pirandelliano, recepisce i segni. E non è un caso che il declino della fortuna al botteghino della coppia, costretta ad un divorzio duraturo ma per fortuna provvisorio, giunga con gli anni Settanta in cui la commedia greve alza l’asticella dei pruriti sessuali espliciti, da cui il mondo candido e al massimo allusivo dei due comici palermitani sembra autoescludersi, rinunciando all’incontenibile bulimia del pubblico di bocca troppo buona ma ingrassato decisamente male. 

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La parabola ascendente degli anni Sessanta inverte la curva quando la storia italiana e il divertimento si stemperano definitivamente nella trivialità più spinta, rifugio estremo di un’oscenità irrimediabile della cornice storico-politica di riferimento. L’innocenza di Franco e Ciccio non regge a un certo punto al contraccolpo della vergogna imboccata dalla società di massa e di conseguenza persino dallo spettacolo sboccato e irrimediabilmente alla deriva. Il cattivo gusto elevato a potenza davvero scurrile avrebbe potuto nobilitarne i lontani natali, portarli al rango borghese. Un’operazione non meno umiliante del precedente iper-sfruttamento commerciale, per di più temperata da un atteggiamento snobistico che li avrebbe compensati e risarciti soltanto in apparenza.

L’emarginazione del modello di spettacolo della coppia – che a un certo punto, per necessità e sopravvivenza, è scoppiata – rappresenta un vero e proprio momento di non ritorno. Di più: nel quadro del collasso dell’intero Paese, sotto i colpi dell’involgarimento collettivo, della strategia della tensione e degli anni di piombo, assume addirittura i contorni di un sussulto spontaneo e limpido di dignità. E la dignità, espressione reale e sinceramente proletaria di un certo approccio all’intrattenimento al tempo stesso artistico e alimentare, è qualcosa che non paga e, peggio ancora, si paga. In questo caso soffrendo: segretamente più Franco che Ciccio, costretto, rispetto al collega, a far ridere comunque e sotto ogni cielo.

Rileggere oggi allegoricamente o reinterpretare quelle risate spontanee e ingenue, capitalizzate dalla coppia negli anni di una crescita economica generale e prima di una irrecuperabile flessione morale che ancora grava sul presente con i suoi fantasmi, significa comprendere pezzo per pezzo la storia nazionale in senso lato. E accorgersi dello sforzo crescente di far ridere gli altri, disegnato sul volto del conciatore di brocche inviso al padrone della “roba”, vuol dire prendere atto di un’occasione ormai persa per sempre. Quella di scoprire, per bocca loro e in maniera particolareggiata, tra le pieghe del gigantesco e tentacolare impianto Franco&Ciccio, le infinite crepe di una “giara” enorme ma insidiosa, in cui per primi, entrati incautamente spinti dal bisogno, Franchi e Ingrassia sono rimasti bloccati come involontari ostaggi o straniati prigionieri.    

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